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Grandi ritorni: Bimboland, o dell'antropologia

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 4, n. 39, 24 settembre 2005)

imgAlla fine, Gérard Depardieu l’ha avuta vinta. Riproposto in prima serata dalla televisione nazionale francese, con dibattito fra critici e accademici continuato sulla stampa transalpina, Bimboland di Ariel Zeitoun, uscito nel 1998, si è visto consacrare otto anni dopo la sua uscita come film de culte perfino da Le Monde. All’epoca, alla fine degli anni Novanta, Bimboland era stato liquidato come commediola insipida, con una media di voti in Francia di tre (su dieci), suscitando l’ira del protagonista Depardieu il quale aveva sostenuto che i critici non avevano capito il senso della pellicola, che ebbe peraltro un buon successo di pubblico e negli Stati Uniti, in Russia e in Germania fu trattata assai meglio che in Francia. Depardieu – ma lo si riconosce solo ora – aveva, da più di un punto di vista, ragione.

A prima vista, Bimboland era proprio una commediola, per di più con un tema scontato e già visto al cinema decine di volte. Sulla Costa Azzurra francese una bruttina occhialuta si innamora del suo principale, un playboy che non la degna di uno sguardo. Tirata a lucido da parrucchiere, estetista e sarto, si presenta sotto falso nome al principale dongiovanni, che non la riconosce ma se ne innamora perdutamente. Delusa dall’amato bene, che evidentemente preferisce le apparenze alla realtà, la fanciulla lascia tutto e scappa in campagna dove però la raggiunge il principale Depardieu, che ha capito la lezione, si è reso conto che la brutta e la bella  sono la stessa persona e fa ammenda dei suoi errori nell’inevitabile happy end finale. Tutto già visto e tutto scontato, e pazienza se le amiche che trasformano la bruttina in maliarda non sono propriamente brave ragazze.

Il fatto è, però, che un contenitore antico come Cenerentola è stato riempito con un contenuto che, per poco che lo spettatore riesca a capire dove il film vuole andare a parare, è una satira feroce dell’antropologia, del metodo dell’osservazione partecipante e del sistema universitario francese. La bruttina, Cécile (Judith Godrèche), è un’antropologa che sta per prendersi un dottorato trionfale grazie alla scoperta di una tribù che vive ancora “come all’età della pietra” rispettando la natura e la pace in un’Arcadia politicamente corretta. Purtroppo, della sua tesi s’interessa la televisione, che accompagna Cécile a ritrovare la sua tribù. In due anni, questa è un po’ cambiata: ora gli indigeni “primitivi” bevono Coca Cola e abbattono allegramente gli alberi per conto di una multinazionale che ha regalato loro qualche maglietta americana. È già una delle poche satire che si arrischi a toccare i mostri sacri dell’antropologia, ricordando quante volte antropologi moderni hanno scoperto Arcadie rivelatesi fasulle. Ma è solo il preludio del film, e il bello deve ancora venire.

Rovinata dal fiasco televisivo, Cécile deve trovare un nuovo soggetto di tesi e non sa dove andare a parare. Il suo nuovo professore all’Università di Nizza è un playboy arrogante e maleducato, che sfrutta il suo insuccesso impiegandola in lavori faticosi e oscuri di cui si prende lui tutto il merito: ma lei se n’innamora. Maltrattata perfino sui giornali, è scacciata anche dal padrone di casa e deve andare a dividere un alloggio con una nuova conoscenza che la introduce in un mondo assai diverso dal suo. Il film del 1998 non è vietato ai minori, e su come funzioni questo mondo lascia qualche ambiguità. Il termine americano bimbo significa prostituta di lusso, e le ragazze che conosce Cécile hanno per professione essere belle e accompagnarsi ai ricchi che frequentano i grandi alberghi della Costa Azzurra, senza particolari ritrosie a concedersi e a farsi mantenere. Ma il loro sogno finale è trovare qualcuno che le sposi: un sogno forse non necessariamente condiviso dalla media bimbo statunitense.

In Cécile sboccia l’idea avventurosa di stupire di nuovo il mondo accademico con una tesi, stavolta dedicandosi all’“osservazione partecipante” non degli indigeni ma delle bimbo. Non dice nulla a Depardieu, ma si fa approvare il progetto da un’eminente etnologa di sesso femminile, che spera in un testo femminista e critico. Going native – giacché non si tratta di indigeni africani – qui significa però diventare come le bimbo, che sono belle per professione: ed ecco allora che con l’aiuto della sua compagna di alloggio l’occhialuta accademica si trasforma in una bellezza conturbante. La compagna, Alex, non sa nulla della tesi e pensa che l’amica faccia sul serio, mentre tutte le sere Cécile traduce le sue esperienze in dotti capitoli infarciti di gergo antropologico. Le cose si complicano perché fra Cécile e Alex (che, in un certo senso, è ingannata dall’antropologa) nasce una vera amicizia, che andrà in frantumi quando la bimbo Alex scoprirà di essere stata usata per le necessità della tesi. Il tema che emerge è quello dell’osservazione partecipante “coperta”, in cui lo studioso s’introduce in un ambiente senza rivelare la sua vera natura, ed è un argomento molto delicato. Talora utilizzata dagli antropologi – ma più in Europa che negli Stati Uniti – l’osservazione partecipante “coperta” è considerata deontologicamente scorretta dalle maggiori organizzazioni accademiche internazionali che si occupano di sociologia in quanto, appunto, manipola i soggetti osservati.

I guai dell’osservazione partecipante non dichiarata emergono nel film, dove naturalmente si spingono fino al paradosso. Il primo “cliente” della nuova bimbo Cécile – che si fa chiamare Brigitte – è precisamente il professore impersonato da Depardieu che, dapprima perplesso per la poco professionale ritrosia della bella a venire al dunque, finisce per ottenere quello che vuole ma anche per innamorarsi di “Brigitte”. Cécile potrebbe scoprire il lato oscuro e ipocrita del sistema universitario francese, ma non le importa, perché anche lei si è nel frattempo innamorata del docente. Quest’ultimo ci mette un po’ di più a scoprire che Brigitte è Cécile, ma nel finale (che è la parte più debole e sdolcinata del film) tutto si risolve, e anche Alex non solo si riconcilia con Cécile ma  dà perfino segni di voler cambiare vita.

Beninteso, su tutti i temi toccati – le nuove “professioni” delle bimbo di lusso, al limite fra semplice vita leggera e vera e propria prostituzione, l’osservazione partecipante “coperta”, l’università francese, i limiti dell’antropologia “politicamente corretta” (segnalata emblematicamente dall’onnipresente iconografia di Che Guevara) – si sarebbe potuto realizzare un film ben più impegnativo di questo, che resta una commedia. Ma nessuno ci ha pensato. Ed ecco allora che ha ragione Depardieu: per chi lo guardi con occhi sufficientemente aperti, Bimboland può anche fare riflettere. Se poi Depardieu è bravo, la Godrèche è bella e il film ha i suoi momenti esilaranti, c’è forse qualche cosa di male?

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