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"Stephen King, sciamano minimalista"

di Massimo Introvigne (da Avvenire, 24.1.1997)

 

Mentre escono in Italia (da Sperling & Kupfer) i suoi due ultimi romanzi - Desperation [1] e I vendicatori (The Regulators), quest’ultimo scritto sotto lo pseudonimo (usato, ci si dice per l’ultima volta) di Richard Bachman [2] - è bene ricordare che ci sono buone ragioni per riflettere sul fenomeno Stephen King. Si tratta del più letto romanziere vivente, anzi del più letto di tutti i tempi. E’ l’unico scrittore tra i Forbes 500, le cinquecento persone fisiche più ricche del mondo secondo la rivista americana Forbes. Il suo reddito annuale è paragonabile a quello di una media industria internazionale e supera il bilancio dello Stato di un certo numero di paesi del Terzo mondo [3]. Nonostante tutto questo, Stephen King non è particolarmente amato dai critici. I saggi di taglio accademico sulla sua opera - come quelli di Tony Magistrale, Douglas E. Winter e George Beahm [4] - si contano sulle dita di una mano, mentre su romanzieri che non raggiungono la decima parte dei lettori di Stephen King esistono intere piccole biblioteche. In più, i saggi universitari sono spesso critici: gli viene spesso rimproverato, per esempio, di non riuscire a dare spessore ai suoi personaggi femminili e di trattare l’amore e la sessualità in modo superficiale e immaturo [5]. Il romanziere americano - come ha rivelato in numerose interviste e nella sua opera teorica Danse Macabre [6] - legge le critiche in modo sistematico, e ne tiene conto. Per esempio, nei suoi romanzi Il gioco di Gerald (Gerald’s Game) e Dolores Claiborne [7] si è consapevolmente sforzato di rispondere a chi gli rimproverava di non sapere inventare personaggi femminili credibili. Ultimamente, tuttavia, Stephen King segue più i lettori che i critici. A differenza di Anne Rice - la cui fama può essere paragonata alla sua negli Stati Uniti, ma che è molto meno nota all’estero - non si risente se lo si definisce un autore per il grande pubblico. I suoi romanzi dell’orrore sono macchine letterarie per avvincere il maggior numero possibile di lettori, non pretesti - come capita sempre più spesso ad Anne Rice - per proporre una particolare visione del mondo (nel caso della scrittrice di New Orleans di tipo esoterico e neo-gnostico) [8].

Un certo tipo di critico letterario potrebbe dunque anche disinteressarsi di Stephen King, augurandogli buona fortuna finché i lettori continueranno ad apprezzarlo. Al contrario i sociologi e gli osservatori della scena culturale contemporanea dovrebbero sentirsi obbligati a porre la domanda sulle cause di un fenomeno letterario che, per dimensioni, non ha precedenti né paragoni nella storia. Potrebbero cominciare con il rispondere, con il saggio Horror and the Holy dello psicologo Kirk J. Schneider, che l’esperienza dell’orrore (come l’esperienza del sacro, a cui si avvicina) fa parte integrante della vita umana ed è in qualche modo necessaria per lo sviluppo di una personalità umana equilibrata e completa [9]. Questa risposta spiega il perdurante successo del genere horror: il Dracula di Bram Stoker, pubblicato esattamente cento anni fa nel 1897, continua ad essere il singolo romanzo più letto di tutti i tempi. Perché, tuttavia, in un genere oggi sovraffollato, Stephen King sbaraglia tutti i concorrenti? Anzitutto, in una società che censura la morte, il romanziere americano la riporta davvero al centro dell’attenzione. Se in alcuni suoi romanzi la morte, semplicemente, trionfa, molte volte si lascia intendere che c’è una speranza. In una delle sue ultime fatiche, Desperation, il mostro è un antico demonio, Tak, che è rimasto sepolto in una miniera per secoli. Disturbato, ne riemerge per seminare morte e distruzione. Lo sconfiggerà un bambino di undici anni, David Carver, che riceve messaggi direttamente da Dio. Accanto a David c’è uno scrittore in crisi, Johnny Marinville. La coppia bambino-scrittore non è nuova per Stephen King, ed è la stessa che sconfigge i vampiri nel suo secondo romanzo, Le notti di Salem (’Salem’s Lot) [10], che molti considerano la sua opera migliore. La morte non può essere censurata, ma la speranza rappresentata dai bambini e dall’arte in qualche modo la addomestica. Desperation è uscito negli Stati Uniti lo stesso giorno del romanzo "gemello" I vendicatori. Qui ritroviamo alcuni degli stessi personaggi. Il demonio Tak, in un classico esempio di possessione, si impadronisce di un bambino autistico di sei anni, Seth Garin. David Carver - qui ormai adulto, un padre di famiglia che vive nell’Ohio -, che in Desperation sembrava vincitore, finisce ammazzato. Tak si diverte a guardare la televisione e a organizzare stragi tramite i MotoKops, pupazzi che ricordano tanto i familiari (ma talora inquietanti per gli adulti) Power Rangers. Rispetto a Desperation cambia lo scenario, dal deserto del Nevada a una cittadina di ricchi nell’Ohio, e non c’è più Dio, sostituito dal dio dei sobborghi benestanti, la televisione. Come altre opere firmate Richard Bachman, il romanzo non è forse riuscitissimo, ma un elemento resta tipico di Stephen King. Nel romanzo dell’orrore classico il protagonista è buono e l’antagonista è mostruoso. Nell’horror postmoderno alla Anne Rice l’antagonista diventa protagonista - il lettore normale sta dalla parte del vampiro, non dei suoi avversari - e i ruoli si confondono. Stephen King ritorna all’horror classico (uno dei suoi modelli, scrive in Danse Macabre, è Dracula) [11], ma tiene conto del passaggio postmoderno. I suoi lettori desiderano che i "buoni" vincano sui mostri, ma le vittorie del bene sono sempre fragili e precarie. Un altro tema centrale è la scarsa fiducia - così tipica dell’America di oggi - nelle grandi istituzioni. Di fronte al male lo Stato, la polizia (in Desperation c’è un poliziotto cattivissimo dietro cui si nasconde Tak), le istituzioni in genere sono nel migliore dei casi impotenti, più spesso complici. La piccola comunità, il villaggio (mai la grande città) - che ritorna spesso nei romanzi di Stephen King - tenta di resistere, ma fallisce. Ultimamente, di fronte al male assoluto e alla morte, l’unica forza che conta è la famiglia, anzi (posto che le donne sono spesso secondarie) il rapporto fra padre e figlio, carnale o (come nelle coppie scrittore-bambino) simbolico, che si estende tramite la rete di amicizie in piccole, private tribù.

Questi motivi possono essere estratti dalle trame di Stephen King, ma non vengono mai tematizzati. "Accertare la sua posizione su un qualunque problema - scrive Edwin Casebeer (e questo è particolarmente vero per il problema della religione) - non è mai semplice. L’ambiguità spiega anche il suo grande successo, perché lettori molto diversi possono arrivare a conclusioni altrettanto diverse sulle sue idee" [12]. Ciascuno può illudersi che Stephen King sia d’accordo con lui. Il romanziere americano può anche essere definito, con le parole dello stesso critico, uno "sciamano moderno" [13], nel senso che accompagna milioni di persone verso un faccia a faccia con la morte che in altri contesti tutti cercano di evitare. Come uno sciamano, insegna loro ad addomesticare la morte attraverso semplici rituali che riaffermano la fedeltà non a istituzioni complesse ma alla famiglia o alla tribù. Ma si tratta di uno sciamano minimalista, che di fronte alla morte e all’orrore non presenta senza ambiguità la risposta religiosa tradizionale (a cui pure allude in romanzi come Desperation), né propone con chiarezza un’alternativa esoterica e gnostica come fa una Anne Rice. Suggerisce, al massimo, l’efficacia dei piccoli riti del quotidiano. Ogni epoca, del resto, ha gli sciamani che si merita. Lo straordinario successo di Stephen King è un’ulteriore conferma del fatto che viviamo in un tempo di identità deboli, che anche di fronte al "caso serio" della morte diffida per confusione o stanchezza dei grandi ideali. Il fenomeno Stephen King non è una causa, ma una conseguenza. Non si tratta tanto di disapprovare lo scrittore americano che almeno, rispetto ad altri, salva qualche modesto valore. Si dovrebbe piuttosto raccogliere la sua implicita sfida, cercando nuove strade per offrire le grandi risposte della fede all’orrore e alla morte, che continuano ad abitare in mezzo a noi e che, per troppo tempo, abbiamo cercato di ignorare.

Note

[1] Stephen King, Desperation, trad. it., Sperling & Kupfer, Milano 1996. [back]

[2] Richard Bachman, I vendicatori, trad. it., Sperling & Kupfer, Milano 1997. [back]

[3] Cfr., per questi dati, Edwin F. Casebeer, Stephen King’s Canon. The Art of Balance, in Tony Magistrale - Michael A. Morrison (a cura di), A Dark Night’s Dreaming. Contemporary American Horror Fiction, University of South Carolina Press, Columbia (South Carolina) 1996, pp. 42-54 (p. 42). [back]

[4] Cfr. Tony Magistrale, Stephen King: The Second Decade, from Danse Macabre to The Second Half, Twayne, New York 1992; Douglas E. Winter, Stephen King. The Art of Darkness, Signet, New York 1996; George Beahm, The Stephen King Story. A Literary Profile, Andrews & McMeel, Kansas City 1991. [back]

[5] Cfr. per esempio Mary Pharr, Partners in the Danse. Women in Stephen King’s Fiction, in Tony Magistrale (a cura di), Dark Descent. Essays Defining Stephen King’s Horrorscope, Greenwood Press, New York 1992, pp. 19-32. [back]

[6] S. King, Danse Macabre, trad. it., Theoria, Roma-Napoli 1992. [back]

[7] S. King, Il gioco di Gerald, trad. it., Sperling & Kupfer, Milano 1995; Id., Dolores Claiborne, trad. it., Sperling & Kupfer, Milano 1995. [back]

[8] Cfr. sul punto la mia Book Review di Anne Rice, Memnoch the Devil (Alfred A. Knopf, New York 1995) inTransylvanian Journal: Dracula and Vampire Studies, vol. 1, n. 1, autunno 1995, pp. 35-37. [back]

[9] Kirk J. Schneider, Horror and the Holy. Wisdom-Teachings of the Monster Tale, Open Court, Chicago-La Salle (Illinois) 1993. [back]

[10] S. King, Le notti di Salem, trad. it., Bompiani, Milano 1979. Per un ampio commento critico cfr. Gregory A. Waller, The Living and the Undead. From Stoker’s Dracula to Romero’s Dawn of the Dead, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1986, pp. 238-254. [back]

[11] S. King, Danse Macabre, cit., p. 48. [back]

[12] E. F. Casebeer, op. cit., p. 44. [back]

[13] Ibid., p. 47. [back]


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