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Quale jihad? Questo è il problema

di Andrea Menegotto (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 3, n. 41, 9 ottobre 2004)

Nel mondo musulmano non manca chi stigmatizza la militarizzazione della fede. Il pericolo è però che la denuncia si muti in un «islam illuminista». Cioè il miglior carburante della rivolta «fondamentalista». La speranza restano i conservatori

Il pensiero dell'intellettuale islamico di orientamento liberal, Abdel al-Hamid al-Ansari, ex-preside della facoltà di Legge Islamica all'Università del Qatar, riapre il dibattito interno al mondo musulmano circa il concetto di jihad.
Al-Ansari ne ha parlato al settimo incontro annuale sull'innovazione nell'ideologia islamica moderna e futura, svoltosi in Kuwait nel mese di marzo e dedicato specificamente al tema Islam e cooperazione regionale e globale, svolgendo una conferenza dal titolo Tendenze nella comprensione del concetto di jihad e la confusione relativa a questo termine nelle fatwa, alla luce dell'interesse del popolo musulmano. Poi ha ripreso gli stessi temi in forma più divulgativa in un articolo pubblicato sul quotidiano londinese in lingua araba Al-Sharq Al-Awsat.
Secondo lui, le fatwa islamiche moderne distorcono il significato di jihad per giustificare un'ideologia aggressiva.Nell'islam, peraltro, le fatwa, per quanto non siano vincolanti giuridicamente costituiscono né comunque fondati e persuasivi pareri pronunciati da esperti in materia di legge o pratica religiosa.
Ricostruendo, dunque, dal proprio punto di vista, la storia del concetto di jihad, Al-Ansari descrive la situazione contemporanea e, con ampi riferimenti in particolare a Osama bin Laden, parla espressamente di un «travisamento del significato». Questo travisamento ha le proprie origini meno remote nell'ideologia professata da Maulana Sayyid Abul Al'a Maududi (1903-1979), fondatore nel 1941 nel subcontinente indiano della Jama'at at-i Islami, e da Sayyid Qutb (1906-1966), esponente dei Fratelli Musulmani - organizzazione fondata in Egitto nel 1928 dal sufi Hassan al-Banna (1906-1949) -, giustiziato, in Egitto, nel 1966.
In effetti, gli studi sul «fondamentalismo» e sull'«ultra-fondamentalismo» islamico ricorrono spesso all'accostamento fra Maududi e Qutb, identificati come teorici radicali. In quest'ottica, quindi, al-Ansari coglie con proprietà un ambito ideologico dove il concetto di jihad si è sviluppato con connotazioni particolari. Se infatti si considera il «fondamentalismo» islamico come un movimento che ha un inizio specifico e un proprio percorso storico, davvero Maududi e Qutb si pongono, per molti versi, alle origini di una corrente ideologica nata dopo la Prima guerra mondiale come reazione alla penetrazione di idee occidentali «moderne» nel mondo musulmano, proponendo come antidoto il ritorno al Corano, una certa ostilità all'Occidente e l'applicazione della shari'a (legge islamica) in opposizione a ogni tentativo d'instaurare nelle terre dell'islam sistemi giuridici di tipo occidentale.
Il «fondamentalismo» propone del resto anche la restaurazione del Califfato, abolito nel 1924, e questo con un ruolo più che simbolico. A proposito di Maududi e di Qutb, al-Ansari scrive infatti: «Il concetto di jihad nell'ottica di questi due maestri nasce dal presupposto che i musulmani siano i guardiani della razza umana, che Allah li abbia investiti del compito di liberarla dai tiranni della terra e che il jihad sia l'unico mezzo per instaurare un governo islamico che reggerà il mondo».
L'autore, affermando in maniera lapidaria che la spiegazione di ciò che egli chiama il «travisamento del jihad» è da rinvenire nel sistema educativo e nei discorsi religiosi, culturali e mediatici di certo islam, individua quattro casi recenti in cui il «travisamento» risulta, a suo avviso, evidente.
L'invasione del Kuwait da parte dell'Irak, la guerra contro il terrorismo dell'Afghanistan dei Talebani e quella contro il regime criminale di Saddam Hussein hanno infatti visto succedersi numerose chiamate a raccolta del mondo islamico che però tacciono le profonde ingiustizie di governi offensi e vessatori. Inoltre, a proposito degli attentati che hanno insanguinato l'Arabia Saudida, al-Ansari attribuisce la responsabilità a un «gruppo di sceicchi del jihad», notando però che il «jihad non è questo. Questo non è altro che terrorismo».

Lo «sforzo maggiore» e la guerra «minore»

Forse non sgradita al pacifismo occidentale, l'interpretazione del pensatore musulmano liberal presenta però alcune lacune.
Anzitutto, al-Ansari accusa velatamente di «eresia» alcuni responsabili del «travisamento», la cui causa sta semplicemente nel fatto che «c'è un'ideologia aggressiva radicata nel cuore di alcune persone». Per quanto, sul tema, egli citi passi classici del Corano, il «vero» significato di jihad, attribuibile allo stesso Maometto è secondo lui quello che lo interpreta come «un mezzo per difendere la libertà di scelta». Naturalmente, qualsiasi idea di «eresia» applicata al mondo islamico si rivela di per sé inappropriata, poiché l'islam non possiede concili, né chiese, né gerarchie e non esiste un'ortodossia ufficiale.
Inoltre, un'analisi accurata dei significati correnti in ambito islamico di quel termine rivelano altro. Jihad, tradotto piuttosto usualmente con «guerra santa», indica in genere la battaglia contro gli infedeli, ma di per sé configura l'impegno del fedele, del vero muslim, sulla via che porta a Dio. Occorre allora distinguere fra una «guerra interiore» e personale, e una guerra esterna e cruenta.
La prima, il jihad cosiddetto «maggiore», viene combattuta allo scopo di accrescere le proprie conoscenze religiose, mettere in pratica le prescrizioni coraniche impedendo a Satana di avere la meglio sulle buone intenzioni e di portare il fedele stesso al peccato (è il concetto conversione). La seconda, il jihad «minore», è l'azione bellica in senso vero e proprio.
Le scuole islamiche d'impostazione più spirituale, e soprattutto il sufismo («mistica» islamica delle confraternite), preferiscono naturalmente porre l'accento sull'accezione interiore del termine. Tuttavia, la storia mostra come l'accezione bellica in senso non figurato si applica al termine jihad già dalle origini dell'islam. Sussistono, infatti, situazioni diverse che inducono a forme diverse di jihad «minore»: all'esterno del territorio islamico, e contro i miscredenti e chi aggredisce un popolo musulmano, Maometto avrebbe ordinato di usare la forza, i propri beni e la propria lingua per convertirli; all'interno del mondo islamico, il jihad è invece utilizzato per soffocare il male e per promuovere il bene. E, d'altra parte, esperti come il padre comboniano Giuseppe Scattolin, docente di Mistica islamica al Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica di Roma, non mancano di sottolineare come gli stessi sufi, per quanto mistici, abbiano sempre contribuito anche al jihad «minore» nell'ottica di un appoggio all'espansione dell'islam, sia pacifica che bellica.
Inoltre, i grandi ordini sufi sono stati spesso anche grandi ordini guerrieri e organizzazioni politiche che hanno giocato un ruolo importante nella storia islamica, tollerando alcune pratiche violente dell'islam quali la discriminazione verso i non musulmani, la pratica del commercio degli schiavi e lo sfruttamento sessuale delle schiave.
Mentre i cinque pilastri che rappresentano i fondamenti della vita del buon fedele musulmano sono, in base al diritto islamico, obblighi del singolo (fard 'ayn), il jihad è un dovere obbligatorio solo collettivamente (fard kifaya), anche se è sufficiente che un gruppo esiguo l'ottemperi affinché tutti gli altri musulmani siano esonerati.
In base ad alcune interpretazioni, è del resto sufficiente che uno Stato organizzi bene il proprio esercito come difesa del territorio islamico perché sia assolto il dovere del jihad. Oggi le scuole maggioritarie non pensano più alla conquista militare come mezzo di conversione, tuttavia si continua a insegnare che, in caso di attacco da parte degli infedeli, il dovere comunitario diventa dovere di ogni singolo fedele per la difesa del sacro suolo dell'islam. Per questo chi muore in battaglia è considerato «martire» (shahid) e gli è garantito l'accesso al paradiso, dove gli sarà riservato un posto privilegiato.

«Holy war». Senza ambiguità

Tuttavia, nella letteratura prodotta in alcuni ambienti islamici radicali - primo fra tutti al-Qa'ida - si sostiene che i pilastri della fede sono sei, e che il sesto è, appunto, il jihad; dunque che essi vanno disposti in ordine gerarchico e che lo stesso jihad viene subito dopo la professione di fede, così che le esigenze a esso collegate, in caso di contrasto, prevalgono su altre esigenze religiose o morali. In quest'ottica, i rimandi più frequenti sono a Corano 9,5, il cosiddetto «versetto della spada»: «[…] uccidete questi associatori [cioè politeisti] ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati» e 47,4: «Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati». Si tratta di rimandi a combattimenti intesi certamente in senso non metaforico e, non a caso, le pubblicazioni di al-Qa'ida in lingua inglese usano l'espressione «holy war», che non dà la possibilità di equivoci. Ancora, a chi obietta che il Corano permette solo la guerra difensiva, l'ideologia di al-Qa'ida e dei gruppi a essa collegati risponde che vi sono state almeno tre aggressioni (la presenza di truppe occidentali sul sacro suolo dell'Arabia, l'attacco all'Irak e il supporto a Israele), quindi che la guerra contro gli Stati Uniti è per sua stessa natura difensiva, rendendo la «guerra santa» un dovere individuale di ogni musulmano.

Allah liberi dagl'illumministi

Lo sforzo di rilettura del concetto di jihad compiuto da Abdel al-Hamid al-Ansari si può dunque, con buona probabilità, ascrivere alla corrente dell'«islam illuminista», che si fonda su una critica delle fonti islamiche simile a quella cui il metodo storico-critico sottopone da un paio di secoli le fonti cristiane. L'«islam dei lumi» giunge a posizioni diverse: dall'apprezzamento per alcuni elementi della tradizione islamica estrapolati dal contesto religioso e ridotti semplicemente a valori culturali, fino all'ultra-progressismo, il quale apprezza la separazione tipicamente occidentale (e, di fatto, antitetica rispetto all'islam) fra religione, cultura e politica, abbandonando ogni pretesa di universalità dell'islam e quindi ogni proselitismo. Questo islam, tuttavia, raccoglie pochissimi consensi fra i musulmani, sia nei Paesi a maggioranza islamica sia in terre di emigrazione e dunque risulta davvero poco rappresentativo in relazione alla vera realtà musulmana contemporanea.
Peraltro, nel particolare frangente storico attuale non è impossibile, pur fra moltissime difficoltà, concepire un islam compatibile con la democrazia, vale a dire un islam di origine «fondamentalista», ma sviluppatosi fino a diventare conservatore, il quale afferma di voler considerare la shari'a come orizzonte ideale e come ispirazione, non come un insieme di precetti codificati una volta per tutte. Idee interessanti in tal senso sono quelle di vari intellettuali fondamentalisti in Tunisia, in Egitto, nell'ala «riformista» iraniana e in Europa e, soprattutto, la gestione politica della Turchia di Recep Tayyip Erdogan - Paese non a caso bersaglio del terrorismo internazionale - e della Malaysia.
Spiragli di dialogo politico fra Oriente e Occidente stanno in queste coraggiose posizioni, di fatto lontane da qualsiasi tentazione d'«islam illuminista». Il meglio che l'Occidente può attendersi dalle future elezioni in Irak e dall'evoluzione politica interna ad alcuni Paesi a maggioranza islamica è l'emergere di una coalizione di ex «fondamentalisti» lontani dalla strategia terrorista e di conservatori religiosi che guardino al modello democratico mantenendo comunque la fedeltà ai principi religiosi islamici, senza attuare imprudenti e impossibili svolte all'insegna del laicismo.
L'opera violenta e caotica dei terroristi radicali va nella direzione opposta, quella di impedire il realizzarsi di un'alleanza di questo tipo. Pertanto, l'aiuto che l'Occidente può dare in generale alla sconfitta del terrorismo è quello favorire quella difficile transizione.

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