CESNUR - center for studies on new religions

Islamici conservatori cercasi

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 2, n. 50, 13 dicembre 2003)

Gli USA hanno distrutto “La base” di Osama bin Laden, ma ne sopravvivono cellule indipendenti, comunque operative. L’Occidente cerca interlocutori nell’islam laico, ma in realtà sono più affidabili gl’integralisti. Che non sono però tutti uguali

Sul terrorismo in Irak, dopo Nassiriya e gli attentati successivi, si sono dette molte cose. Alcune – riecheggiate anche da qualche politico nostrano – sono basate su una nozione del tutto inadeguata dell’attuale situazione del terrorismo islamico in generale e della sua presenza in Irak in particolare. Mi limito a quattro esempi.

Nessuna resistenza

Il criminale attentato di Nassiriya, con ogni probabilità, non ha nulla a che fare con la cosiddetta “resistenza irachena” di cui alcuni parlano. Tale presunta “resistenza” è l’ultima raffica di un regime terrorista e assassino che si è mantenuto al potere in Iraq grazie ai gas asfissianti e alle fosse comuni, oltre che grazie alla complicità affaristica e talora ideologica – meglio un nemico che un amico degli americani, meglio il peggior esponente del mondo “laico” del partito Baath che il miglior esponente religioso – di diversi governi europei, Francia in testa. Ma Nassiriya è sempre stata una delle città irachene più ostili a Saddam Hussein, che ne ha terrorizzato la maggioranza sciita con ogni mezzo. Chiunque siano gli esecutori materiali, la tecnica utilizzata corrisponde al marchio di fabbrica di al-Qa’ida, descritto nella voluminosa Enciclopedia del Jihad compilata da Osama bin Laden e dai suoi collaboratori. È quasi come se avessero lasciato la firma. Dunque non “resistenza” di una popolazione ispirata da un presunto orgoglio nazionale contro gli “occupanti”, ma ennesima strage di un terrorismo internazionale che spara sull’ONU, sulla Croce Rossa, su pacifici abitanti della capitale dell’Arabia Saudita, su contadini algerini (musulmani) inermi e anche su italiani colpevoli solo di aiutare la popolazione con la generosità propria del nostro ethos nazionale.

La principale battaglia contro al-Qa’ida non è in corso. È già stata vinta dagli Stati Uniti, in Afghanistan. Al-Qa’ida (la “base”, come dice il suo nome) era – come alcuni hanno scritto – un gigantesco “supermercato” del terrorismo islamico: un luogo dove movimenti del fondamentalismo islamico radicale di tutto il mondo, pre-esistenti all’iniziativa di Osama bin Laden e non inventati da lui, venivano a rifornirsi di denaro, armi, addestramento e idee. Un luogo fisico: per addestrare combattenti e ammassare armi occorre controllare un territorio. Questo territorio non esiste più: la base afghana è stata spazzata via, e nessun altro paese del mondo concederà ad al-Qa’ida le vaste estensioni di territorio necessarie a impiantare di nuovo il “supermercato” perché sa quale sarebbe la reazione americana.

Rimane, è vero, l’elemento economico: grazie anche qui alla insufficiente collaborazione europea, la banca è l’unico elemento del supermercato che, non avendo bisogno di territorio, funziona ancora. Ma anche questa ha subito duri colpi. Gli elementi del network chiamato alQa’ida, però, pre-esistevano a bin Laden, e continuano a esistere anche dopo che lo smantellamento della base afghana ha reso difficile il collegamento fra la “testa” e le “gambe” della rete del terrore (i cui dirigenti o sono morti o sono principalmente impegnati a non farsi trovare). Questo successo – la cui portata è raramente concepita dall’opinione pubblica – rende più difficili i “grandi” attentati dell’11 settembre. Tuttavia le “gambe”, in buona parte separate dalla testa, continuano a scalciare ognuna per conto suo.

Gli elementi un tempo riuniti nel network al-Qa’ida hanno ripreso ciascuno la loro autonomia. Essi “sono” ancora al-Qa’ida in quanto a stile e ispirazione, ma le loro azioni locali in gran parte non obbediscono più a un centro unico, quindi sfuggono a ogni logica politica e diventano terrorismo allo stato puro.

Se le cose stanno così, quando si dice che “ai tempi di Andreotti” funzionava il patto secondo cui l’Italia, in cambio di una politica medio-orientale ammiccante e terzaforzista, sfuggiva al terrorismo, si dice insieme una verità e un anacronismo. Andreotti ammiccava ad Arafat, a Gheddafi, ad Assad. Oggi non c’è neppure più nessuno cui ammiccare. Non funzionerebbe neppure più mettersi d’accordo sottobanco con la testa di al-Qa’ida (un sospetto che in passato ha sfiorato più di un esperto di intelligence americano in relazione ai soliti francesi), perché la testa non controlla più le gambe.

La “sindrome di Voltaire”

Da tempo, sostengo che uno degli errori dell’Occidente nel trattare con l’islam – originario o d’importazione tramite l’immigrazione – consiste nel soffrire di una “sindrome di Voltaire” che spinge a immaginare che l’unico interlocutore accettabile sia il “laico” culturalmente occidentalizzato e sostanzialmente miscredente. Questi “laici” esistono, ma raramente godono del sostegno popolare. Possono governare, come Saddam o i generali algerini, ma governano contro la loro società civile con il terrore e l’arbitrio. Penso anche che uno dei problemi sia semantico: noi chiamiamo – certo per mancanza di categorie più adeguate capaci nello stesso tempo di essere largamente condivise – “fondamentalisti” tutti coloro che interpretano l’islam in modo conservatore e vogliono una politica ispirata dall’islam. Così “fondamentalista” è il partito al governo in Tuchia, fondamentalisti sono i Fratelli Musulmani, e “fondamentalisti” sono i vari spezzoni di al-Qa’ida.

Qualche distinzione, invece, si impone.

C’è un islam politico conservatore che afferma di voler considerare la legge islamica, la shari’a, come orizzonte ideale e come ispirazione, non come un insieme di precetti codificati una volta per tutte nel Medioevo: che cosa ne potrà risultare è tutto da scoprire, ma è questa l’impostazione che dichiara Erdogan in Turchia (e lo stesso fanno vari intellettuali “fondamentalisti” in Tunisia, in Egitto, in Europa).

C’è un islam “fondamentalista”, ben più conservatore rispetto alle posizioni di un Erdogan, che persegue i suoi scopi “dal basso” con un’operazione “neo-tradizionalista” di islamizzazione della società civile e di partecipazione alla vita politica con mezzi democratici e non violenti. E c’è un islam “fondamentalista” di tipo “radicale” che almeno non esclude, quando non lo organizza e lo pratica, il terrorismo come mezzo di lotta. Con il primo cosiddetto “fondamentalismo”, quello di Erdogan, si può e si deve dialogare: sono forze simili, non i presunti “laici”, che possono offrire alle popolazioni medio-orientali una leadership credibile e ostile al terrorismo. Con i fondamentalisti radicali il dialogo è impossibile, e dopo Nassiriya non è neppure più tempo di dialoghi sottobanco e di furbizie. Restano i fondamentalisti “neo-tradizionalisti”: organizzazioni come i Fratelli Musulmani, peraltro assai diverse nelle loro varie anime nazionali, cui in Italia si ispira ampiamente la dirigenza della più grande delle organizzazioni che si candidano a rappresentare l’islam, l’UCOII (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia).

Si può dialogare con costoro? Il governo italiano può e deve considerarli interlocutori affidabili? La cartina di tornasole è la condanna del terrorismo “senza se e senza ma”: anche quello di Hamas (il che non implica evidentemente – sarebbe assurdo chiederlo all’UCOII o a chiunque altro – indossare la politica del governo israeliano), anche quello ceceno (il che – ancora – non significa non porsi il problema politico e umanitario della Cecenia), anche quello del Kashmir. I terroristi non sono “fratelli che sbagliano” (tanto simili ai “compagni che sbagliano” di un’altra stagione): sono criminali assassini. In un giorno di lutto nazionale fra i più tragici della storia italiana recente, l’UCOII ha avuto l’occasione storica di condannare il terrorismo “senza se e senza ma”. L’ha perduta, come già preannunciava l’adesione di suoi esponenti, una settimana prima, a una manifestazione «contro il sionismo, con l’Intifada e con la resistenza irachena» a fianco di no-global e di movimenti insurrezionalisti per cui l’unico “amerikano” buono è quello morto. L’UCOII nel suo comunicato del 13 novembre ha certo condannato la strage di Nassiriya, ma con un linguaggio pieno di se e di ma, arrivando a sostenere che i caduti italiani erano in Iraq nel «dispregio dell’opinione pubblica e dei valori fondanti della Repubblica». Il segretario dell’UCOII, «a titolo personale» (ci mancherebbe) persevera, e conferma anche la sua presenza alla marcia pro-resistenza irachena di dicembre. Confondere fondamentalisti “neo-tradizionalisti” e “radicali” rimane ingiusto e sbagliato. Ma per l’UCOII l’esame di maturità questa volta è fallito: il nostro governo, nella sua futura gestione dei problemi sul tappeto con l’islam italiano, non potrà che prenderne atto.

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