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Al Qa’ida, le guerre dimenticate. Scenari di un conflitto mondiale

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 3, n. 16, 17 aprile 2004)

imgSi pensa di solito che la guerra – per qualcuno, una “quarta guerra mondiale” (la terza essendo, in questo caso, la Guerra Fredda fra Occidente e comunismo) – fra il mondo libero e il terrorismo ultra-fondamentalista islamico si combatta principalmente in Iraq, in Palestina, in Europa o negli Stati Uniti. In realtà ci sono scenari cosiddetti secondari che sono di cruciale importanza per il jihad globale di Osama bin Laden. Tra gli ultimi giorni di marzo e la prima metà di aprile avvenimenti importanti – e ingiustamente trascurati – hanno attirato, o avrebbero dovuto attirare, l’attenzione su tre di questi scenari: la Thailandia, il Sudan e l’Uzbekistan.

I separatisti della Thailandia del Sud

Nella notte fra il 27 e il 28 marzo una bomba montata su una motocicletta ha ferito trenta persone nel bar di un albergo di Slungai Kolok, nel Sud della Thailandia. Per una serie di coincidenze davvero fortunate, non ci sono stati morti, e si potrebbe essere tentati di sottovalutare l’incidente. Sarebbe un errore.
La Thailandia del Sud è ormai uno dei punti cruciali nella mappa del terrorismo islamico. La Thailandia è una monarchia al novanta per cento buddista, ma nel 1902 ha deciso di occupare cinque province semi-indipendenti della Malesia – Satun, Songkhla, Pattani, Yala e Narathiwa – battendo sul tempo gli inglesi. Queste zone – al confine dell’attuale Malaysia – sono all’85% di religione islamica, e comprendono due milioni e mezzo di musulmani che chiedono l’indipendenza. Come altre zone della Thailandia – un paese che ha il record mondiale della prostituzione – sono anche dense di bordelli (dove le prostitute appartengono in genere alla minoranza buddhista), frequentati sia da thailandesi sia da ricchi malesi che sfuggono alle restrizioni che anche un governo moderatamente islamico impone nel loro paese sul tema della morale pubblica. Questo commercio – in cui l’albergo colpito era implicato – suscita l’indignazione dei movimenti islamici militanti.
La maggiore formazione islamica è – o è stata – la Pattani United Liberation Organization (PULO), fondata alla fine degli anni 1960 e ufficialmente non più esistente dal 1996, quando la polizia thailandese ha annunciato di averla definitivamente sconfitta. In realtà, la PULO si è frammentata in una decina di sigle, alcune delle quali legate ad Al Qa’ida. Il 4 gennaio di quest’anno una delle formazioni che rivendicano l’eredità della PULO ha attaccato un deposito di armi della polizia a Narathiwat, uccidendo quattro agenti e rubando centinaia di fucili. A fine marzo i ministri thailandesi degl’Interni e della Difesa, che visitavano la regione, sono sfuggiti a un attentato dinamitardo nella stessa città di Narathiwat, che ha causato diversi feriti. Altri attentati – che hanno colpito soprattutto le forze di polizia – hanno fatto cinquanta morti nel solo anno 2004. L’inchiesta relativa alla strage di Bali dell’ottobre 2002 ha provato che i terroristi, legati ad Al Qa’ida, hanno progettato l’attentato nel Sud della Thailandia e lì si sono addestrati.
Ci sono diverse ragioni per cui la Thailandia del Sud sta diventando una polveriera. C’è un’ampia rete di scuole coraniche ultra-conservatrici chiamate pendok finanziate dall’Arabia Saudita: non sono accusate di legami diretti con il terrorismo, ma allevano un tipo di musulmano sensibile ai richiami di Al Qa’ida. Il territorio è difficile da controllare: in gran parte è in mano a “signori della droga” colpiti da un giro di vite dell’attuale governo thailandese, disposti ad allearsi con i terroristi islamici e a ospitare militanti di Al Qa’ida provenienti da altri paesi (sono stati arrestati pakistani, kuwaitiani e sauditi). Soprattutto, la base tailandese è destinata nei disegni di Al Qa’ida a destabilizzare la vicina Malaysia, “cattivo esempio” di nazione musulmana dove le elezioni di marzo hanno confermato al potere un islam conservatore concentrato sul notevole sviluppo economico del Paese e ostile ai terroristi. Il governo thailandese parla il meno possibile di terrorismo, per non spaventare i turisti. Ma il problema è molto serio.

Sudan, shari’a in salsa africana

Il 31 marzo è stato arrestato in Sudan Hassan al-Turabi. Un’ulteriore ondata di arresti ha coinvolto sette membri del suo partito e dieci alti gradi dell’esercito, che preparavano un colpo di Stato fondamentalista. L’attuale regime di Khartoum è nato, con il colpo di Stato del 1989, come difficile coalizione fra due gruppi che non si amano: i nazionalisti arabi guidati dal generale ‘Omar Hassan al-Bashir, tuttora presidente, e i fondamentalisti islamici di Turabi uno dei leader del fondamentalismo mondiale.
Nel 2000 il presidente al-Bashir ha escluso Turabi dal potere; nel 2001 lo ha addirittura accusato di complottare contro di lui con gli odiati non musulmani del Sud – etnie non arabe, in maggioranza cristiane, protagoniste di una guerra che ha fatto oltre due milioni di morti – e lo ha fatto arrestare. Rilasciato nel 2003, al-Turabi è l’ispiratore di una delle fazioni (l’altra è laica, con influenze marxiste) della rivolta che anima dal 2000 la seconda guerra civile sudanese. Si combatte nella regione occidentale del Darfur, che per i cattolici è la patria di santa Josefina Bakhita (1869-1947), una ex-schiava divenuta religiosa in Italia e canonizzata nel 2000, ma dove i musulmani sono la maggioranza assoluta. Lo scontro è tra islamici, ed è etnico: gli africani (maggioritari) si rivoltano contro le angherie degli arabi.
Turabi ha affascinato molti occidentali proponendo in numerose interviste una versione suadente del fondamentalismo, che si afferma accompagnata da una sofferta riflessione sui diritti umani. La realtà è diversa: Turabi ha per anni sostenuto la politica del governo Bashir nella parte meridionale del Sudan, dove nel corso di una guerra civile spietata e terribile è riemersa anche l’antica piaga della schiavitù, inflitta a uomini e donne del Sud, in particolare cristiani. Ed è stato lo stesso Turabi ad accogliere a suo tempo in Sudan Osama bin Laden.
Pragmatico e disinvolto, Turabi non si è mai completamente fidato di Bashir. Da quando nel 1996 il generale nazionalista ha espulso bin Laden dal Sudan, costringendolo a rifugiarsi in Afghanistan, e ha iniziato un percorso di riavvicinamento agli Stati Uniti, Turabi ha iniziato una politica autonoma, cercando di sfruttare la guerra civile nel Sud per rovesciare il regime. Questa strategia è sostanzialmente fallita: la mediazione americana (e anche – è giusto ricordarlo – gli sforzi del nostro governo durante il semestre italiano di presidenza europea) hanno avviato un processo di pace che potrebbe concludersi a breve. Sconfitto nel Sud, Turabi cerca ora di pescare nel torbido nel Darfur, a Ovest. La posta in gioco è l’instaurazione di un regime fondamentalista in Sudan, o meglio la restaurazione di un tipo di regime che è già esistito negli anni 1990, con un ritorno al quinquennio 1991-1996 quando la diarchia Turabi-bin Laden, con la benedizione più o meno spontanea di Bashir, aveva trasformato il paese in una delle basi del terrorismo internazionale. Se si aggiungono i contatti di Turabi con le feroci milizie dell’Esercito della Resistenza del Signore ugandese il cui sanguinario leader Joseph Kony, originariamente cristiano, è stato ora convertito all’islam da missionari sudanesi, non si può non concludere che il rischio di destabilizzazione riguarda l’intera regione. Quanto al governo Bashir, non è un modello di rispetto dei diritti umani: ma in attesa che la fine della guerra civile al Sud faccia emergere una nuova classe dirigente è per ora preferibile a Turabi e ai suoi amici, che farebbero nuovamente del Sudan una portaerei dell’ultra-fondamentalismo protesa verso l’Egitto e l’Uganda.

L’Uzbekistan neointegralista

La ripresa del terrorismo ultra-fondamentalista islamico in Uzbekistan (venti morti in tre giorni all’inizio di aprile) attira nuovamente l’attenzione su una regione cruciale. Dieci dei cinquanta milioni di musulmani dell’Asia Centrale vivono nella valle di Fergana, che dalla parte orientale dell’Uzbekistan sconfina nel Tagikistan e nel Kirghizistan. Si tratta di un’area sovrappopolata, povera, amministrata da una classe dirigente corrotta che per di più non riesce a controllarne vaste zone, porto franco per estremisti e terroristi di ogni genere.
La tradizione islamica locale è legata alle confraternite sufi, che hanno animato la resistenza pacifica alle politiche antireligiose dell’era sovietica. Dopo la caduta del comunismo, le poverissime istituzioni islamiche uzbeke hanno dovuto accettare gli aiuti dell’Arabia Saudita, i cui missionari hanno importato il puritano islam wahabita, che detesta e cerca di smantellare il sufismo. Il governo che è emerso è secolarista, laicista e nazionalista; il suo personale è composto da ex-funzionari sovietici molti dei quali in odore di legami con le fortissime cosche del crimine organizzato. Gli imam formati dai wahabiti sauditi denunciano la “mafiocrazia”, ma insieme propugnano l’instaurazione di un nuovo califfato teocratico che comprenda tutta l’Asia Centrale e si estenda fino al Sinkiang cinese.
Contro il nuovo islam wahabita il governo uzbeko ha usato la mano pesantissima, ricorrendo alla retorica sovietica dei “nemici del popolo”. La repressione si è estesa a tutte le forme di islam che rifiutano lo stretto controllo dello Stato, comprese quelle radicate nella tradizione delle confraternite sufi. Il gruppo più radicale, il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU), è entrato in clandestinità alla fine degli anni 1990 e il suo leader, Juma Namangani, ha aderito alla rete internazionale di Al Qa’ida. Osama bin Laden ha ripreso la tesi del califfato centro-asiatico, anche se Namangani è stato ucciso in Afghanistan nel 2001. Il regime uzbeko, dal canto suo, ha presentato dopo l’11 settembre non solo la lotta contro l’IMU, ma la repressione di qualunque movimento musulmano indipendente come il suo contributo alla guerra internazionale contro il terrorismo.
Ci troviamo qui di fronte a un problema familiare. Mentre nella capitale Tashkent la popolazione “russificata” è in buona parte non religiosa, nella valle di Fergana il consenso per le organizzazioni islamiche è valutato intorno all’85%. Il regime di Tashkent mette sullo stesso piano l’IMU e l’Hizb ut-Tahrir (Partito della Liberazione Islamica), anche se il secondo – pure di ideologia fondamentalista assai rigida e anti-occidentale – si dichiara almeno in teoria contrario alla violenza e al terrorismo. La logica secondo cui in Uzbekistan, come altrove, l’alternativa è fra nazionalisti laicisti, per di più corrotti, e fondamentalisti terroristi amici di bin Laden contagia parecchi analisti occidentali, ma è sbagliata e pericolosa. Spinge l’Occidente a sostenere regimi impresentabili e “mafiocratici”, che – se hanno il solo merito di essere nemici dei fondamentalisti – sono anche precari e destinati prima o poi a cadere. La scelta del vicino Tagikistan, dove sotto pressioni americane alcuni movimenti dell’islam politico – discutibili, ma non coinvolti nel terrorismo (o convinti ad abbandonarlo) – sono stati “legalizzati” e ammessi a partecipare alle elezioni sembra andare in una direzione migliore. L’alternativa all’islam radicale, in Uzbekistan come altrove, non è la repressione indiscriminata della religione ma l’emergere di un islam conservatore. Dove emergono esperimenti di islam conservatore – come in Malaysia (o in Turchia) – per Al Qa’ida diventa urgente farli fallire.

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