CESNUR - center for studies on new religions

Il ritorno del Padre in Occidente

di PierLuigi Zoccatelli (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 2, n. 42, 18 ottobre 2003, p. 2)

Che forse dal nostro quarto di mondo non se n'è mai davvero andato. Per questo, comunque, oggi vi abita stabilmente. Lo affermano due specialisti di fama come Massimo Introvigne e Rodney Stark in uno studio destinato a mutare i parametri della sociologia delle religioni

Non c’è più religione, nel senso che il mondo è sempre più secolarizzato e sempre meno interessato alle credenze e alle pratiche religiose? O al contrario ce n’è anche troppa, dal momento che è la religione a causare i peggiori mali del mondo, dagli attentati dell’11 settembre 2001 alle malefatte delle «sètte»? Sull’onda di questi interrogativi d’esordio, lo statunitense Rodney Stark e l’italiano Massimo Introvigne – due fra i maggiori esperti mondiali del pluralismo religioso contemporaneo – hanno costruito un volume che non mancherà di fare parlare di sé, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2003, 160 pp.), uno studio che si pone dal punto di vista della sociologia delle religioni, ma il cui stile scorrevole e discorsivo lo rende di agevole lettura anche per chi non coltiva interessi specialistici.

Già nella densa Introduzione gli autori mettono a fuoco una serie di coordinate metodologiche e concettuali, atte a impostare il quesito sul futuro della religione in Europa e in Italia, avviando così il lettore al primo capitolo (Genesi: il ritorno della religione), nel quale è affrontata una grande controversia che ha diviso il campo delle scienze umane durante il XX secolo, e in una certa misura lo divide ancora oggi. La posta in gioco di questa controversia, è se la religione possa essere interpretata e spiegata secondo criteri religiosi, ovvero sia semplicemente la facciata di «qualcosa d’altro» economico, politico o comunque «materiale»: sia cioè, secondo la nota formula marxista, una semplice sovrastruttura rispetto all’unica vera struttura, quella economico-materiale.

Senza timore di affermare quanto molti considerano non «politicamente corretto», i due sociologi insistono anzitutto sul fatto che, per capire la religione, occorre invece considerarla come oggetto di scelte razionali e consapevoli, cioè che – ultimamente – i fenomeni religiosi si spiegano in quanto religiosi. Per argomentare correttamente questo assunto, Stark e Introvigne si dedicano in primo luogo a rintracciare alcune linee storiografiche di una lunga tradizione culturale di liquidazione degli effetti religiosi in quanto religiosi. La tesi sostenuta dagli autori, invece, si regge su una lettura sociologica di testi prodotti da storici. Così, sempre nel primo capitolo sono analizzate e criticate interpretazioni distorte fondate su pregiudizi materialisti riguardanti le Crociate, le eresie cristiane, forme del messianismo, i «Grandi Risvegli» nell’America del Nord, il movimento per l’abolizione della schiavitù, i «mistici anni 1960», l’esplosione delle nuove religioni giapponesi e il rapporto fra epidemie e dottrine religiose.

La «cifra» della tesi esposta dagli autori a completamento di una rassegna nella quale sono fornite molteplici coordinate interpretative, è che, in realtà, le dottrine religiose sono causa di comportamenti e che, alla prova della storia, le dottrine sono efficaci nella loro capacità di generare impegno e azione. Ma che cosa rende una dottrina socialmente efficace, ovvero persuasiva, credibile e produttiva di risultati sociali? Stark e Introvigne identificano alcuni pilastri di tale discorso nella «plausibilità», nella «chiarezza» e «motivazione sufficientemente insita nella dottrina», nella «portata delle richieste» e nel «valore delle ricompense»; infine, «le dottrine possono essere efficaci solo nella misura in cui possono presentarsi come autorevoli».

Il secondo capitolo (Esodo: quanto è secolarizzata l’Europa?) affronta un’ulteriore grande controversia, quella relativa alla secolarizzazione, la cui teoria classica qui discussa criticamente afferma che, a mano a mano che la conoscenza scientifica avanza, la società si secolarizza e la domanda religiosa viene meno. La modernità implica anche il riconoscimento della libertà di coscienza, che in numerosi paesi determina la nascita di un pluralismo religioso. Quest’ultimo è a sua volta estremamente dannoso per le religioni, perché la presenza di religioni diverse mette in dubbio la plausibilità e la credibilità di ciascuna di esse. Sul filo di questa rappresentazione della «teoria della secolarizzazione», l’opinione comune dominante si è convinta, per lunghi decenni, dell’ipotesi che nei contesti occidentali il credere e il potere e la presenza della religione nella vita pubblica fossero in declino.

Tuttavia, l’enorme vigore religioso negli Stati Uniti – dove, nonostante l’immensa popolarità della scienza e l’alto livello d’istruzione, la religione non mostra alcun segno di declino – ha da sempre costituito una grande difficoltà all’applicazione della «teoria della secolarizzazione», e un’approfondita analisi dei dati statistici e delle implicazioni teoriche pone in rilievo come non si possa liquidare la problematica riconducendola semplicemente a un’«eccezione americana», ma induce a contrastare l’affermazione che le nazioni dell’Europa Occidentale siano tutte e davvero secolarizzate. La riflessione che ne segue discute quindi i dati statistici sulla base di un paradigma alternativo in tema di secolarizzazione, ovvero la «teoria dell’economia religiosa», la quale esamina il fenomeno religioso secondo i criteri propri dei mercati di beni e servizi, postula che la domanda religiosa tende a rimanere costante nel tempo e si pone nella visuale dell’offerta, concludendo che la presenza più o meno intensa della religione nelle società dipende – a meno di interventi da parte dello Stato, che distorcono il «mercato» – dalla capacità e dallo zelo delle religioni nel proporre offerte attraenti per i potenziali fedeli. Una tale impostazione metodologica, peraltro, non esclude una possibile consonanza fra i concetti di «desacralizzazione» e «secolarizzazione», se per secolarizzazione s’intende un processo qualitativo che porta a una minore influenza della religione sulle scelte che la società compie, cioè un mutamento della qualità della religione. Quello che s’intende contrastare – dati alla mano – è invece un approccio alla categoria di «secolarizzazione» in quanto fenomeno quantitativo, come riduzione dell’interesse per la religione e della credenza religiosa.

Svolte le opportune distinzioni fra comportamento religioso organizzato e atteggiamenti religiosi soggettivi, e fra affiliazione e pratica religiosa, una parte importante del secondo capitolo è dedicata a evidenziare le ambiguità intrinseche della «teoria della secolarizzazione» anche quando applicate all’Europa contemporanea, ove non la s’intenda quale processo qualitativo. Un esempio fra gli altri presi in considerazione muove dall’analisi dell’Islanda, spesso presentata come una delle nazioni più secolarizzate della Terra in quanto solo il 2% della popolazione frequenta settimanalmente una chiesa e poiché caratterizzata da una certa rilassatezza dei costumi sessuali. Per contro, assai diversamente da quanto ci si aspetterebbe di verificare nella società «più secolarizzata del mondo», nella stessa Islanda si rilevano «alti livelli di devozione religiosa individuale», «preghiera personale, e alti tassi di battesimo»: il 74% degli islandesi si dichiara religioso, l’82% prega almeno occasionalmente e solo il 2% si proclama ateo. Ne consegue, per gli autori, che «ovviamente questo non è quanto nel linguaggio comune si intende per secolarizzazione».

Il terzo capitolo (Numeri: pluralismo e risveglio religioso in Italia) si concentra sull’esame di ulteriori dati a supporto, indirizzando l’attenzione, in particolare, sulla situazione europea e italiana. Come l’America del Nord è risultata essere la «pietra d’inciampo» della «teoria della secolarizzazione», l’Europa potrebbe costituire il banco di prova fallimentare della «teoria dell’economia religiosa»? In effetti, quello che molti osservatori hanno notato analizzando la situazione religiosa europea è la grande differenza fra livello di credenza e livello di pratica religiosa, che ha spinto per esempio la sociologa Grace Davie a caratterizzare la religiosità degli europei come un «credere senza appartenere» (believing without belonging). Per interpretare i bassi livelli di affiliazione religiosa in Europa, i sostenitori della «teoria dell’economia religiosa» affermano che non si debba fare ricorso al rapporto secolarizzazione/modernità o alla presunta non plausibilità della fede, ma che tale situazione sia l’effetto «di mercati religiosi altamente regolati e monopolistici» che hanno quale risultante il prevenire una sana concorrenza. Per Stark e Introvigne, la riluttanza europea a esprimere le proprie credenze in maniera attiva muove da una meccanica in cui a essere messe in causa sono le Chiese maggioritarie, che si sono date poco da fare per attirare i fedeli: «In realtà, se c’è un gruppo umano in Europa in cui la secolarizzazione è davvero penetrata in profondità, questo è il clero delle Chiese monopolistiche, che in gran parte non solo non è stato capace, ma non ha voluto svolgere attività missionaria».

Il banco di prova scelto dagli autori per collaudare la propria impostazione è offerto dal caso dell’Italia, che negli ultimi decenni è stata «fiduciosamente inclusa fra le nazioni europee che stavano inevitabilmente scivolando verso una situazione di piena secolarizzazione». Alla luce di una disamina degli sviluppi storici dell’economia religiosa italiana «fra controllo e deregulation», Stark e Introvigne dimostrano che «il recente rapido sviluppo di un’economia religiosa italiana caratterizzato dalla concorrenza è stato tra le cause di un sostanziale risveglio religioso; la pratica religiosa è risalita, e così pure le credenze religiose, fra cui alcune tipicamente cristiane». I dati di questo risveglio religioso in Italia mostrano quindi che, anche nel contesto europeo, nonostante la pigrizia delle Chiese monopolistiche sia la causa principale di un basso tasso di religiosità, la deregulation del mercato religioso produce prima o poi forme di risveglio religioso: «Ed è successo proprio così, per quanto la percezione pubblica del fenomeno rimanga modesta». Gli indicatori statistici a supporto di queste osservazioni parlano in un certo senso da soli: dal 1981 al 1999 la percentuale di giovani che afferma di credere in Dio è cresciuta dall’83% al 94%, la frequenza settimanale alle cerimonie religiose è passata dal 35% al 40%, la credenza in una vita futura è aumentata dal 47% al 61%, i giovani che credono all’esistenza dell’Inferno sono passati dal 21% al 45%, coloro che si dichiarano cattolici praticanti sono cresciuti dal 33% al 38%, mentre la popolazione che non considera importante la credenza in Dio è scesa dal 19% al 5%.

Certo, il reale è naturalmente più complesso delle formule, dei dati, delle statistiche e delle teorie, e ne deriva la possibilità che a molta religiosità soggettiva non corrisponda un magis circa la qualità del fatto religioso contemporaneo, poca influenza della religione sulla vita culturale, sociale e politica. Si potrà quindi, ragionevolmente, ma in quest’ottica, ancora argomentare sul declino della religione o sulla «scristianizzazione» dell’Occidente, senza dimenticare però – come concludono gli autori di questo brillante e provocatorio saggio – che il futuro della religione «appare tutt’altro che precario».

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Rodney Stark - Massimo Introvigne
Dio è tornato

Piemme, Casale Monferrato (AL) 2003

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