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Soldi sì, ma in Somalia nessun soldato

di Massimo Introvigne (il Giornale, 8 gennaio 2005)

La Somalia, un paese che ha con l’Italia legami antichi e privilegiati, si trova di fronte a due disastri: lo tsunami, che ha fatto centodieci morti ma danni assai più gravi alle infrastrutture portuali e costiere, e un rapporto americano che, denunciando come basi di Al Qaida siano ancora presenti nel paese, minaccia di tagliare gli aiuti internazionali.

Il parlamento nato dal trattato di pace fra le varie fazioni firmato a Nairobi nell’agosto 2004 con il decisivo appoggio della diplomazia italiana, aveva eletto presidente della Somalia in ottobre Abdullah Yusuf: un’elezione inattesa, che mirava anche a favorire la restaurazione dell’integrità territoriale somala su almeno uno dei due staterelli del Nord del paese che si sono da tempo dichiarati indipendenti ma che nessuno Stato riconosce, il Puntland e il Somaliland. Entrambi hanno conosciuto negli ultimi anni una stabilità ignota al resto della Somalia: il Somaliland con un governo almeno in parte democratico, il Puntland sotto la ferrea guida del generale Yusuf, che ha reso anche qualche servigio agli americani nella caccia alle basi somale di Al Qaida.

Yusuf ha nominato primo ministro il 4 novembre 2004 Ali Mohammed Geedi, un professore di medicina veterinaria rispettato come attivista e difensore dei diritti umani. Il primo governo che Geedi aveva presentato al parlamento, ritenuto troppo legato a Yusuf e alla vicina Etiopia (che di Yusuf è il principale sponsor), non aveva ottenuto la fiducia. Geedi ha ottenuto il via libera del parlamento per formare un nuovo governo, con ministri diversi, il 28 dicembre 2004, in una giornata in cui la Somalia era impegnata a contare le vittime dello tsunami e più che mai consapevole della necessità di superare le divisioni politiche.

Ma il parlamento continua a rimanere, con il governo, a Nairobi, considerando la situazione dell’ordine pubblico a Mogadiscio ancora troppo pericolosa. Geedi, tuttavia, è più vicino ai clan che controllano la capitale somala di quanto non sia Yusuf, e il voto del 28 dicembre ha aperto uno spiraglio di speranza.

Rimangono però numerosi problemi, legati non solo al Somaliland (di cui molti osservatori considerano l’indipendenza inevitabile, e che continua a considerarsi in guerra con il Puntland per questioni di confini), ma alla capacità dello stesso Yusuf di emergere come vero uomo di Stato, facendo dimenticare alcuni peccatucci commessi come “signore della guerra” nel Nord. Il presidente dovrà mostrare di prendere sul serio la democrazia, liberarsi dalla tutela etiope, e non confondere la doverosa lotta contro Al Qaida con la repressione di qualunque espressione politica somala che si richiami all’islam.

Yusuf cerca ora di fare appello agli “amici della Somalia” perché mandino ventimila uomini a restaurare l’ordine nel suo paese. L’appello è stato giustamente respinto al mittente da Gianfranco Fini, mentre l’Uganda ha accettato il 6 gennaio di inviare duecento soldati come primi membri di un possibile contingente dell’Unione Africana.

L’esperienza dimostra che una forza di pace in Somalia può consolidare, non creare, il potere di un governo sul territorio che Yusuf e Geedi devono prima conquistarsi negoziando con i vari clan tribali, e mostrando un minimo di consistenza politica e militare. In una Somalia senza governo truppe occidentali rischiano molto e possono fare poco. L’Italia compirà ancora il suo dovere inviando in Somalia aiuti per il dopo-tsunami: ma fa bene a non mandare soldati.

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