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Manipolazione mentale: la sentenza della Corte Costituzionale sul plagio (1981) – Testo integrale

SENTENZA N. 96

ANNO 1981

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente - Avv. Leonetto AMADEI
Giudice - Dott. Giulio GIONFRIDA
Giudice - Prof. Edoardo VOLTERRA
Giudice - Dott. Michele ROSSANO
Giudice - Prof. Antonino DE STEFANO
Giudice - Prof. Leopoldo ELIA
Giudice - Prof. Giglielmo ROEHRSSEN
Giudice - Avv. Oronzo REALE
Giudice - Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Giudice - Avv. Alberto MALAGUGINI
Giudice - Prof. Livio PALADIN
Giudice - Dott. Arnaldo MACCARONE
Giudice - Prof. Antonio LA PERGOLA
Giudice - Prof. Virgilio ANDRIOLI
Giudice - Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 603 del codice penale (plagio) promosso con ordinanza emessa il 2 novembre 1978 dal giudice istruttore del Tribunale di Roma, nel procedimento penale a carico di Grasso Emilio, iscritta al n. 638 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52 del 21 febbraio 1979.

Visti gli atti di costituzione di Grasso Emilio, delle parti civili Pallante Maria e Cerocchi Luisa, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 4 marzo 1981 il Giudice relatore Edoardo Volterra;

uditi l’avv. Mauro Mellini per Grasso Emilio, l’avv. Giovanni Maria Flick per Pallante e Cerocchi e l’avvocato dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri .

Considerato in diritto

l. - Il giudice a quo solleva la questione di legittimita costituzionale dell’art. 603 del codice penale sotto due distinti profili:

a) la norma in parola contrasterebbe con l’art. 25, comma secondo, della Costituzione perché priva del requisito della tipicità, il quale, coerentemente al principio della riserva assoluta di legge in materia penale, «richiede una puntuale relazione di corrispondenza fra fattispecie astratta e fattispecie reale»;

b) la medesima norma lederebbe inoltre l’art. 21 comma primo, della Costituzione nella parte in cui la sua portata « ecceda la funzione di tutela dell’integrità psichica della persona di fronte alle aggressioni che possono verificarsi ».

2. - Con la prima censura il giudice a quo lamenta la violazione del principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale.

In riferimento all’art. 25 della Costituzione questa Corte ha più volte ripetuto che a base del principio invocato sta in primo luogo l’intento di evitare arbitri nell’applicazione di misure limitative di quel bene sommo ed inviolabile costituito dalla libertà personale. Ritiene quindi la Corte che, per effetto di tale principio, onere della legge penale sia quello di determinare la fattispecie criminosa con connotati precisi in modo che l’interprete, nel ricondurre un’ipotesi concreta alla norma di legge, possa esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da fondamento controllabile. Tale onere richiede una descrizione intellegibile della fattispecie astratta, sia pure attraverso l’impiego di espressioni indicative o di valore (cfr. ad es. sentenze 21/1961 e 191/ 1970) e risulta soddisfatto fintantoché nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili. Implicito e ulteriore sviluppo dei concetti ai quali questa giurisprudenza si è ispirata comporta che, se un simile accertamento difetta, l’impiego di espressioni intellegibili non sia più idoneo ad adempiere all’onere di determinare la fattispecie in modo da assicurare una corrispondenza fra fatto storico che concretizza un determinato illecito e il relativo modello astratto. Ogni giudizio di conformità del caso concreto a norme di questo tipo implicherebbe un’opzione aprioristica e perciò arbitraria in ordine alla realizzazione dell’evento o al nesso di causalità fra questo e gli atti diretti a porlo in essere, frutto di analoga opzione operata dal legislatore sull’esistenza e sulla verificabilità del fenomeno. E pertanto nella dizione dell’art. 25 che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà.

Sarebbe infatti assurdo ritenere che possano considerarsi determinate in coerenza al principio della tassatività della legge, norme che, sebbene concettualmente intellegibili, esprimano situazioni e comportamenti irreali o fantastici o comunque non avverabili e tanto meno concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili. La formulazione di siffatte norme sovvertirebbe i più ovvii princìpi che sovraintendono razionalmente ad ogni sistema legislativo nonché le più elementari nozioni ed insegnamenti intorno alla creazione e alla formazione delle norme giuridiche.

Da quanto premesso, risulta pertanto che la compiuta descrizione di una fattispecie penale non è sufficiente ai fini della legittimità costituzionale di una norma che, data la sua struttura e la sua formulazione astratta, non consenta una razionale applicazione concreta.

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 603 sollevata dal giudice a quo in riferimento all’art. 25 della Costituzione, s’incentra così da un lato sull’intellegibilità del precetto, e dall’altro lato sull’indagine che il fenomeno ipotizzato dal legislatore sia effettivamente accertabile dall’interprete in base a criteri razionalmente ammissibili allo stato della scienza e dell’esperienza attuale.

3. - Nell’esame della questione così prospettata occorre anzitutto procedere all’individuazione della fattispecie criminosa che l’art. 603 designa con lo specifico termine di « plagio », differenziandola dalle altre previste nel capo terzo del secondo libro del codice penale (delitti contro la libertà individuale) e cercare di stabilire nel suo preciso contenuto giuridico l’esatto attuale significato lessicale della parola, tenendo conto che nel corso di due millenni con essa sono state espresse diverse figure criminose.

L’indagine storica ha ampiamente accertato che, come già avvertono antichi scrittori latini, plagium deriva dal greco e viene usato nel linguaggio giuridico sin forse dal III° secolo a.C. per designare l’azione di impossessarsi, trattenere o fare oggetto di commercio un uomo libero o uno schiavo altrui.

Marziale, nel suo famoso epigramma 52, adopera la parola in senso figurato, paragonando la falsa attribuzione di opere letterarie altrui all’illecito assoggettamento di schiavi altrui al proprio servizio, dando così vita ad un secondo significato, che ancora oggi sopravvive nelle lingue moderne (v. l’italiano plagio, il francese plagiat, l’inglese plagiarism, il tedesco Plagiat), indicante l’azione di farsi credere autore di prodotti dell’ingegno altrui e quella di riprodurli fraudolentemente. Questo delitto nel linguaggio comune è chiamato plagio e più specificatamente plagio letterario. Esso è espresso non però sotto il nome di plagio nelle leggi italiane sulla stampa (v. artt. 61 e 62 della legge 18 marzo 1996, n. 562) e in varie legislazioni straniere. Presso vari autori e anche in antiche leggi viene usato il termine di « plagio politico » per indicare l’azione di arruolare illegittimamente taluno contro la propria volontà in armate straniere di terra o di mare.

L’individuazione nel diritto romano di una figura specifica di reato, separandola e distinguendola da quella di furto e di altri crimini e riunendo sotto la denominazione di plagio determinate e precisate fattispecie, è opera della lex Fabia di autore incerto, ma collocabile fra la fine del III° e l’inizio del II° secolo a.C., ampiamente citata e commentata dai giuristi romani (Gaio, Ulpiano, Paolo, Callistrato) e oggetto di accurate indagini anche nella recente dottrina romanistica. Nelle Sententiae di Paolo, nella Collatio legum mosaicarum et ronlanarum, nel Codice Teodosiano, nel Codice Giustinianeo, nel Digesto, un titolo è dedicato alla legge. Essa prevedeva l’ipotesi di chi avesse dolosamente tenuto celato o incatenato un uomo libero ingenuo o liberto o ne avesse fatto oggetto di vendita, donazione o permuta, nonché l’ipotesi che il reato fosse compiuto da uno schiavo o per propria iniziativa o anche con la consapevolezza del suo padrone.

Contemplava anche come plagium i medesimi atti compiuti su uno schiavo altrui contro la volontà del suo proprietario; sembra che rientrasse in questa figura di reato anche l’azione di chi induceva lo schiavo a fuggire dal proprio padrone.

Nelle leggi barbariche e nelle fonti giuridiche medioevali il termine plagium è costantemente usato a designare l’atto di colui che sottopone illegittimamente un essere umano a schiavitù o lo trasferisce contro la sua volontà in altri luoghi facendolo oggetto di negozi giuridici, crimine represso con gravissime pene (v. ad es. il cap. 78 dell’Editto di Teodorico del VI° secolo). La lex Visigothorum del V° e VI° secolo sottopone a gravi sanzioni afflittive e patrimoniali gli uomini liberi e i servi che abbiano plagiato uomini liberi o servi altrui. La lex Salica del V° e del VI° secolo e la Lex Frisionum dell’VIII° secolo equiparano il plagio di nobili e di uomini liberi all’omicidio.

Il medesimo significato legale tecnico dei termini plagium, plagiator e del verbo plagiare si mantiene costante nel diritto intermedio, come può constatarsi dai vari lessici e repertori giuridici.

4. - Nel diritto antico e sino all’inizio dell’età moderna il reato di plagio era inerente all’istituto giuridico della schiavitù inteso come stato della creatura umana non avente personalità giuridica: la sua repressione nelle varie legislazioni mira a proteggere da invasioni illecite da parte di terzi il diritto di proprietà dei padroni degli schiavi nonché a colpire la riduzione in schiavitù o in condizione di fatto analoga di un uomo libero.

A partire dalla fine del secolo XVIII° con la progressiva accettazione del principio dell’uguaglianza dello stato giuridico delle persone e con la conseguente progressiva abolizione dell’istituto della schiavitù (proclamata per la prima volta legislativamente dalla Francia rivoluzionaria nel 1791, revocata subito dopo e definitivamente stabilita nel 1848, dall’Inghilterra nel 1833, dagli Stati Uniti nel 1863 e dietro il loro esempio da molte altre Nazioni), con la convenzione internazionale di Saint-Germain del 1919 la quale dichiarava illecita la schiavitù in tutte le sue forme, compreso il lavoro forzato, la pseudo-adozione, il concubinaggio forzato, la schiavitù per debiti ed altre situazioni di fatto, con la convenzione internazionale di Ginevra del 1926 e con quella del 1956 si è necessariamente da tempo trasformata la nozione del reato di plagio. Esso non può più essere configurato come un delitto contro la proprietà di esseri umani, ma è esclusivamente concepito come un delitto contro la libertà individuale.

Le legislazioni preunitarie italiane, tranne due, non contenevano norme che vietassero specificatamente la schiavitù e il commercio di schiavi, ma solo norme che punivano la riduzione di uomini liberi e particolarmente di fanciulli in condizioni di servaggio. Così il Codice penale francese del 22 febbraio 1810, in vigore per molti anni negli Stati sottoposti al dominio e all’influenza napoleonica, pur non usando espressamente il termine plagiat, noto comunque nel linguaggio forense e giudiziario, puniva agli artt. 341, 344 l’arresto illegale e il sequestro di persona e agli artt. 345-355 il rapimento, la sottrazione, la sostituzione di minori con altri, la falsa attribuzione di maternità, il trasferimento illegale di minori, inoltre l’esposizione e l’illegale abbandono in un ospizio di un minore di 7 anni.

Anche il « Codice per lo Regno delle Due Sicilie » del 2l maggio 1819, in vigore dal 1° settembre del medesimo anno, senza parlare espressamente di plagio, contempla vari delitti contro l’asservimento di persone. Così all’art. 119 la pirateria contro nazionali del regno. Agli artt. 403 e 405 punisce l’abbandono e l’esposizione di minori di sette anni e il loro illegittimo abbandono in un ospizio. Anche il regolamento sui delitti e sulle pene per lo Stato Pontificio del 20 settembre 1832, in vigore il 1° novembre, all’art. 126 sanziona con gravi pene l’ingaggio e l’arruolamento di sudditi pontifici per porli al servizio militare di principi esteri e agli artt. 305, 309 l’esposizione, l’occultamento, la sostituzione di un fanciullo e la supposizione di parto senza designare questi reati come plagio.

L’arruolamento non autorizzato di sudditi per servire in truppe estere è contemplato anche all’art. 112 del codice penale per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla del 5 novembre 1820 in vigore al 1° gennaio 1821 ed anche all’art. 129 n. 4 del codice criminale per gli Stati Estensi del 14 dicembre 1855 in vigore il 1° maggio 1856. Il primo di questi codici sanziona all’art. 390 l’esposizione e l’abbandono di minori di sette anni. Entrambi ed anche il Codice penale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna del 29 novembre 1859 in vigore il 1° maggio 1860 non usano il termine di plagio. Il reato di riduzione in situazione analoga alla schiavitù è invece espressamente contemplato (senza però adoperare il termine tedesco Menschenraub e il suo equivalente Plagium), nella nuova edizione del Codice penale per l’impero d’Austria del 3 settembre 1803 pubblicata il 27 maggio 1852, la quale nella parte prima, capo nono, sotto il titolo « della pubblica violenza », prevista « mediante trattamento di una persona in modo proprio della schiavitù » al ff 95 (decimo caso) dichiara un principio essenziale per lo stato giuridico della persona, affermando che non si tollera « nell’Impero d’Austria la schiavitu, né l’esercizio d’una podestà ad essa relativa », e che diviene « libero ogni schiavo nel momento in cui tocca l’imperiale territorio austriaco od anche soltanto una nave austriaca, ed acquistando parimenti la sua libertà anche in stato estero, nel momento in cui per qualsivoglia titolo viene rilasciato come schiavo ad un suddito dell’Impero austriaco ». Nello stesso ff 95 è severamente represso con la pena da 10 sino a 20 anni di carcere duro il traffico di schiavi.

Il medesimo codice al ff 90 punisce chi « senza saputa ed assenso della legittima autorità riduce coll’astuzia o colla forza in suo potere una persona per consegnarla contro la di lei voglia ad una forza estera », ai 92 e 93 commina gravi sanzioni per l’ingaggio non autorizzato e la restrizione non autorizzata della libertà personale.

5. - Delle legislazioni italiane preunitarie una sola, il codice penale del Granducato di Toscana del 20 giugno 1853 in vigore il 1° settembre dello stesso anno, usa il termine di « plagio » in un preciso significato giuridico nell’art. 358 posto nella Sezione II^, capo I°, « Dei delitti contro la libertà personale e la privata tranquillità e il buon nome altrui ». « p 1. Chiunque, per qualsivoglia Scopo, in grazia del quale il fatto non trapassi sotto il titolo di un altro delitto, si è ingiustamente impadronito di una persona suo malgrado, od anche d’una persona consenziente, che sia minore di 14 anni, soggiace come colpevole di plagio, alla casa di forza da tre a sette anni, o, nei casi più leggeri, alla carcere da uno a tre anni. p 2. E quando il plagiario abbia consegnato la persona, di cui si è impadronito, ad un servigio estero militare o navale, o l’abbia fatta cadere in schiavitù, è punito sempre con la casa di forza da cinque a dodici anni ».

La parola « plagio » ricorre nel medesimo codice all’articolo 119 P. 1. « Chiunque fuori del caso di plagio, arrola, senza la permissione del Governo, uno o più toscani sotto le bandiere di un altro Stato, che non sia in guerra con la Toscana, incorre nella carcere da uno a cinque anni ».

Nel seguente art. 359 la pena prevista nel ff 2 del precedente articolo è comminata a colui che « ha tolto arbitrariamente all’autorità domestica un minore di 14 anni tutto che consenziente, affinché professi una religione diversa da quella in cui è nato », fatto questo che, secondo uno dei maggiori commentatori del codice toscano, Giuseppe Puccioni, dovrebbe intendersi come un delitto affine a quello del plagio.

Le fattispecie delittuose contemplate in questo codice col nome di plagio sono ampiamente esaminate nei commenti dello stesso Puccioni e di Francesco Carrara. Secondo il primo, gli estremi del delitto di plagio sarebbero per la scienza penale: « 1) violazione della libertà personale di un uomo; 2) operata con violenza o fraude su quelli che sono Sui juris; con dissenso del padre o del tutore in quelli alieni iuris subiecti; 3) animo di far lucro… Il codice … riconosce plagio in qualsivoglia fine purché il fatto non trapassi sotto il titolo di un altro delitto » lo distingue dagli altri delitti contro la libertà personale e in particolare da quello previsto nell’art. 360 (carcere privato), dall’arresto illegittimo, dal ratto e dalla violenza carnale. « I Codici Francese ed Italiano » nota il Puccioni « confondono il plagio con i delitti di arresto, e detenzione arbitrarii, di carcere privato, o di riscatto, onde attinger non possiamo da essi notizia alcuna positiva ».

Il Carrara, commentando l’art. 358 scriveva: « … la nozione del plagio secondo i dettati delle scuole e delle migliori legislazioni contemporanee può circoscriversi in questi termini – la violenta o fraudolenta abduzione di un uomo per farne lucro o per fine di vendetta –. I criteri essenziali di questo reato sono tre: 1) che siasi sottratto un uomo; 2) che siasi sottratto con frode o violenza; 3) che siasi sottratto per fine di farne lucro, o per esercitare sopra di lui una vendetta ». Questa nozione del Carrara è ancora citata e richiamata in dottrina ed accolta in alcune pronunzie giudiziarie del nostro tempo.

L’esame delle precedenti legislazioni degli Stati italiani mostra pertanto la difficoltà di trarre da esse una nozione precisa e sicura del reato di plagio e i criteri per distinguerlo fra i delitti contro la libertà personale. Da questo esame risulta però anche in modo indubbio che la fattispecie criminosa chiamata plagio, come anche tutte quelle contemplate nei vari codici, quali delitti contro la libertà personale, sono sempre state concepite come attuate esclusivamente mediante un’azione fisica del colpevole e individuate attraverso elementi oggettivi.

6. - Il primo codice penale italiano unitario pubblicato il 22 novembre 1888, in vigore il 30 giugno 1889, nel libro II°, titolo II°, « dei delitti contro la libertà », capo III° sotto il titolo « dei delitti contro la libertà individuale » disponeva all’art. 145: « Chiunque riduce una persona in schiavitù o in altra condizione analoga è punito con la reclusione da dodici a venti anni ». La fattispecie prevista « riduzione in schiavitù o in altra situazione analoga » era denominata nelle rubriche ufficiali del progetto e figurava in varie edizioni del codice come « plagio ». Essa si qualificava nel suo contenuto, attraverso il confronto con gli altri delitti contro la libertà individuale previsti nello stesso capo e precisamente distinguendola dalla privazione illegittima della libertà personale (art. 146) rubricata negli indici ufficiali del progetto come « sequestro di persona commesso da privato », dal « sequestro di persona commesso da pubblico ufficiale » (art. 147), dalla sottrazione o dalla illegittima ritenzione per fine di libidine o di matrimonio (artt. 340 e 341), dalla sottrazione di minore di 15 anni col consenso di essa ai genitori o tutori o a chi ne abbia la cura o la custodia (art. 148 rubricato come « sottrazione di minorenne »), dalla « perquisizione personale arbitraria » (art. 149), dagli « abusi di potere verso persona carcerata o arrestata » (artt. 150 -152), dalla « pena del pubblico ufficiale che agisce per un fine privato » (art. 153), dalla « violenza privata » (art. 154), dalle « minacce » (art. 156). La fattispecie di cui all’art. 145 del codice del 1889 (plagio) presupponeva pertanto un’azione umana esclusivamente fisica, il cui risultato era quello di porre la vittima in una condizione materiale di dipendenza da altri senza avere l’effetto, nell’ambito dell’ordinamento italiano, dato il principio in esso vigente della libertà giuridica di ogni essere umano, di far perdere alla vittima lo stato giuridico di uomo libero o di mantenerla nella condizione giuridica di individuo privo di questo stato o in stato inferiore. Considerazione questa che nella redazione del progetto del codice aveva indotto la Commissione della Camera dei Deputati a proporre la soppressione della disposizione dell’art. 141 (divenuta nel testo definitivo l’art. 145).

7. - Il codice penale italiano del 1930 usa il termine plagio in un significato del tutto nuovo, diverso da quello dei precedenti codici e in particolare da quello del 1889 e diverso anche da quello originario antico.

Mentre il codice del 1889 indicava nel titolo II° del libro II° i delitti contro la libertà, ordinandoli in 6 capi, di cui il III° comprendeva i delitti contro la libertà individuale (artt. 145 -156), il nuovo codice raccoglie nel capo III° del libro II° i delitti contro la libertà individuale, distinguendoli in 5 sezioni, le cui tre prime sono intitolate: I° - dei delitti contro la personalità individuale; II° - dei delitti contro la liberta personale; III° - dei delitti contro la libertà morale.

La prima sezione comprende 5 articoli (600 - 605). Il 600 ha un contenuto letterale identico a quello dell’art. 145 del precedente codice del 1889, articolo, il quale, come già detto, era rubricato sotto il nome di « plagio » e corrisponde pedissequamente al testo di questo: « Chiunque riduce una persona in stato di schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù è punito con la reclusione da 5 a 15 anni ». (Rispetto al testo dell’art. 145 del codice del 1889 vi è solo l’aggiunta delle due parole: « alla schiavitù » che qualificano superfluamente l’aggettivo « analoga », e l’ammontare della pena che nell’art. 145 era da 12 a 20 anni). Nell’art. 600 del codice del 1930 la disposizione già contenuta nell’art. 145 del precedente codice non è più chiamata « plagio », ma « riduzione in schiavitù ». Segue l’art. 601 « tratta e commercio di schiavi », il 602 « alienazione e acquisto di schiavi » e quindi il 603, intitolato « plagio »: « Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni ».

Chiude la sezione l’art. 604, intitolato: « fatto commesso all’estero in danno di cittadino italiano», prescrivendo che le disposizioni di questa sezione « si applicano altresì, quando il fatto è commesso all’estero in danno di cittadino italiano ».

8. - Dai lavori preparatori del codice penale del 1930 risulta che la formulazione di quello che doveva divenire l’art. 603 (art. 612 del progetto), l’individuazione del reato in esso previsto e l’aggiunta nei delitti contro la personalità individuale di una fattispecie criminosa non indicata nel codice del 1889, e diversa da quella dell’art. 600 del nuovo codice e dell’art. 145 del precedente, erano state oggetto di lunghe e complesse discussioni fra i commissari. La maggioranza dei membri della commissione parlamentare aveva affermato l’opportunità di mantenere l’antica denominazione di « plagio » alla riduzione in schiavitù o in condizione analoga e si era dichiarata contraria alla proposta di aggiungere una nuova fattispecie ignorata dai precedenti codici, insistendo sull’opportunità di non apportare modifiche alle configurazioni tradizionali.

I commissari denunziavano infatti il pericolo che, usando termini antichissimi, da essi considerati lessicalmente sicuri, consacrati da oltre duemila anni nel linguaggio e nell’esperienza legislativa e forense per indicare ex novo istituti sino allora sconosciuti, si confondessero concetti giuridici basilari e s’incorresse in mancanza di chiarezza. La medesima maggioranza insisteva sull’indeterminatezza della norma così proposta.

Uguali opinioni esprimevano le commissioni reali degli avvocati e procuratori di Napoli e Roma e la Corte di appello di Napoli, negando l’esistenza di una specifica figura criminosa chiamata plagio che si distinguesse dalla schiavitu.

L’opinione dei membri della commissione parlamentare si traduceva in un preciso ordine del giorno votato a grande maggioranza, esprimente l’avviso che gli articoli del progetto 609 e 612 (rispettivamente 600 e 603 del codice) fossero fusi in un solo articolo.

Il guardasigilli nella sua relazione al progetto definitivo non teneva alcun conto del risultato della votazione e non riteneva di fondere i due articoli, allegando come argomento « il vantaggio indiscutibile della chiarezza e per la considerazione che trattasi di figure delittuose distinte ». Affermava di eliminare « ogni dubbio » in ordine alle discussioni circa l’art. 145 del codice del l 889 « intese a stabilire se per “schiavitù o altra analoga condizione” fosse da intendere schiavitù e condizione di diritto, ovvero anche di fatto ».

Va rilevato che alla disposizione dell’art. 612 del progetto « chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla in tale stato di soggezione da sopprimerne totalmente la libertà individuale, è punito con la reclusione da 5 a 10 anni », venivano soppresse le parole « in tale stato di soggezione da sopprimerne totalmente la libertà individuale », dando cosi vita all’attuale art. 603 del codice. È singolare che di una variazione così importante del testo, non vi sia alcun accenno nella relazione del guardasigilli al re e manchi ogni giustificazione dei motivi concettuali e pratici che avrebbero indotto a tale variazione.

La relazione del guardasigilli, la quale commentava il testo del progetto e non il testo definitivo, senza tener conto del mutamento, contemplava come figura distinta, ma parallela alla riduzione in schiavitù, il plagio, affermando che questo reato « consiste nel sottoporre taluno al proprio potere in modo da ridurlo in tale stato di soggezione da sopprimerne totalmente la libertà individuale ». E aggiungeva, « lo stato di soggezione suddetto è qui uno stato di fatto. Lo status libertatis, come stato di diritto rimane inalterato, ma la libertà individuale della vittima è soppressa. Tra il colpevole e la vittima si stabilisce, in sostanza, un rapporto tale che il primo acquista sulla seconda completa padronanza e dominio, annientandone la libertà nel suo contenuto integrale, impadronendosi completamente della sua personalità ». E dopo aver detto che in questo delitto « il consenso della vittima non può escludere il reato, non essendo la libertà individuale, nel suo complesso, riferibile alla personalità umana, un diritto disponibile », la relazione prosegue con un passo il quale di per sé stesso mostra l’ambiguità della norma: « È da avvertire come l’espressione “sopprimere totalmente la libertà individuale” non sarebbe con esattezza interpretata se si ritenesse che debbano risultare soppresse, nella loro totalità, tutte, niuna esclusa, le manifestazioni nelle quali la libertà può esplicarsi; essa, invece, è apparsa come la più congrua per esprimere il concetto di negazione da parte dell’agente, della personalità della vittima, e per differenziare il plagio da altri delitti contro la libertà individuale, ad es. il sequestro di persona, nei quali non si riscontra il rapporto di soggezione anzidetto, che investe e lede la personalità umana. Non sarebbe, pertanto, da escludere il plagio se, per avventura, alla vittima, assoggettata al potere dell’agente, fosse residuata una qualche libertà, ad es. di locomozione) o di corrispondere per lettera con terzi, ecc. ». Da questa relazione, sia pure lacunosa e scarsamente motivata del progetto, risulta che da un lato, riproducendo letteralmente nell’art. 600 la formula dell’art. 145 del codice precedente, ma aggiungendo ex novo la disposizione dell’articolo 603, il delitto di riduzione in schiavitù o in situazioni analoghe, veniva ad essere limitato nella sua estensione, circoscrivendo, nell’intenzione dei compilatori, attività criminose dirette a violare soltanto lo stato di diritto della vittima. Dall’altro lato con la disposizione dell’art. 603 s’intendeva punire attività criminose dirette a costituire in altri uno stato di fatto di totale soggezione.

La nozione di schiavitù o condizione analoga alla schiavitù intesa come condizione di diritto contemplata negli articoli 600 - 602 del codice e che la relazione del guardasigilli intendeva distinguere dalla fattispecie dell’art. 603 non teneva comunque conto dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra 25 settembre 1928 divenuta legge interna italiana con il r.d. 26 aprile 1928, n. 1723 richiamata nella medesima relazione e rinnovata nella convenzione di Ginevra 7 novembre 1956 approvata con legge 20 dicembre 1957, n. 1304. Nell’elenco delle varie situazioni che la convenzione considera « istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù » varie di esse sono condizioni di fatto e non di diritto perché realizzabili senza che alcun atto o fatto normativo le autorizzi. Ne consegue che condizione analoga alla schiavitù deve interpretarsi come condizione in cui sia socialmente possibile per prassi, tradizione e circostanze ambientali, costringere una persona al proprio esclusivo servizio, laddove il plagio deve necessariamente ipotizzare anche una conculcazione dell’interno volere. Ed infatti dai lavori preparatori del codice del 1930 e dalle varie relazioni emerge che la fattispecie di cui all’art. 603 viene implicitamente ipotizzata quale avente sulla vittima un effetto psichico annientandone la libertà nel suo contenuto integrale, anche se nessuno dei commissari e lo stesso guardasigilli avesse mai esplicitamente affermato che il delitto potesse attuarsi senza una padronanza sulla persona realizzata mediante una attività fisica umana.

Nel codice del 1930 risulta pertanto individuata, distinguendola da quella dell’art . 600, una fattispecie penale che per la prima volta è chiamata con l’antichissimo termine di « plagio », concretizzando legislativamente nel solo ordinamento italiano la modifica del valore lessicale della parola. Nello stesso tempo non viene conservata per l’art. 600 quella che era la denominazione della identica fattispecie prevista nell’art. 145 del codice del 1889 ed indicata nelle rubriche ufficiali del progetto di questo codice come « plagio ». Essa viene invece denominata « riduzione in schiavitù».

La nuova norma, la quale prevedeva una pena gravissima, era sconosciuta alle precedenti legislazioni italiane e a quelle europee. Né risulta che in altri ordinamenti sia stata recepita la disposizione dell’art. 603 del codice italiano vigente o che sia stata prevista e repressa l’attività criminosa indicata in questo articolo distinguendola dalla riduzione in schiavitù o in situazione analoga.

9. - Nell’esame della dottrina e della giurisprudenza in ordine all’art. 603 possono distinguersi cronologicamente due distinti periodi, il primo fra il 1930 e il 1960, il secondo dal 1961 ai nostri giorni.

Sino al 1960 la dottrina aveva costantemente cercato di interpretare l’art. 603, configurando teoricamente una totale soggezione di fatto del soggetto passivo con soppressione dell’autonomia della vittima, tentando di distinguere la figura del plagio dagli altri delitti contro la libertà individuale e di renderla autonoma rispetto ad essi e soprattutto rispetto al sequestro di persona, di cui all’art. 605.

Dagli scritti dei vari autori risulta l’incertezza e talvolta affiorano anche i contrasti per la determinazione degli elementi costitutivi del reato non chiaramente indicati dalla norma dell’art. 603 e in particolare per l’identificazione del risultato dell’azione criminosa indicato quale « totale stato di soggezione » e per stabilire il significato e la portata di questi termini sia pure attraverso esempi di fattispecie. Questi esempi costantemente si riducono a casi di parziale, ma non mai di totale soggezione.

Dai commenti all’art. 603 anteriori al 1960 non è dato ricavare nemmeno approssimativamente le attività con le quali questo stato può concretamente realizzarsi, attraverso quali modalità, e nemmeno stabilire se sia possibile accertare il compimento di questo reato.

Quasi tutti gli autori nei primi anni di vita del codice indicano, sulle orme del Carrara, quale elemento distintivo, soprattutto rispetto al sequestro di persona, lo scopo di porre la vittima al servizio del plagiante e cui ricavare dall’attività di tale servizio un lucro o comunque un profitto. I concetti espressi dal Carrara, secondo alcuni, potrebbero essere di guida per l’interpretazione del codice vigente. Più tardi, altri autori, nella varietà delle molteplici interpretazioni proposte, hanno invece negato che questo elemento sia imprescindibile per determinare il fondamento del reato. Altri ancora affermano che il motivo o il fine dell’azione sono indifferenti per la nozione del reato e si richiamano alle dichiarazioni della relazione del guardasigilli la quale sembra caratterizzare il reato soprattutto in base al risultato dell’azione plagiante « Ciò che il giudice deve avere di mira, per accertare se esista il plagio, e, in altre parole, il rapporto di completa soggezione tra colpevole e vittima, di guisa che quest’ultima, privata della facoltà di liberamente volere e di liberamente determinarsi costituisca quasi una res in potere del primo. Quando ciò egli accerti, il delitto di plagio assorbisce ogni altro attentato alla libertà personale, compreso lo stesso sequestro di persona ».

Pertanto emerge chiaramente come nei primi trenta anni di vita del codice non fosse stato risolto in modo soddisfacente il problema di condurre in ipotesi concreta ed univoca la formula normativa dell’art. 603.

La dizione letterale di questa non consentiva ipotesi che corrispondessero a quella che per secoli era stata l’accezione tradizionale del plagio, quali ad esempio il sottoporre persone al lavoro obbligatorio, il rapire fanciulli per appropriarsi della loro attività di mendicanti, il fornire donne ad harem di sovrani assoluti ed altri. Il testo, invece, nella presumibile intenzione del legislatore, sembra avere riguardo al totale stato di soggezione supponendo che sia possibile verificare la condizione di « schiavo di fatto » distintamente da quella di « schiavo di diritto », condizione la prima in cui il fattore psichico ha maggiore rilievo di quello esterno ossia il tenore di vita del plagiato.

In tal modo la posizione interpretativa di chi tendeva a fornire una connotazione tipica all’azione plagiante, al rapporto fra plagiatore e plagiato e allo status di questo ultimo, risultava inappagante. Il fatto stesso di punire in sostanza con l’art. 603 un fenomeno di privazione della personalità, di riduzione da persona a cosa eterodiretta, fenomeno della cui verificabilità in concreto ben si poteva dubitare, induce inizialmente la dottrina ad interpretazioni che contraddittoriamente oscillano tra l’esteriorizzazione e l’interiorizzazione del plagio. Pertanto taluni autori, mentre cercavano di definire l’elemento materiale del reato, parlavano di padronanza corporea e di padronanza psichica, senza porsi però il problema della dipendenza di un fenomeno dall’altro, negavano che il reato potesse essere caratterizzato da un dolo specifico, affermavano che il consenso della vittima non esclude il delitto, aprendo così la via alla distinzione, peraltro inafferrabile, tra persuasione e suggestione, tra negazione della personalità e libero convincimento.

10. - La giurisprudenza sull’art. 603 fornisce un sicuro dato oggettivo che avvalora in modo decisivo il dubbio affacciato in dottrina della possibilità di dare alla norma, quale è lessicalmente formulata, un’applicazione univoca. Nei primi quaranta anni di vita del codice si sono avuti rarissimi processi di plagio tutti di assoluzione con la formula « perché il fatto non sussiste » o « perché il fatto non costituisce reato » o perché il fatto non costituiva il reato di plagio, ma doveva essere diversamente rubricato.

Nelle motivazioni di queste sentenze, esponendo le ragioni per escludere nelle specie la sussistenza del reato di plagio, si cerca, seguendo le vaghe e indeterminate indicazioni espresse nella relazione del guardasigilli, di individuare gli elementi costitutivi di questo reato. Si ripete che tale delitto mira a trarre profitto dalla persona della vittima considerata come cosa atta a rendere servigi, ad essere prestata, ceduta, alienata, perdendo la sua personalità e i suoi diritti per divenire una cosa, oggetto di diritti patrimoniali; che l’elemento materiale consiste « nella costituzione tra il soggetto attivo e quello passivo di un rapporto di fatto, per il quale questo ultimo venga sottoposto al potere dell’altro con conseguente privazione della facoltà di liberamente volere ed annientamento della volontà nel suo integrale contenuto ».

In queste prime sentenze, pur affermando « che il legislatore abbia voluto equiparare lo stato di soggezione, quale stato di fatto derivante dal plagio, allo stato di diritto derivante dalla riduzione in schiavitù » ed abbia inteso prevedere come assoggettamento completo « un insieme di restrizioni e di limitazioni tali da investire la personalità nel suo complesso, la volontà nel suo integrale contenuto », non si dice mai esplicitamente ma nemmeno esplicitamente si esclude che le attività con le quali il colpevole raggiungerebbe il risultato espresso nell’art. 603, di totale assoggettamento della vittima e di annientamento della personalità e della volontà di questa, siano di natura psichica.

In talune sentenze del 1956 e del 1957 per conferire operatività alla norma si comincia a rendersi conto che l’attività del plagiante non può avere interamente l’effetto delineato dal legislatore nell’art. 603. Si afferma pertanto che la privazione della facoltà di liberamente volere e di liberamente autodeterminarsi riduce la vittima « quasi una res » in potere del colpevole. E in altra sentenza il medesimo concetto di interpretare le parole « totale stato di soggezione » in senso riduttivo è espresso dicendo che perché sussista il plagio « fra i due soggetti deve esistere un rapporto tale di padronanza, di dominio, di potere che l’uno, essendo la sua volontà e la sua personalità “quasi completamente annullate”, possa considerarsi “quasi come una res” in potere dell’altro ».

Per la prima volta nel 1961 la Corte di cassazione in una sentenza, con la quale accoglieva un ricorso per mancanza di motivazione sull’affermazione della responsabilità dell’imputato, dichiarava esplicitamente la natura psichica di questo reato e dei suoi elementi costitutivi. Il plagio, affermava il Supremo Collegio, « consiste appunto nella instaurazione di un rapporto psichico di assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo, in modo che il primo viene sottoposto al potere del secondo con completa o quasi integrale soppressione della libertà del proprio determinismo ». E, lamentando che i giudici di merito avessero trascurato « di compiere un’indagine a fondo sulla relazione psichica tra i due soggetti, onde rilevarne in concreto la sussistenza o meno dell’elemento materiale del reato » aggiungeva che, al contrario del reato di sequestro di persona, « le condizioni materiali di vita del soggetto passivo non hanno altro valore che quello di un mero riscontro indiziario: ciò che più conta, invece, sono le sue condizioni psichiche ».

Anche questa sentenza intende accogliere l’interpretazione dell’art. 603 c.p. per cui il « totale stato di soggezione » provocato dall’azione plagiante non comporta necessariamente la totale soppressione della libertà di determinazione del plagiato.

I concetti espressi nella sentenza del 1961 sono stati applicati nell’unica pronunzia di condanna per il reato di plagio della Corte di Assise di Roma 14 luglio 1968, confermata dalla Corte di Assise in appello con sentenza 28 novembre 1969 e dalla Corte di cassazione con sentenza 30 settembre 197l. È espressamente affermato che per la consumazione del plagio « non è richiesta una padronanza fisica sulla persona, ma un dominio psichico, al quale può eventualmente accompagnarsi, ma non necessariamente, una signoria in senso materiale e corporale; per effetto di questo dominio psichico dell’agente lo status libertatis della vittima, inteso come stato di diritto rimane inalterato, ma è la sua libertà individuale quale entità concreta di fatto che viene soppressa ». Si ribadisce ancora questa concezione aggiungendo che per effettuare questo reato, non occorre che il colpevole si impadronisca materialmente del soggetto passivo e ripetendo quanto affermato nella precedente sentenza del 1961, che, a differenza del sequestro di persona, le condizioni materiali della vittima non hanno altro valore che quello di mero riscontro indiziario, contando invece le condizioni psichiche. Si precisa inoltre che « sul piano giuridico, il delitto di plagio si concretizza nella cosciente e volontaria instaurazione, con qualunque mezzo attuata, di un assoluto dominio psichico e eventualmente fisico, su di una persona, nella negazione della sua personalità per effetto della soppressione della libertà nelle essenziali sue manifestazioni ». Nella sentenza si descrive l’azione psichica del plagiante, affermando che: « L’art. 603 c.p. tutela la libertà nella sua stessa originaria essenza, nei fattori dinamici, nel potere di influsso, nella facoltà di critica e di scelta, di ricerca e di decisione, di coscienza e di volontà. Tali facoltà, che ineriscono all’attività psichica, possono venire lese non solo mediante mezzi fisici che determinino conseguenze organiche, ma anche mediante mezzi psichici che inducano situazioni particolari ed eccezionali, analoghe in certo modo alle neurosi e dipendenti da meccanismi meramente psichici, provocati da un’azione psichica esterna ». E nella sentenza di appello si precisa ancora che « il delitto di plagio si realizza anche quando l’agente aggredisce la sfera psichica di altra persona in modo da annullare la di lei personalità, sostituendovi la propria, sottraendole ideali, propositi, e imponendole i propri, disgregando ogni consapevolezza della propria individualità, facendone un cieco seguace del proprio volere, delle proprie idee, un automa privo di ogni facoltà di critica, soggiogato dalla più forte volontà di chi lo guida in un mondo non suo, in cui le idee sono accettate come l’unica possibilità di espandere la propria personalità ».

Con questa sentenza, che aveva provocato numerose e vivacissime polemiche nel campo giuridico e nel campo medico, dando luogo anche a due distinte iniziative legislative al Senato e alla Camera dei Deputati, entrambe concludenti per l’abrogazione dell’art. 603 del codice penale, veniva così definita la nozione giuridica del plagio, respingendo le interpretazioni sino allora seguite dalla dottrina e dai commentatori del codice, le quali configuravano l’azione del plagiante come sostanzialmente e principalmente fisica non effettuabile indipendentemente da eventuali attività corporali e fisiche esercitate sul plagiato.

Veniva esclusa recisamente la tesi che era stata affermata dai maggiori scrittori, secondo la quale lo scopo di porre la vittima al servizio dei plagiante, ricavandone un profitto, costituisce un elemento per distinguere il plagio dagli altri delitti contro la libertà individuale e veniva ripetuto che la totale soggezione indicata nell’art. 603 deve consistere nell’instaurazione di un’assoluta soggezione del plagiato sottoponendo questo al potere del plagiante con quasi integrale soppressione della libertà e dell’autonomia della persona.

11. - A partire dal 1969 nella dottrina penalistica e nell’opinione pubblica si è venuta a mutare in maniera discorde e polemica e ad ampliare sotto vari aspetti e in diverse direzioni la nozione del plagio.

L’abbondante letteratura prodotta in vari campi con divergenti conclusioni mostra i nuovi molteplici indirizzi dottrinari e nello stesso tempo conferma, attraverso controversie di differente natura, le gravissime difficoltà che sorgono per fornire una risposta convincente ed appagante ai problemi giuridici e scientifici, pratici e teorici che l’interpretazione dell’art. 603 comporta.

Per la configurazione del reato e per l’analisi oggettiva dell’attività illecita e degli effetti di questa la recente letteratura ha anche fatto ricorso e si è avvalsa di dati forniti da moderni trattati di neurologia e psichiatria, cercando di individuare a fini giuridici, i concetti medici, peraltro non ancora pacifici, di suggestione, di convincimento. di persuasione, di soggezione, di determinismo, di annientamento della volontà e di trasferimento della personalità umana da parte di un soggetto ad altro soggetto. Ciò al fine di determinare oggettivamente quale sia in realtà il totale stato di soggezione indicato nella norma, di indicare i possibili mezzi per accertarlo concretamente e di fissare i confini della sfera giuridica entro cui può manifestarsi.

La varietà delle numerose opinioni avanzate in proposito e i mutamenti della dottrina costituiscono anch’essi una conferma dell’indeterminatezza della norma e dell’impossibilità di dare ad essa un’univoca applicazione concreta.

12. - L’analisi del testo dell’art. 603 e i vari tentativi di distinguere il reato dagli altri delitti contro la libertà individuale, quale figura autonoma, non hanno permesso di precisare in modo razionalmente sicuro le sue caratteristiche specifiche.

Formalmente appare come un reato a condotta libera che dovrebbe essere diverso dalla riduzione in schiavitù o in condizione analoga. Secondo quanto in precedenza esposto, questo potrebbe essere attuato con mezzi psichici, cioè attraverso un’attivita psichica del plagiante esercitata direttamente sul plagiato. L’effetto dell’attività psichica del plagiante dovrebbe essere non già quello di ridurre un individuo in stato d’incapacità d’intendere o di volere (previsto espressamente nell’art. 613 del cod. pen.) bensì quello di ridurre la vittima da persona capace a persona in totale stato di soggezione. Questo totale stato di soggezione indicato dall’art. 603, annienterebbe il determinismo della vittima sostituendo il determinismo del plagiante a quello del plagiato in guisa da ridurre questo ultimo nello stato di cosa che pensa e agisce come pensa e agisce il plagiante. In altre parole sarebbe il plagiante a formare la volontà sua e del plagiato, questi essendo solo un mezzo fisico per compiere le attività volute dal plagiante.

Non si conoscono né sono accertabili i modi con i quali si puo effettuare l’azione psichica del plagio né come è raggiungibile il totale stato di soggezione che qualifica questo reato, né se per l’esistenza di questo stato sia necessaria la continuità dell’azione plagiante nel senso che, se la volontà del plagiante non si dirige più verso il plagiato, cessi lo stato di totale soggezione di questo. Non è dato pertanto conoscere se l’effetto dell’azione plagiante sia permanente e duraturo o se può venir meno in qualunque momento per volontà del plagiante o anche perché non persiste l’attività di questo o per altre cause. Nemmeno si conosce se il risorgere della facoltà di determinismo del plagiato possa essere la conseguenza di un mutamento del determinismo del plagiante o di una diversa direzione data al determinismo di questo. Quanto all’elemento psichico si tratterebbe di un delitto a dolo generico.

L’interpretazione giurisprudenziale identifica il totale stato di soggezione cui il plagiante indurrebbe il plagiato anche in una situazione in cui questo ultimo è sottoposto al potere del primo con « quasi integrale soppressione della libertà e autonomia della persona ».

L’interpretazione data, da un lato, rende evidente l’impossibilità di riscontrare nella realtà un totale stato di soggezione, tale cioè da sopprimere integralmente (e non « quasi integralmente ») ogni libertà ed autonomia di determinazione del soggetto che si assume plagiato e dall’altro modifica la fattispecie prevista e punita con la reclusione da 5 a 15 anni dall’art. 603 codice penale.

13. - La scienza medica ha accuratamente indagato intorno alla formazione e al meccanismo della persuasione, della suggestione e della soggezione psichica.

Fra individui psichicamente normali, l’esternazione da parte di un essere umano di idee e di convinzioni su altri esseri umani può provocare l’accettazione delle idee e delle convinzioni così esternate e dar luogo ad uno stato di soggezione psichica nel senso che questa accettazione costituisce un trasferimento su altri del prodotto di un’attività psichica dell’agente e pertanto una limitazione del determinismo del soggetto. Questa limitazione, come è stato scientificamente individuato ed accertato, può dar luogo a tipiche situazioni di dipendenza psichica che possono anche raggiungere, per periodi più o meno lunghi, gradi elevati, come nel caso del rapporto amoroso, del rapporto fra il sacerdote e il credente, fra il Maestro e l’allievo, fra il medico e il paziente ed anche dar luogo a rapporti di influenza reciproca. Ma è estremamente difficile se non impossibile individuare sul piano pratico e distinguere a fini di conseguenze giuridiche – con riguardo ad ipotesi come quella in esame – l’attività psichica di persuasione da quella anche essa psichica di suggestione. Non vi sono criteri sicuri per separare e qualificare l’una e l’altra attività e per accertare l’esatto confine fra esse. L’affermare che nella persuasione il soggetto passivo conserva la facoltà di scegliere in base alle argomentazioni rivoltegli ed è pertanto in grado di rifiutare e criticare, mentre nella suggestione la convinzione avviene in maniera diretta e irresistibile, profittando dell’altrui impossibilità di critica e scelta, implica necessariamente una valutazionenon solo dell’intensita dell’attività psichica del soggetto attivo, ma anche della qualità e dei risultati di essa. Quanto all’intensità, dai testi psichiatrici, psicologici e psicoanalitici e dalle ampie descrizioni mediche di condizionamento psichico risulta che ogni individuo è più o meno suggestionabile, ma che non è possibile graduare ed accertare in modo concreto sino a qual punto l’attività psichica del soggetto esternante idee e concetti possa impedire ad altri il libero esercizio della propria volontà. Quanto alla qualità non è acquisito sino a quel punto l’attività del soggetto attivo non riguardi direttive e suggerimenti che il soggetto passivo sia già disposto ad accettare. Quanto alla valutazione dei risultati essa non potrà che essere sintomatica e concludere positivamente o negativamente a seconda che l’attività esercitata sul soggetto passivo porti a comportamenti conformi o a comportamenti devianti rispetto a modelli di etica sociale e giuridica.

L’accertamento se l’attività psichica possa essere qualificata come persuasione o suggestione con gli eventuali effetti giuridici a questa connessi, nel caso del plagio non potrà che essere del tutto incerto e affidato all’arbitrio del giudice. Infatti in applicazione dell’art. 603 qualunque normale rapporto sia amoroso, sia di professione religiosa, sia di partecipazione a movimenti ideologici, sia di altra natura, se sorretto da un’aderenza « cieca e totale » di un soggetto ad un altro soggetto e sia considerato socialmente deviante, potrebbe essere perseguito penalmente come plagio.

Anche sotto questi profili risulta pertanto l’indeterminatezza della norma e della sua interpretazione.

14. - La formulazione letterale dell’art. 603 prevede pertanto un’ipotesi non verificabile nella sua effettuazione e nel suo risultato non essendo né individuabili né accertabili le attività che potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in totale stato di soggezione, né come sarebbe oggettivamente qualificabile questo stato, la cui totalità, legislativamente dichiarata, non è mai stata giudizialmente accertata.

Presupponendo la natura psichica dell’azione plagiante è chiaro che questa, per raggiungere l’effetto di porre la vittima in stato di totale soggezione, dovrebbe essere esercitata da persona che possiede una vigoria psichica capace di compiere un siffatto risultato. Non esistono però elementi o modalità per potere accertare queste particolari ed eccezionali qualità né è possibile ricorrere ad accertamenti di cui all’art. 314 c.p.p.. non essendo ammesse nel nostro ordinamento perizie sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche.

Né è dimostrabile, in base alle attuali conoscenze ed esperienze, che possano esistere esseri capaci di ottenere con soli mezzi psichici l’asservimento totale di una persona.

15. - Dinanzi alle perplessità cui ha dato luogo l’unica sentenza di condanna per il delitto di plagio pronunziata nel nostro ordinamento in oltre 50 anni dall’emanazione del codice penale, parte della dottrina ha tentato di rinvenire connotazioni tipiche di tale figura criminosa, richiamandosi anche ad elementi tratti da ipotesi psichiatriche. Alcuni, infatti, interpretando limitativamente la norma nel senso che il suo scopo sarebbe quello di proteggere da fenomeni ossessivi o da psicosi indotta, vorrebbero ravvisare tale delitto nella concorrenza di due elementi. Uno esteriore consistente nell’allontanamento dai terzi del plagiato ad opera del plagiante anche attraverso un sequestro di persona o fatti simili. Uno interiore consistente nel senso di deprivazione psichica in cui deve versare il plagiato una volta interrotto il rapporto col plagiante, deprivazione che, secondo l’ipotesi prospettata, mostrerebbe come il soggetto passivo era stato ridotto ad uno stato di soggezione totale.

Simile tesi viene oggi riproposta alla Corte dalla difesa delle parti civili.

Ora, a parte che nessun canone ermeneutico autorizza ad una tale configurazione restrittiva del reato, non sembra che tali elementi, sia singolarmente che unitariamente considerati, valgano a rendere determinata la fattispecie criminosa di cui all’art. 603 c.p. Essi, al contrario, paiono offrire un’ulteriore dimostrazione che questo articolo – di per sé inapplicabile – si attualizza nella giurisprudenza e nella dottrina in forza di un’interpretazione analogica, tesa ad assimilare gli stati realizzabili di quasi totale soggezione allo stato irrealizzabile di totale soggezione.

Va infatti osservato che il concetto di « deprivazione psichica » che s’identifica con il senso di avere bisogno di qualcuno, è essenzialmente quantitativo, instaurandosi in qualsiasi rapporto affettivo una sorta di quello che gli psicologi chiamano « transfert » o anche di rapporto psicologico reciproco. Ma per valutare se l’interruzione del rapporto con altri faccia arguire la preesistenza di uno stato di « totale soggezione », è necessario conoscere l’intensità dolorosa dell’interruzione. Quesito questo a cui può darsi solo una risposta soggettiva e quindi di per sé convalidante l’arbitrarietà di una simile soluzione concettuale.

D’altra parte l’elemento esteriore consistente nell’allontanamento dai terzi, se non sorretto dall’elemento interiore o se sorretto da un elemento interiore non determinato, quale la deprivazione di cui si è detto, perde ogni connotazione significativa ai fini di una tipizzazione del delitto.

16. - L’esame dettagliato delle varie e contrastanti interpretazioni date all’art. 603 c.p. nella dottrina e nella giurisprudenza mostra chiaramente l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire ad essa un contenuto oggettivo, coerente e razionale e pertanto l’assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione. Giustamente essa è stata paragonata ad una mina vagante nel nostro ordinamento, potendo essere applicata a qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di un essere umano da un altro essere umano e mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l’intensità.

L’art. 603 c.p., in quanto contrasta con il principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale, consacrato nell’art. 25 Cost., deve pertanto ritenersi costituzionalmente illegittimo.

17. - La constatazione del contrasto fra l’art. 603 c.p. con l’art. 25 Cost. è assorbente dell’altra questione sollevata dal giudice a quo dell’illegittimità costituzionale del medesimo articolo in riferimento all’art. 21.

Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 in riferimento all’art. 25 Cost.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 c.p.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 09/04/81.

Leonetto AMADEI, Presidente

Depositata in cancelleria il 08/06/81.

Il lavaggio del cervello
Per approfondire

Collana "Religioni e Movimenti":
Massimo Introvigne, Il lavaggio del cervello: realtà o mito?
Elledici, Leumann (Torino) 2002

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