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L’impossibilità di dialogare

di Massimo Introvigne (il Giornale, 23 marzo 2004)

imgCon l’uccisione dello shayk Ahmed Yassin, fondatore e capo carismatico di Hamas, finisce un’epoca nella storia del conflitto israeliano-palestinese e se ne apre un’altra, carica di incertezze. Almeno dall’anno 1957, in cui Arafat e i suoi rompono con i Fratelli Musulmani, la maggiore organizzazione del fondamentalismo islamico internazionale, da cui poi nel dicembre 1987 nascerà Hamas, lo schema della politica interna palestinese ripete quello di tutti i paesi arabi. A una forza laicista e nazionalista con simpatie socialiste e aiuti sovietici, al-Fatah – cui altri si uniranno nell’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – se ne contrappone una religiosa di ispirazione fondamentalista. Fino alla fine degli anni 1980 i nazionalisti laicisti dominano sul piano militare, mentre i religiosi si dedicano principalmente a costruire moschee. Con il crollo dell’Unione Sovietica, principale sostegno dei nazionalisti, e con il grande risveglio islamico internazionale, dagli anni 1990, le posizioni si rovesciano; a partire dal 1994 – quando realizza il primo attentato suicida – Hamas emerge come la maggiore organizzazione palestinese quanto a capacità di terrorismo.
In teoria, Hamas – come recita il suo statuto all’articolo 11 – ritiene tutta la Palestina «terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione» e afferma che la religione vieta di cedere «anche un singolo pezzo di essa»: «Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio?». Dunque nessun compromesso territoriale: gli ebrei, tutti gli ebrei, devono essere ricacciati in mare. In pratica, Hamas ha sempre saputo conciliare la poesia della retorica islamica con la prosa della realtà. Yassin non ha mai usato la parola pace, ma ha proposto «tregue» più o meno lunghe purché Israele gli lasciasse mano libera nel tentativo di instaurare in Palestina non lo Stato nazionalista e laico di Arafat ma uno Stato islamico. Dopo avere liberato Yassin dal carcere nel 1997 in uno scambio con la Giordania, gli israeliani hanno giocato il suo gioco fino al 2003, ritenendo che Hamas sia così grande da avere al suo interno «correnti» e che non convenisse eliminare Yassin, più vecchio e ragionevole di altri dirigenti.
Con i nuovi attentati suicidi del 2003, il gioco è finito. Israele si è convinta che non si può più giocare sulle contraddizioni interne di Hamas, e che l’unica soluzione al problema Hamas è militare. Una conclusione obbligata, che però apre un’epoca del tutto nuova. Inaccettabile come interlocutore per qualunque dialogo di pace ogni componente di Hamas, non meno inaccettabile per Israele e gli Stati Uniti rimane la dirigenza nazionalista e laicista legata ad Arafat: ambigua, corrotta, invisa alla maggioranza della popolazione palestinese. Comincia quindi oggi la faticosa ricerca di nuovi interlocutori palestinesi: graditi al mondo (maggioritario) che frequenta le moschee – dunque non legati ad Arafat, che per quel mondo è il nemico – ma disponibili a rinunciare al massimalismo e al terrorismo. Il fatto che esponenti di un islam conservatore ma non fondamentalista siano emersi altrove, dalla Turchia all’Irak, lascia qualche difficile speranza anche per la Palestina.

mormoni
Per approfondire

Collana "Religioni e Movimenti":
Massimo Introvigne, Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina
Elledici, Leumann (Torino) 2003

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