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Quante divisioni tra i rivoluzionari in Kirghizistan

di Massimo Introvigne (il Giornale, 25 marzo 2005)

Secondo le parole di Condi Rice, che una rivolta per la democrazia abbia costretto alla fuga il presidente del Kirghizistan Akayev è “una buona cosa”. C’è da chiedersi, tuttavia, che cosa riserva il futuro. A differenza di quanto è avvenuto in Georgia o in Ucraina, in Kirghizistan la rivolta non ha un unico leader. Né potrebbe averlo, perché il Kirghizistan mantiene confini tracciati in epoca staliniana senza troppo badare alla coesione etnica e religiosa, e la sua identità è stata profondamente alterata da una vasta emigrazione di russi che, nel “colonialismo sconosciuto” zarista prima e sovietico poi, sono andati a stabilirsi nelle zone di frontiera non russe del vasto impero governato da Mosca.

Oggi il Kirghizistan è percorso da numerose divisioni: fra russi (13%) e kirghisi (65%) (con una forte minoranza uzbeka, 14%), fra cristiani (20%) – non tutti ortodossi, e con un sorprendente successo degli Avventisti del Settimo Giorno – e musulmani (70%), fra il Nord dove si trova la capitale Bishkek e che costituisce la zona più ricca e meno musulmana del paese e il Sud, più povero, dove rimangono forti le moschee, le confraternite sufi e nuovi movimenti islamici come Hizb-ut-Tahrir, a lungo accusato di legami con il terrorismo ma che oggi sembra meno estremista.

Far coesistere Nord e Sud è la sfida che attende il nuovo Kirghizistan. I meridionali si considerano i custodi dell’identità musulmana e kirghisa e (contando quelli emigrati al Nord) sono la maggioranza della popolazione. Fin dalla Russia zarista, gran parte del potere politico ed economico è però nelle mani dei settentrionali. La rivolta è scoppiata – già prima delle elezioni – al Sud, ma su questa si è inserita una parte dell’élite del Nord. L’attuale presidente provvisorio Ishenbai Kadyrbekov – descritto come un comunista della vecchia guardia, ma censore della corruzione ed entrato in conflitto con Akayev e la sua “corte dei miracoli” familiare – non sembra in grado di mobilitare l’entusiasmo dei kirghisi.

Roza Otunbayeva, già ministro degli Esteri di Akayev e ambasciatrice negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è la figura più nota ai media internazionali e conta importanti amicizie negli Stati Uniti. Viene da Osh, “la città delle cento moschee” nel Sud, ma la sua storia e la sua carriera sono quelle di una donna perfettamente occidentalizzata, senza rapporti significativi con gli ambienti religiosi. In Kirghizistan si parla però con timore del tentativo di una “lobby di Osh” (che comprende anche il governatore della provincia, Naken Kasiev, già braccio destro di Akayev che sembra avere preso per tempo le distanze dal presidente deposto) di impadronirsi del potere centrale, e la Otunbayeva sarebbe difficilmente accettata come presidente nelle altre province.

Il futuro del Kirghizistan ruota così intorno a Felix Kulov, appena liberato dalla prigione dove lo aveva fatto rinchiudere nel 2000 Akayev, e il primo ministro provvisorio Kurmanbek Bakiev. Il secondo è già stato primo ministro di Akayev: è un musulmano del Sud ma ha buoni legami anche con l’élite del Nord come ex-generale dell’Armata Rossa che ha sposato una moglie russa e cristiana. Il primo è il tipico politico del Nord: era il discusso capo dei servizi di sicurezza di Akayev, ma cinque anni di prigione ne hanno fatto il simbolo dell’opposizione al regime. La maggioranza a lungo marginalizzata del Sud vuole il potere, ma ha bisogno di rappresentanti credibili per il Nord e di alleati. Un tandem Bakiev-Kulov potrebbe risolvere il dilemma kirghiso.

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