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La chiave è la Rivelazione. Una recensione di La mia vita. Autobiografia di Joseph Ratzinger

di Massimo Introvigne

La mia vita. Autobiografia di Joseph Ratzinger (San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2005) traduce dal tedesco un libro di memorie del regnante Pontefice che arriva fino all’anno 1977 e alla sua nomina ad Arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga. Non vi si troveranno quindi curiosità o rivelazioni sul suo periodo romano, né nel sul servizio arciepiscopale svolto a Monaco. L’opera tuttavia è preziosa per chiunque voglia comprendere sia lo stile dell’uomo che è diventato Papa, sia i temi fondamentali della sua attività di teologo di professione, che – se pure non si conclude – certo acquista un carattere diverso con la nomina a vescovo nel 1977.

Il testo – che è ricchissimo di dettagli ed è davvero impossibile riassumere – consta di tre nuclei tematici principali. Il primo ripercorre la giovinezza del futuro Pontefice, dalla nascita il 16 aprile 1927 nel villaggio bavarese di Marktl sull’Inn all’ordinazione sacerdotale del 1951. Benché il giovane Joseph Ratzinger, figlio di un gendarme, si sposti da un villaggio all’altro seguendo i mutamenti di carriera del padre, egli considera come il suo “vero paese d’origine” Traunstein, dove trascorre gli anni più significativi dell’infanzia e della giovinezza. Il quadro che ne dà non costituisce una semplice curiosità: la robusta e solida cristianità rurale bavarese, sordamente ostile nei confronti del nazional-socialismo (memorabile l’episodio del maestro di scuola nazista neopagano, le cui iniziative naufragano nel ridicolo), articola la sua vita intorno alla liturgia, con un clero che si apre cautamente al nuovo movimento liturgico, di cui nota però anche le potenziali deviazioni, che – come scrive l’autore – produrranno i loro guai nella Chiesa solo molti anni dopo. “L’inesauribile realtà della liturgia cattolica – ricorda Joseph Ratzinger – mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita: per questo, non posso non parlarne continuamente” (p. 18). L’idillio bavarese è però ben presto spezzato dal nazismo, dalla guerra, dall’obbligo di prestare servizio militare imposto anche a chi come il giovane Joseph ha deciso di entrare in seminario, e infine dall’internamento come prigioniero di guerra all’arrivo delle truppe statunitensi. Ma tutto questo è superato e, sia pure in condizioni materiali difficilissime, Joseph può proseguire gli amati studi di teologia fino all’ordinazione sacerdotale.

Il secondo nucleo tematico del volume, quello per molti versi centrale, ricorda lo sviluppo del pensiero teologico di Joseph Ratzinger e le amicizie – alcune delle quali divenute, se non inimicizie, aspri contrasti dottrinali – con le maggiori figure del mondo teologico tedesco del XX secolo. Si va da Michael Schmaus (1897-1993), uno dei suoi maestri  e il protagonista di quello che l’autore definisce un vero e proprio “dramma” – preoccupato dal carattere che considera eccessivamente innovativo delle idee storico-teologiche dell’allievo, con cui si riconcilierà solo molti anni dopo, Schmaus cerca di stroncarne nel 1956 la carriera universitaria – fino a Karl Rahner (1904-1984) e Hans Küng. Proprio la controversia con Schmaus a proposito della tesi di abilitazione del giovane teologo su San Bonaventura (1218?-1274) è al cuore della ricostruzione che l’autore propone del proprio itinerario teologico, da cui emerge un’immagine che non si lascia ridurre a quella giornalistica, piuttosto semplificante, dell’ex-progressista che diventa “pentito” solo dopo avere constatato i guasti del post-Concilio. In realtà, tutto si gioca fin dall’inizio sul concetto di rivelazione. Nella tesi del 1956 il giovane Ratzinger sostiene che per San Bonaventura (ma è una posizione che il teologo fa sua) i concetti di “rivelazione” e di “Sacra Scrittura” non coincidono. La “rivelazione” al contrario “è sempre un concetto di azione”: il termine definisce “l’atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto”. Dunque “del concetto di ‘rivelazione’ è sempre parte anche il soggetto ricevente: dove nessuno percepisce la rivelazione, lì non è avvenuta nessuna rivelazione” (p. 74).

Non è esagerato dire che questa è l’affermazione centrale di tutto il testo. Precisamente su questo tema si determina durante il Concilio Vaticano II il contrasto fra il perito Joseph Ratzinger e i seguaci della “presunta scoperta” del gesuita Josef Rupert Geiselmann (1890-1980) – oggetto, secondo il testo, di una “grossolana volgarizzazione nell’eccitato clima conciliare” (p. 93) – secondo cui lo stesso Concilio di Trento avrebbe voluto insegnare che la Sacra Scrittura ha una sua “completezza materiale” e contiene l’intero deposito della fede. Seguendo a fondo la tesi di Geiselmann si sarebbe arrivati a una svalutazione della Tradizione, all’idea che la Chiesa non potesse “insegnare nulla che non fosse esplicitamente rintracciabile nella Sacra Scrittura”, cioè – “dal momento che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate” – nulla che non fosse certificato dagli esegeti e dai teologi, che venivano così a sostituirsi ai vescovi (p. 92). Il rifiuto di questa deriva, giudicata pericolosissima, finisce per separare Ratzinger dai principali “progressisti”; ma nello stesso tempo l’argomento per rifiutarla – che è sempre quello secondo cui “la Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di più vivo, di più grande” (p. 93) – è giudicato troppo agostiniano e bonaventuriano (e troppo poco tomistico, o neoscolastico) dai “conservatori”, così che la posizione del teologo tedesco rimane per qualche verso isolata. È evidente come questa distinzione fra Scrittura e rivelazione, e questa nozione di rivelazione, hanno un significato cruciale anche per la definizione della specificità del cattolicesimo e delle sue differenze, per esempio, con il protestantesimo e con l’islam, cui pure il testo fa brevemente cenno.

Il terzo nucleo tematico del volume mostra come coloro che avevano sostenuto in tema di Sacra Scrittura e di ruolo rispettivo dei teologi e dei vescovi al Concilio la tesi giudicata da Joseph Ratzinger eversiva si organizzano in una vera e propria lobby, concepiscono la Commissione teologica internazionale (di cui lo stesso Ratzinger fa parte) come un’istanza alternativa e superiore alle congregazioni romane, cercano di scardinare la teologia a partire dalla liturgia, e con diverse strategie operano per rovesciare la nozione di Chiesa guidata dai vescovi in una di Chiesa guidata dai teologi che – come, ricorda l’autore, aveva già suggerito Martin Lutero (1483-1546) – in quanto “esperti di Sacra Scrittura sono coloro che veramente possono prendere delle decisioni” (p. 100). Ma il processo sovversivo, una volta avviato, non si ferma qui: se la Chiesa non è guidata dai pastori, ma da chi interpreta la Sacra Scrittura, come pretendere che questa interpretazione sia riservata a una casta di professori? In un clima segnato dal marxismo comincia a emergere “l’idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quello che vuole intendere con il termine Chiesa” (p. 101). Beninteso, le carte sono truccate, perché “il popolo” è una metafora per una nuova generazione di teologi progressisti – “della liberazione” – che aspira a scalzare la generazione precedente. Ma la direzione in cui ci si muove è comunque quella di una vera e propria rivoluzione che sovverte le basi stesse della Chiesa e della fede.

Si spiega così la ferma reazione prima del teologo e poi del vescovo e cardinale Joseph Ratzinger, che rompe con molti amici e colleghi con cui pure aveva condiviso la critica di una teologia neoscolastica ritenuta troppo angusta e difensiva, e poco adatta alla proiezione nuovamente missionaria della Chiesa per la riconquista di un mondo scristianizzato in cui l’autore vede il vero appello del Concilio. Certamente le intenzioni maliziose della lobby progressista e il suo sfruttamento di una “propaganda conciliare” (p. 93) che abusa del nome del Concilio Vaticano II contro i documenti della stessa assise si rivelano nella loro tragica chiarezza solo progressivamente. Peraltro, l’opera suggerisce che il percorso intellettuale del teologo Joseph Ratzinger non procede per scossoni, “svolte” o “pentimenti”, ma è già chiaro alla fine degli anni 1950. La nozione di Rivelazione come “azione” – lontana sia da un certo conservatorismo, sia dal progressismo cripto-protestante – ne costituisce il centro ideale.

ratzinger
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