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Il Pakistan in bilico tra dialogo e deriva islamica

di Massimo Introvigne (il Giornale, 2 ottobre 2004)

La strage nella moschea sciita di Sialkot, in Pakistan (18 morti e 40 feriti) fa immediato seguito alla visita del presidente pakistano Musharraf a Roma, e al suo rinnovato impegno a collaborare con i tre B (Bush, Blair e Berlusconi) nella guerra al terrorismo mondiale. Musharraf promette, ma si trova in una difficile situazione interna.
Il Pakistan, insieme all'Egitto e all'Arabia Saudita, è il luogo d'origine del fondamentalismo e del tradizionalismo sunniti. Le due correnti non sono uguali. I tradizionalisti sono puritani, diffidenti verso la modernità in genere, rigidissimi in materia di morale sessuale e di negazione dei diritti delle donne, ma “quietisti” in politica e disposti a venire a compromesso con i poteri costituiti, da chiunque incarnati. I due maggiori movimenti tradizionalisti sono il wahhabismo, nato in Arabia Saudita nel XVIII secolo e strettamente legato alla monarchia dei Saud, e la scuola deobandi, fondata in India nel XIX secolo.
I fondamentalisti hanno in comune con i tradizionalisti il riferimento alla legge islamica, la shari'a, ma sono diversi in quanto hanno come primario interesse la politica, adottano uno stile esterno del tutto moderno, e considerano il puritanesimo sessuale un obiettivo importante ma secondario rispetto alla conquista del potere, che cercano di strappare a chi lo detiene con metodi anche brutali.
Inoltre - e la cosa è di estremo rilievo in Pakistan - i tradizionalisti considerano gli sciiti falsi musulmani che pongono il loro fondatore Alì al di sopra del profeta, mentre i fondamentalisti non amano gli sciiti ma sono disposti a tollerarli se giovano al progetto politico comune.
Il Pakistan è la casa madre della Jama'at at-i Islami, la maggiore organizzazione fondamentalista mondiale insieme ai Fratelli Musulmani, fondata nel 1941 da Abu l-Al'a Mawdudi, ed è il paese dove il gruppo tradizionalista deobandi controlla diverse migliaia di scuole coraniche e in passato ha organizzato “pulizie etniche” contro gli sciiti. I due gruppi non si amano: quando si vota, il partito deobandi Jamiat e-'Ulama Islam (JUI) è un competitor della Jama'at at-i Islami fondamentalista.
Con la dittatura di Musharraf, tradizionalisti e fondamentalisti si sono uniti in un cartello comune che chiede libere elezioni, ma nel frattempo collabora con il generale. I maggiori dirigenti deobandi e gli eredi di Mawdudi perseguono una linea “neo-tradizionalista” che continua a chiedere più shari'a in Pakistan ma si afferma democratica, condanna le violenze contro gli sciiti, disapprova recisamente bin Laden e Al Qaida. Che non si tratti di finzione lo dimostra l'attentato del 30 maggio scorso, quando il Muftì Nizamuddin Shamzai, uno dei capi spirituali dei deobandi, è stato ammazzato da Al Qaida senza troppi complimenti.
L'islam del cartello pakistano non è ancora quell'islam conservatore con cui si può dialogare con fiducia: è un alleanza tra fondamentalisti e tradizionalisti meno estremisti di altri e spaventati, che vogliono rifiutare l'ultra-fondamentalismo terrorista e l'ultra-tradizionalismo talebano. Un partner molto esile per un dialogo che coinvolga Musharraf, l'Occidente e la minoranza sciita (su cui l'Iran rivendica una sorta di protettorato). Ma si tratta dell'unico partner e dell'unico dialogo disponibili in Pakistan, una potenza nucleare che in mano ai terroristi diventerebbe una mina di portata mondiale. Chi ha attaccato la moschea di Sialkot vuole che questo dialogo fallisca.

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