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Pace in Sudan : "Il decisivo contributo dell'Italia"

di Massimo Introvigne (il Giornale, 26 maggio 2004)

imgSi firma oggi in Kenya il trattato di pace che dovrebbe mettere fine alla guerra più sanguinosa dell’ultimo mezzo secolo. Il governo del Sudan si accorda con i ribelli del Sud del Paese, cui promette una divisione dei poteri e un referendum che fra sei anni potrebbe condurre il Sud all’indipendenza. La televisione araba Al Jazeera ricorda gli “straordinari progressi” compiuti durante il semestre italiano di presidenza europea, e il decisivo contributo dato al processo di pace dall’Italia, che del resto è il Paese che fornisce al Sudan il maggiore contingente di missionari e volontari. Sarebbe paradossale se di questi meriti poco noti del governo Berlusconi parlasse ora soltanto Al Jazeera.
La guerra civile sudanese è cominciata nel 1955, un anno prima dell’indipendenza, e ha fatto un milione di morti fino alla tregua del 1972. È ricominciata nel 1983, e stavolta i morti sono difficili da contare: un milione e mezzo, forse due. Il Nord è quasi integralmente musulmano, il Sud in maggioranza legato alle religioni tradizionali africane e a un cristianesimo che sta diventando maggioritario, con una forte presenza cattolica. Il Nord è di etnia araba, il Sud (come l’Ovest) diviso in una miriade di tribù africane che una certa mentalità araba ha sempre considerato portatrici di una cultura inferiore e territorio di caccia autorizzato per le incursioni dei mercanti di schiavi.
L’attuale regime di Khartoum è nato, nel 1989, come coalizione fra i nazionalisti arabi guidati dal generale Omar Hassan al-Bashir, tuttora presidente, e i fondamentalisti islamici di Hassan al-Turabi, uno dei leader del fondamentalismo mondiale.
Il tentativo di imporre la legge islamica, la sharia, anche nelle zone del Sud in prevalenza non musulmane ha continuato a motivare l’insurrezione di queste ultime. Nella guerra civile si sono moltiplicate le atrocità, ed è riemersa perfino l’antica piaga della schiavitù, inflitta a uomini e donne del Sud, in particolare cristiani. Il governo non è mai riuscito a venire a capo della ribellione, i cui capi a loro volta non sono dei santi da altare e hanno spesso usato la mano pesante.
Uno dei problemi di Khartoum è sempre stato il contrasto interno ai musulmani fra la componente arabo-nazionalista e quella fondamentalista. Dopo l’11 settembre il pragmatico presidente Bashir ha liquidato i fondamentalisti: al-Turabi è in carcere, e nel Sud non sarà più applicata la sharia.
Al-Turabi cerca ora dalla prigione di pescare nel torbido della rivolta che anima dal 2000 la seconda guerra civile sudanese. Si combatte nella regione occidentale del Darfur, che per i cattolici è la patria di santa Josefina Bakhita (1869-1947), una ex-schiava divenuta religiosa in Veneto e canonizzata nel 2000, ma dove i musulmani sono la maggioranza assoluta. Questa seconda guerra è tutta tra islamici, ed è etnica: gli africani (maggioritari) si rivoltano contro le angherie degli arabi, le cui milizie incoraggiate dal governo stanno facendo migliaia di morti e rischiano di trasformare il Darfur in un nuovo Rwanda.
È doveroso dare all’Italia i meriti conseguiti sul campo nel favorire al Sud una pace storica, sulla cui attuazione si dovrà ora vigilare. È anche importante che al generale al-Bashir non si rilascino cambiali in bianco: anche i massacri nel Darfur devono cessare. Ogni riconoscimento internazionale del regime di Khartoum va condizionato a veri progressi sul piano della libertà religiosa, dei diritti umani, di un cammino lento ma reale verso una qualche forma di democrazia.

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