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I terroristi ragionano in termini di costi-benefici, l'unico prezzo da non pagare è quello politico

di Massimo Introvigne (Il Foglio, 29 aprile 2004)

Il terrorismo non è – al contrario di quanto molti pensano – un’attività posta in essere da menti malate o da fanatici che hanno perso il contatto con la realtà. L’“azienda” terrorista calcola i costi e i benefici secondo criteri assai simili a quelli della normale razionalità politica o d’impresa. Ricorre a certe forme di terrorismo – il rapimento, gli attentati suicidi, e così via – quando l’esperienza gli dimostra che così facendo raccoglie i frutti sperati. Hamas scatena gli attentati suicidi sempre in vista di specifici obiettivi – influire sulla politica dell’Anp, o sul governo israeliano, o ancora impedire e far rimandare incontri e trattative di pace – e spesso li consegue. Gli Hezbollah libanesi hanno praticato il terrorismo suicida per indurre gli israeliani a ritirarsi dal Sud del Libano, e il rapimento di ostaggi di altri paesi perché questi facessero pressioni su Israele. Una volta ottenuto il loro scopo, queste pratiche sono diventate rarissime e gli Hezbollah hanno adottato altre forme di lotta. Nel caso specifico dei rapimenti capita certamente – è avvenuto in Cecenia – che chi si propone come mediatore per liberare gli ostaggi sia la stessa persona che ha collaborato a organizzare il rapimento, si accredita così sia l’efficienza dei rapitori sia la credibilità “umanitaria” del mediatore.
In Egitto le strategie del terrorismo sono state oggetto di dibattito. Qui le successive ondate del fondamentalismo islamico hanno tutte prima tentato e poi abbandonato il terrorismo: non sulla base di considerazioni morali, ma di un’analisi del rapporto costi-benefici. Le frange più estreme dei Fratelli Musulmani seguono la strada degli attentati mirati a dirigenti egiziani fino al 6 ottobre 1981, il giorno dell’assassinio del presidente Sadat. Questo assassinio è un successo militare ma un disastro politico: la popolazione non solo non si solleva contro il regime, ma applaude la repressione dei fondamentalisti. Da questo momento i Fratelli Musulmani si convincono che il saldo costi-benefici del terrorismo è negativo, e prendono altre strade in gran parte non violente. Questa scelta non è condivisa da una seconda ondata del terrorismo ultra-fondamentalista egiziano, che comprende il Jihad Islamico e Al-Jama’a al-Islamiyya. Queste si specializzano nel rapimento e nell’uccisione di turisti, il che garantisce loro inizialmente visibilità e crescita. Dopo il massacro di Luxor del 1997 (58 turisti uccisi), anche molti dirigenti di queste organizzazioni sperimentano che gli egiziani reagiscono negativamente al terrorismo, dichiarano di rinunciare alla lotta armata e se ne vanno in esilio in Olanda e altrove a meditare su possibili alternative politiche. Solo uno di loro, il medico Ayman al-Zawahiri, promuove una terza ondata di terrorismo egiziano, che porta l’attacco fuori dell’Egitto: direttamente in Occidente, per colpire i governi che sostengono il regime egiziano e indurli a fare un passo indietro. Oggi al-Zawahiri è l’ideologo, e forse il vero capo, di al Qaida.

Il precedente dell’Egitto

Dall’Egitto questo schema è stato esportato altrove. Il problema politico della risposta al terrorismo non può dunque essere impostato in modo moralistico. Ogni risposta sensata deve spingere i terroristi alla conclusione che il rapporto costi-benefici sta diventando negativo, e che il terrorismo va abbandonato perché non conviene più. A che cosa mira il rapimento di ostaggi in Iraq? A ottenere risultati politici presso l’opinione pubblica dei paesi dei rapiti, e a legittimare mediatori fasulli, in realtà complici dei rapitori. Se questo risultato è conseguito, il rapporto costi-benefici dei rapimenti rimane positivo, e ce ne saranno altri. Se invece si negano ai rapitori e ai terroristi benefici politici significativi, quelle specifiche strategie terroristiche saranno abbandonate.
Uno studio dell’equazione costi-benefici del terrorismo mostra che trattare discretamente tramite canali di intelligence, o anche offrire ragionevoli compensi in denaro, porta i terroristi a chiudere alla pari, o a uscire decorosamente da un vicolo diventato per loro cieco. Queste trattative sono dunque tollerabili, e non alimentano il terrorismo. Il pagamento del prezzo politico richiesto è invece una fabbrica di nuovi atti terroristici, e va evitato a ogni costo.

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