CESNUR - center for studies on new religions

L'Iraq del dopo-Saddam: guerra, religioni e politica internazionale

di Andrea Menegotto (18 maggio 2004)

In data 24 aprile 2004, l’Agenzia Fides (organo di informazione ufficiale della Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei Popoli ha pubblicato il dossier Le religioni nel nuovo Iraq, scaricabile e consultabile dal sito della sito della stessa Agenzia, che rappresenta un aggiornamento del precedente L’Iraq delle religioni, pubblicato nel marzo del 2003. Scopo del nuovo dossier è quello di tracciare un quadro circa lo stato delle relazioni e il quadro religioso dell’Iraq a un anno dalla fine della guerra che ha portato alla caduta del regime di Saddam Hussein, a fronte della permanenza delle truppe occidentali sul suolo iracheno e del sorgere di nuovi gruppi radicali e di diversi leader religiosi islamici che hanno assunto un ruolo di rilevo sulla scena sociale, culturale e religiosa dello stesso Iraq nella sua fase post-bellica.
Di seguito, chi scrive intende fornire una lettura e qualche considerazione intorno al succitato dossier, il quale ha il pregio di aiutare il lettore a districarsi all’interno del complesso e problematico mondo socio-politico-religioso iracheno. Alla lettura del dossier affiancheremo alcune considerazioni che ci vengono suggerite dagli sviluppi della situazione irachena e internazionale, prendendo ampiamente spunto dalle puntuali letture della medesima situazione fornite da Massimo Introvigne e raggruppate nella sezione Scenari di un conflitto mondiale: ultra-fondamentalismo islamico, terrorismo, anti-terrorismo del sito del CESNUR.

1. Una «guerra islamica globalizzata»

È sotto gli occhi di tutti come questa fase che segue cronologicamente la guerra non è certamente pacifica, caratterizzata com’è quotidianamente da attentati terroristici, attacchi kamikaze, rivolte civili e proteste contro le truppe della coalizione internazionale che presidiamo l’Iraq con l’intento di garantire un regolare passaggio ad una fase politica di governo democratico, con regolari elezioni e con l’emissione definitiva di una Costituzione che garantisca i diritti di tutta la popolazione, certamente negati dalla dittatura di Saddam Hussein.

Come hanno recentemente proposto alcuni analisti e osservatori della scena socio-politica internazionale, appare maggiormente realistico parlare, anziché di fase post-bellica in relazione al solo Iraq, di una più ampia e generalizzata «Quarta Guerra mondiale», essendo quello attuale un confitto che segue le due grandi Guerre storiche e quella che - in maniera eufemistica - è evocata come «Guerra fredda». Il conflitto attuale è - di fatto - una «guerra islamica globalizzata», dal momento che nasce e si sviluppa prima e innanzitutto all’interno del mondo islamico quale lotta condotta dalle organizzazioni ultra-fondamentaliste e radicali, che adottano come loro modus operandi il terrorismo suicida e la violenza, contro i paesi islamici «empi» - ovvero accusati di non applicare in maniera integrale la legge islamica (shari’a) -, che sono oltretutto sorretti dal braccio occidentale, braccio su cui battere - ancora, attraverso il terrorismo e l’azione violenta - affinché ceda e lasci cadere pure i regimi islamici «empi» che sostiene. Da questo punto di vista, se volessimo indicare un motto caratterizzante l’azione delle organizzazioni terroristiche attive in questo quarto conflitto mondiale potremmo ritenere che esso sia «Colpire in Occidente per conquistare il potere in Oriente».

2. Fra paura e dialogo interreligioso

Il dossier Fides è composto da vari articoli con la forma di lanci di agenzia, alcuni dei quali contenenti significative interviste.

Secondo padre Nizar Semaan, sacerdote siriaco iracheno di Mosul si è notato «[...] il sorgere di gruppi radicali e bande violente, formate da estremisti sia nella comunità sunnita che in quella sciita [...] ma, a livello ufficiale, fra i leader religiosi i rapporti sono buoni e non hanno risentito del clima di confusione e di guerra esistente. [...] questi gruppi violenti non rappresentano lo spirito autentico dei credenti iracheni, a qualsiasi fede appartengano». Padre Semaan poi prosegue: «Ma anche i capi religiosi islamici non hanno il coraggio di una condanna esplicita degli attentati, dei rapimenti, delle stragi. Questo rientra nella logica islamica di non condannare l’islam stesso, quando si confronta con lo straniero. Abbiamo visto nei giorni scorsi un bel gesto di alcuni leader sunniti che hanno scritto una lettera aperta affermando che il metodo del rapimento non è accettabile, ma è solo un piccolo passo avanti. Se l’islam non condanna chiaramente questi gesti violenti e i rapimenti, perde credibilità di fronte al mondo occidentale. Il silenzio incoraggia i gruppi radicali a farsi avanti e a credersi depositari della vero islam». Circa lo stato della convivenza, e con particolare riferimento alla situazione dei cristiani, il sacerdote spiega che «La situazione varia a seconda delle città», così a Baghdad «Nei quartieri dove le diverse comunità religiose sono mescolate, si vive meglio, in quelli monolitici invece (ad esempio la zona tutta sciita) c’è maggiore pericolo di esplosioni volente». A Bassora, invece «città totalmente sciita, la situazione è oggi calma (sebbene anche qui la comunità cristiana è stata minacciata), anche per la politica moderata adottata dagli inglesi».

L’impegno interreligioso per la pace si esprime attraverso il Consiglio Interreligioso dell’Iraq per la Pace, formato nell’agosto 2003 con l’opera organizzativa della Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace e comprendente leader religiosi iracheni: musulmani sia sciiti che sunniti, cristiani, e pure alcuni membri del governo transitorio iracheno. Il Consiglio ha promosso la diffusione di aiuti umanitari attraverso l’opera di moschee e chiese, senza attuare distinzioni e discriminazioni di carattere religioso. Ad esempio, di fronte all’assedio della città di Falluja, circondata dalle truppe americane per stanare il leader sciita ultra-fondamentalista Muktada al-Sadr e i suoi miliziani che compongono l’Esercito del Mahadi, diverse chiese di Baghdad hanno pensato di intervenire con aiuti umanitari, raccogliendo viveri, alimenti e medicinali e li hanno trasportati a Falluja.

3. La «questione ONU»

Fides si sofferma poi sui risultati dell’incontro dei delegati dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC), tenutosi in Malaysia il 22 aprile 2004, a cui hanno partecipato solo i rappresentanti di 20 nazioni sulle 57 totali che compongono l’Organizzazione, e molti paesi hanno inviato personalità minori. Secondo l’agenda dell’OIC, l’incontro avrebbe dovuto tenersi nel mese di maggio, ma è stato anticipato e convocato «in emergenza» su pressione di Yasser Arafat allo lo scopo soprattutto di condannare l’appoggio del presidente U.S.A. George W. Bush al piano di ritiro dei coloni da Gaza del premier israeliano Ariel Sharon. Tuttavia, all’apertura dell’incontro, il primo ministro malaysiano Abdullah Ahmad Badawi ha sottolineato che il deteriorarsi della situazione in Iraq e in Palestina minaccia la stabilità di tutto il Medio Oriente, mentre il ministro degli esteri dello stesso Paese ospitante, Datuk Seri Syed Hamid Albar, salutando gli ospiti, ha evidenziato la necessità di unità e coesione fra le nazioni islamiche: «Non facendo questo – ha affermato – saremo di continuo emarginati e messi da parte… Altri prenderanno decisioni per il nostro futuro». A questo punto, i delegati hanno messo a punto due prese di posizione: una su Israele e Palestina e l’altra sull’Iraq. Il documento finale dell’incontro critica gli Stati Uniti e li accusa di non garantisce sufficiente protezione ai civili in Iraq, nel contempo l’OIC chiede all’ONU di rispettare il termine del 30 giugno per il trasferimento della sovranità agli iracheni e di adottare una risoluzione per un nuovo mandato che preveda il ruolo centrale delle stesse Nazioni Unite nella stabilizzazione dell’Iraq e la presenza di truppe che provengano da paesi islamici. A questo proposito, alcuni paesi a maggioranza islamica come Pakistan, Indonesia e la stessa Malaysia hanno offerto la propria disponibilità ad inviare un contingente militare. Inoltre, gli intervenuti hanno condannato le violenze in Iraq avvenute nei giorni precedenti l’incontro e, in particolare, il delegato irakeno Ghassan Mohsen ha dichiarato ai media che «questi atti terroristici dovrebbero essere sradicati non solo dall’Iraq, ma da tutto il mondo. Dovrebbero essere affrontati con un forte volontà da parte di tutta la comunità internazionale». La proposta dell’OIC pare peraltro avere trovato consensi in alcuni ambienti islamici iracheni. Ancora padre Semaan nota che: «[...] oggi il terrorismo vuole far sprofondare l’Iraq nel caos: per questo una presenza militare, che assicuri l’ordine e la crescita del paese sul cammino dei diritti umani e della democrazia, appare attualmente indispensabile. La presenza dell’Onu, anche con l’ausilio di contingenti militari di paesi islamici, sarebbe importante anche perché verrebbe percepita in modo diverso, con occhio più favorevole, dalla popolazione irachena». Ma il religioso avanza pure un’altra proposta: il maggior coinvolgimento di personale iracheno nelle forze di controllo e sicurezza, che si potrebbe avvalere di una maggior conoscenza del territorio e dei vari dialetti e, in generale, di un rapporto più diretto e - dice Semaan - «potenzialmente pacifico con la popolazione».

La «questione ONU», in realtà, appare parecchio complessa e delicata e - in fondo - se da un lato la nuova risoluzione rischia di ripetere piuttosto pedissequamente il contenuto delle precedenti, dall’altro il Consiglio di Sicurezza potrebbe a lungo essere paralizzato dalla questione dei veti incrociati. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera e rilanciata dall’agenzia on-line ZENIT in data 20 aprile 2004, il cardinale Renato Raffaele Martino, osservatore permanente della Santa Sede presso l’ONU a New York per 16 anni e attualmente presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, pur dicendosi fiducioso nelle possibilità di una soluzione multilaterale e nel ruolo delle Nazioni Unite nella stabilizzazione della situazione irachena e sottolineando come l’unica via d’uscita si possa perseguire - a suo avviso - «solo con uno sforzo corale di concertazione internazionale», non manca di sottolineare che «in questo momento è imprudente lasciare il campo» perché ciò significherebbe «abbandonare l’Iraq alla guerra civile». Inoltre, il porporato, commentando la decisione del governo spagnolo di ritirare immediatamente il suo contingente dall’Iraq dopo il tragico attentato di Madrid dell’11 marzo 2004, precisa che «è comprensibilissimo che il nuovo governo voglia tener fede all’impegno preso con l’elettorato», tuttavia non «si può immaginare che oggi uno si ritira dall’Iraq e vi torna domani sotto la bandiera dell’ONU». In questa maniera, inoltre, si viene in qualche modo a sollecitare frettolosamente l’azione dell’ONU, «dove invece si dovrebbe trovare il modo di dare tempo!», poiché - prosegue - «La fretta della politica non deve danneggiare la concertazione per il meglio, che là si svolge».

Inoltre, ad ulteriore conferma della problematicità della «questione ONU» vanno le parole di Jabbar al-Kubaysi, leader della cosiddetta «resistenza» irachena, il quale ha dichiarato senza mezzi termini: «Come può una persona sana di mente credere che il popolo iracheno possa avere fiducia nelle Nazioni Unite?» e, ancora: «L’ONU non è altro che un burattino nelle mani dell’imperialismo americano [...] Possiamo solo sputare sulla cosiddetta comunità internazionale».

4. La Costituzione provvisoria

Un’intervista di rilievo del dossier Fides è quella al professor Justo Lacunza Balda, preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica (P.I.S.A.I.). Sottolineando la complessità dei fattori in gioco, visto che l’Iraq si colloca al centro di un’area strategicamente molto importante, Lacunza afferma: «Il denominatore comune che oggi unisce tutti i credenti iracheni, che siano musulmani sciiti o sunniti, cristiani o curdi, è quello di un forte sentimento nazionalista. Gli iracheni, liberati da Saddam Hussein, oggi ricercano la dignità e i legittimi diritti di sovranità». Da questo punto di vista - senza che Fides riporti ulteriori precisazioni - prosegue: «Bombardare le moschee è stato un atto grave e irresponsabile per la valenza simboliche che esso ha avuto e per il potere di innescare odio anti-occidentale, in un popolo che sente minacciata la sua identità». E ancora: «Le forze in gioco sono numerose e di varia natura ma la cornice per la convivenza è stata delineata con la nuova Costituzione che non riconosce la legge islamica come fonte di ispirazione del diritto. Questa è una garanzia, ma va riempita di contenuti».

Giustamente, il preside del P.I.S.A.I. attira l’attenzione sulla Costituzione provvisoria della Repubblica dell’Iraq o -< tecnicamente - Legge amministrativa transitoria dell’8 marzo 2004. Solo gli eventi futuri potranno rivelare all’opinione pubblica se le soluzioni adottate al fine di risolvere il problema della minoranza curda (autonomia in uno Stato federale, curdo come seconda lingua ufficiale dello Stato) corrispondano davvero a soluzioni reali ed efficaci. Al di là della questione curda, dal testo emergono comunque aspetti del tutto rilevanti quali, in primo luogo la separazione del potere politico da quello militare, tanto che i militari non possono candidarsi alle elezioni e partecipare alle campagne elettorali ed è inoltre garantita l’immunità parlamentare per tutti i membri dell’Assemblea Nazionale. Inoltre - elemento del tutto rilevante -, la legge islamica (shari’a) è definita non la fonte, ma una fonte della giurisprudenza irachena, pur dichiarando l’islam come religione ufficiale dello Stato, i cui principi «generali» (pare si possa interpretare tale idea come comprendente i principi ammessi sia dai sunniti che dagli sciiti, nonché dalle principali scuole giuridiche) non possono essere contraddetti da alcuna legge civile.

Il testo nasce felicemente dalla mediazione intercorsa fra gli Stati Uniti e il «grande ayatollah» (la più importante autorità del mondo sciita) Ali Sistani, rappresentante della corrente conservatrice ma non fondamentalista, guidata fino al 2003 dall’ayatollah Abdul Majid Khoi (1962-2003), assassinato a Najaf e a sua volta figlio del «grande ayatollah» Abdul Qasim Khoi (1905-1992), di cui Sistani fu allievo. Come scrive Massimo Introvigne in un articolo in cui delinea sinteticamente le profonde suddivisioni interne alla corrente sciita in Iraq, «Erede di una tradizione politica che cerca di preservare l’unità dell’Irak, [Ali Sistani] guarda con grande sospetto al separatismo curdo. Non si è opposto alle norme della Costituzione provvisoria sui diritti umani, ma solo a quelle che tutelano (a suo avviso in modo eccessivo) i curdi. Non dispera di potere esercitare la sua egemonia su quella parte del fondamentalismo filo-iraniano che dichiara di ripudiare il terrorismo ed è disposto a una certa collaborazione con gli Stati Uniti, che si esprime nei partiti SCIRI e Da‘wa».

In generale, nei suoi contenuti, la Costituzione non è certamente «laica», poiché - scrive ancora Introvigne in un breve commento allo stesso testo legislativo - «[...] l’islam mantiene il suo primato, ma la Costituzione garantisce anche la libertà religiosa e fissa un limite ai principi dell’islam nei diritti fondamentali di cui alla seconda parte del testo, che garantiscono l’uguaglianza politica delle donne e dei non musulmani. In astratto il testo è contraddittorio, perché la shari’a di per sé non riconosce a donne e non musulmani uguali diritti, né comporta la libertà per i musulmani di cambiare religione. Ma in concreto nel mondo musulmano ferve il dibattito se la shari’a debba oggi essere applicata letteralmente o fungere da semplice punto di riferimento ideale. La Costituzione provvisoria va in questa seconda direzione che è quella, per esempio, del primo ministro turco Erdogan. Il fatto che le massime autorità sciite la abbiano accettata è di per sé un evento storico, anche se il processo verso una Costituzione definitiva in Irak è appena iniziato».

5. Una delicata situazione politico-religiosa: il problema di al-Sadr

Questo momento - come non hanno mancato di notare vari analisti e studiosi - è particolarmente delicato, poiché le forze politiche e religiose in Iraq, afferma Lacunza «entrano in campo per ricavare uno spazio politico per il futuro Iraq». In quest’ottica si spiega pure il sorgere di gruppi radicali e violenti (ben messa in luce dal dossier Fides) e, soprattutto, l’opera Muktada al-Sadr, 32 anni, figlio dell’ayatollah Mohammed Baqir al-Sadr (1935-1980), il quale può essere considerato il vero teorico della teocrazia iraniana. Conformemente alle idee del padre, il giovane leader sciita - ricalcano talora nella sua predicazione temi apocalittici - vuole per l’Iraq un regime rigorosamente khomeynista; è ritenuto responsabile dell’assassinio di Khoi e forse anche di quello del leader dello SCIRI (Supremo Consiglio della Rivoluzione Islamica), l’ayatollah Mohammed Bagher al-Hakim (1939-2003), ucciso il 29 agosto 2003 in un attentato in cui sono morte più di ottanta persone e ora sostituito dal fratello Abdulaziz al-Hakimal-Hakim.

Gli obiettivi di al-Sadr consistono - innanzitutto - nel voler consolidare la sua egemonia terrorizzando gli altri leader sciiti e allontanando il più possibile le elezioni, nel cui contesto egli non potrebbe competere né con Sistani (il quale pensa che una coalizione da lui ispirata possa vincere le elezioni politiche, e le attende con impazienza) né con al-Hakim. Inoltre, al-Sadr si pone come obiettivo quello di accreditarsi presso il vicino Iran, che peraltro, fino ad oggi, è stato piuttosto scettico in merito alla sua opera e alle sue idee. Non trascurabile per lo stesso equilibrio politico-religioso interno dell’Iraq è inoltre l’impatto che le modifiche interne al Paese avranno, in termini di ricezione e prese di posizione, sugli Hezbollah libanesi.

6. Uno scenario composito

Dal punto di vista prettamente religioso, il dossier Fides mette in luce la complessità dello scenario iracheno dopo la caduta del regime di Saddam Hussein; si assiste infatti ad alcuni fenomeni nuovi quali il risveglio di movimenti religiosi tradizionali, la comparsa di nuovi gruppi, il ritorno in patria di leader religiosi esiliati. Giustamente Fides nota che: «le influenze dei paesi confinanti determinano un quadro in cui spesso istanze politiche e religiose si incrociano e all’interno del quale ogni gruppo opera per guadagnare un proprio spazio nell’Iraq del futuro».

Mentre si rimanda alla lettura del dossier per ottenere maggiori dettagli circa la storia e l’attuale situazione dei vari gruppi religiosi in Iraq, non si può fare a meno di notare come una delle dinamiche più evidenti sia quella relativa ai musulmani sciiti, che seppur divisi al loro interno - come abbiamo poco sopra accennato -, rappresentano la confessione religiosa maggioritaria (corrispondente a circa il 63% della popolazione irachena) e stanno riaffermando la loro identità dopo gli anni della durissima repressione subita negli anni della dittatura di Saddam Hussein, rivendicando la volontà di giocare un ruolo chiave nel progettare il futuro dell’Iraq.

Fra i movimenti più in vista si segnalava il Da‘wa (in cui si nota una rilevante componente minoritaria sunnita), fondato nel 1950 e a suo tempo distintosi per un grande attivismo nei tentativi di rovesciare il regime di Saddam Hussein anche attraverso attentati terroristici. Dopo avere subito una serie di brutali uccisioni dei suoi capi nell’era di Saddam, è stato sciolto e soppresso ed è esistito unicamente in clandestinità. Nell’era del dopo-Saddam è guidato dallo sceicco Mohaammed Nasseri, tornato dall’esilio in Iran dopo la guerra, ed ha due membri all’interno del Consiglio governativo iracheno. Nasseri ha sempre sostenuto che il periodo di occupazione da parte delle truppe della colazione non avrebbe dovuto essere più lungo di sei mesi. Molti suoi membri sono peraltro passati allo SCIRI - legato all’Iran, ma caratterizzato da un’interpretazione meno dogmatica del khomeinismo rispetto a gruppi radicali come quello di al-Sadr - e proprio lo SCIRI, assieme a quanto sopravvive del Da‘wa, potrebbe essere in grado di conquistare la maggioranza (con l’eccezione delle zone curde del Nord) nelle future elezioni irachene.

La comunità sunnita (che rappresenta invece il 34% della popolazione islamica), occupa invece una difficile posizione nel dopo-Saddam, in quanto durante il regime dello stesso, era identificata come il gruppo che deteneva il potere politico attraverso il partito Ba’th («rinascimento arabo»), fondato nel 1940 a Damasco, alle origini dei regimi di Hafez al-Assad (1930-2000) in Siria e - appunto - di Saddam Hussein in Iraq. Attualmente i sunniti si stanno riorganizzando a fatica fronteggiando la grande ascesa dell’islam sciita. Fides rileva che «In questo processo di riorganizzazione, ha subito infiltrazioni di elementi e gruppi wahabiti che vi hanno portato l’ideologia antioccidentale di Al Qaeda». L’accenno all’ideologia wahabita, a cui si ispira ufficialmente la monarchia dell’Arabia Saudita, ci dà atto della complessità dello scenario non solo iracheno, ma internazionale. Infatti, il mondo dell’islam contemporaneo è assai complesso e si configura come una realtà in cui le alleanza strategiche si creano e si sciolgono con estrema rapidità: i wahabiti - infatti - rappresentano un movimento islamico conservatore, fondato in Arabia Saudita nel secolo XVIII da Muhammad Ibn Abdul Wahab (1703-1792) e in ogni caso adottano un’ideologia differente rispetto il fondamentalismo e l’ultra-fondamentalismo (per i wahabiti, infatti, si deve obbedienza al potere politico islamico, da chiunque detenuto, la rivoluzione contro le autorità costituite è lecita soltanto in casi estremi e la custodia dell’atteggiamento tradizionalista è affidata agli ‘ulama).

Fra i gruppi sunniti è emerso in particolare il Partito Islamico dell’Iraq, che appartiene alla filiera dei Fratelli Musulmani - l’organizzazione fondata nel 1928, in Egitto, da Hassan al-Banna (1906-1949) - ed è guidato teologo islamico e membro del Consiglio governativo iracheno Mohsen Abdel Hamid. La posizione moderata di questi si è scontrata con quella di Ahmad el Kebeisey, docente di Studi Islamici all’Univesità di Baghdad, che è pure uno degli imam che guidano la preghiera del venerdì nella moschea Abi Hanifa, nel distretto sunnita di Baghdad. Quest’ultimo ha più volte incitato all’odio antiamericano e istigato manifestazioni di protesta contro le forze della coalizione. Ancora in ambito sunnita si segnala l’Associazione del Clero Sunnita, in particolare per avere contribuito alla fragile tregua fra i ribelli sunniti nella città di Falluja e le truppe americane e per alcune iniziative di mediazione fra le forze della colazione e i terroristi. L’Associazione, che ha caratteristiche nazionalistiche, comprende importanti ’ulama, fra cui quelli delle moschee Abi Haanifa e Abd al Kadr a Baghdad. Essa non è rappresentata all’interno del Consiglio governativo, tuttavia si è dichiarata vicina alle posizioni del Partito Islamico dell’Iraq. Mantiene rapporti anche con la comunità curda e afferma di ricercare buone relazioni con gli sciiti.

Alcuni analisti di sinistra parlano di una progressiva saldatura e unione d’intenti fra la fra la comunità musulmana sciita e quella sunnita, storicamente divise e in contrasto fra loro. Tale saldatura avrebbe come fondamento principale un’ideologia anti-occidentale e contraria alla presenza dei militari stranieri sul suolo iracheno. In realtà una semplice lettura del sito Internet del «grande ayatollah» Sistani mostra la sua perdurante diffidenza nei confronti dei sunniti in genere. Quella cui si assiste è semmai una confluenza fra ambienti estremisti e contigui al terrorismo internazionale sunniti e sciiti, del resto non nuova: da questo punto di vista, alle parole del sunnita (per la verità di matrice laica) Jabbar al-Kubaysi sull’ONU fanno riscontro analoghe prese di posizione dello sciita Moktada al-Sadr. 

Naturalmente, anche i curdi, in maggioranza musulmani sunniti, intendono partecipare al futuro governo del paese. Al loro interno si nota però la rivalità fra varie fazioni: due di queste, di orientamento nazionalista, il Partito Democratico del Kurdistan (PDK), guidato da Massoud Barzani, e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), con a capo Jalal Talabani hanno governato insieme un Kurdistan di fatto autonomo (in quanto gli Stati Uniti ne impedivano il controllo da parte del regime) dal 1991 al 2003. Entrambi i leader sono presenti nel Consiglio governativo iracheno e dispongono di una forza militare autonoma. Se Barzani e Talabani sembrano collaborare fra loro, diverso è il discorso per le minoranze turcomanne, cristiana e araba (sia sunnita, sia sciita), che temono un Kurdistan autonomo e tanto più uno indipendente (opzione irrealistica a fronte del secco «no» turco e iraniano, ma viva nel cuore dei curdi). Vi è inoltre la forte presenza di un terrorismo ultra-fondamentalista curdo legato ad Al Qu’ida, le cui varie componenti si sono unite nella sigla Ansar al-Islam, a suo tempo sostenuta da Saddam Hussein contro Talabani e Barzani e oggi divenuta un’organizza terroristica internazionale che recluta (non solo tra i curdi) anche in Europa e in particolare in Italia.

La comunità cristiana, invece, «nelle sue diverse articolazioni, ha ribadito il suo ruolo di piena condivisione delle sorti del popolo iracheni, di volontà di costruire relazioni di fratellanza con le altre comunità religiose, di voler offrire un contributo nella costruzione del nuovo Iraq». Quest’ultima si sta segnalando, in particolare, con una consistente opera di solidarietà rivolta a tutta la popolazione in difficoltà, messa in atto attraverso Caritas Iraq.

* * *s

L’attuale situazione politico-religiosa dell’Iraq, nella sua complessità, mostra tutta la delicatezza di una realtà di cui ogni sforzo internazionale in qualche modo orientato alla stabilizzazione della medesima dovrà tenere conto.

Peraltro, in un Iraq dove l’islam - per quanto diviso - gode della maggioranza assoluta (le altre presenze religiose si attestano intorno al 4%), emerge senza dubbio il fatto che gli stessi gruppi religiosi si configurano pure come gruppi di potere politico e sociale, e ciò in piena conformità al trinomio tipico e fondante lo stesso islam, la cui «legge sociale» non distingue fra la sfera del temporale (politica e società) e quella dello spirituale (religione), ma concepisce un’assoluta sovrapposizione fra religione (din), società (dunya e stato (dawla.

La situazione internazionale attuale e la stessa storia dell’islam ci mostrano come gli approcci intra-islamici a questo trinomio siano molteplici e come - in questo particolare momento storico - pur fra moltissime difficoltà - non sia impossibile concepire un islam compatibile con la democrazia, cioè un islam di origine fondamentalista, ma sviluppatosi fino a diventare conservatoreche afferma di voler considerare la legge islamica, la shari’a, come orizzonte ideale e come ispirazione, non come un insieme di precetti codificati una volta per tutte nel Medioevo. Idee interessanti in tal senso sono quelle di vari intellettuali fondamentalisti in Tunisia, in Egitto, nell’ala «riformista» iraniana e in Europa e, soprattutto, la gestione politica della Turchia di Recep Tayyip Erdogan (Paese non a caso bersaglio del terrorismo internazionale) e della Malaysia.

Spiragli di dialogo politico fra Oriente e Occidente stanno in queste coraggiose posizioni - di fatto lontane da qualsiasi tentazione di «islam illuminista» -, così come in esse sta l’augurio di un futuro più roseo per l’Iraq, dove è impossibile sognare un governo ispirato ai principi di una maggioranza «laica» o «progressista», che non è possibile trovare nell’elettorato sciita e maggioritario nel Paese. Il meglio che l’Occidente si può aspettare da future elezioni in Iraq è l’emergere di una coalizione di ex-fondamentalisti, per così dire e in analogia a quanto si afferma dei neo-conservatori americani, «aggrediti dalla realtà» («alla Erdogan»), lontani dalla strategia terrorista, e di conservatori religiosi che importino il modello democratico mantenendo comunque la fedeltà ai principi religiosi islamici, senza attuare imprudenti e impossibili svolte all’insegna del laicismo. In tal senso, la Costituzione provvisoria irachena segna un buon punto di partenza.

L’opera violenta e caotica dei terroristi radicali va allora tutta nella direzione di impedire il formarsi di tale alleanza; dunque l’aiuto che l’Occidente può dare all’Iraq e - più in generale - alla sconfitta del terrorismo è quello di non cedere ai ricatti dei terroristi e aiutare la difficile transizione a favore di un islam democratico, non violento e con cui sia possibile entrare fruttuosamente in dialogo, in Iraq e altrove.

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