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Elezioni e Islam senza democrazia

di Massimo Introvigne (il Giornale, 9 gennaio 2005)

Le elezioni in Palestina fanno seguito a quelle in Afghanistan e precedono il voto del 30 gennaio in Irak.  È davvero democrazia? Sono possibili elezioni vere nei paesi islamici? Il filosofo inglese Roger Scruton risponde in mondo sostanzialmente pessimista a questa domanda con la sua opera The West and the Rest (tradotta in italiano nel 2004 da Vita e Pensiero come L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica). Scruton insiste sulla natura intrinsecamente diversa dello Stato nei paesi islamici e in quelli occidentali. In Occidente, grazie all’incontro fra diritto romano e cristianesimo, il cittadino crede nello Stato e accetta l’idea di una comunità che include anzitutto i suoi cari e le persone con cui condivide un’identità religiosa, ma anche molti «perfetti estranei» di cui ci riconosciamo concittadini e compatrioti anche se non hanno con noi vincoli di sangue né di religione, ma solo di appartenenza territoriale e culturale. Il musulmano invece, pensa Scruton, non ha veramente interiorizzato altre patrie diverse da quella piccola della tribù e del clan, fondata su una consanguineità estesa, o della comunità che lega fra loro tutti i credenti escludendo i non musulmani. I cosiddetti Stati islamici sono creazioni artificiali, che i loro cittadini accettano solo perché sono intimoriti dalla forza o dalla corruzione di chi detiene il potere. Lungi dall’essere un’anomalia, il fondamentalismo islamico interpreta in modo tipico questa carenza di capacità di identificazione con lo Stato che deriva dallo stesso Corano e dalla storia dei primi secoli islamici. Ogni processo elettorale, quindi, porterebbe solo allo scoperto solidarietà di clan o di tribù, o darebbe voce ai fondamentalisti.

Per quanto l’analisi dei fondamenti filosofici e giuridici del senso dello Stato occidentale, e delle sue difficoltà ad affermarsi nel mondo islamico, sia abile e raffinata, le conclusioni di Scruton non sono condivisibili. Il filosofo inglese non ha torto quando afferma che per i musulmani è più difficile accettare e interiorizzare un’idea di Stato che lasci spazio alla vera democrazia. Ma è solo difficile o è impossibile?

Certamente le elezioni presidenziali palestinesi – cui Hamas, dato nei sondaggi almeno al trenta per cento, non partecipa – sono solo parzialmente «vere». Acquistano un senso nel quadro che vanno a comporre con le municipali già tenute e con le legislative del 2005, che vedono invece anche la partecipazione dei fondamentalisti islamici. In Irak è probabile che la componente sunnita più nostalgica di Saddam o più scettica rispetto a un processo democratico comunque dominato dagli sciiti si astenga.

E tuttavia la scommessa sulle elezioni è l’unica via per portare avanti il progetto di Grande Medio Oriente di George Bush e Condi Rice. L’espressione «scommessa» non è scelta a caso. Gli scettici alla Scruton considerano l’homo islamicus (almeno nella sua versione araba) una specie incapace di variazioni democratiche, legata indissolubilmente e per sempre al «fondamentalismo». L’affermazione di un «altro» islam – che, per godere del consenso popolare islamico potrà essere solo un islam conservatore, non uno «illuminista» o una qualche riedizione del nazionalismo laicista degli Arafat e dei Saddam  – è tutt’altro che scontata. È difficile, con difficoltà che peraltro variano da paese a paese. Ma non è impossibile. E quella elettorale è l’unica, stretta via per cui dare al Medio Oriente un futuro di pace.

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