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Rivolta in Francia: "Fattore Islam"

di Massimo Introvigne (il Giornale, 14 novembre 2005)

A Tariq Ramadan, nipote del fondatore del più importante movimento fondamentalista moderno, i Fratelli Musulmani, e teorico di un «neo-fondamentalismo» che vorrebbe ripresentare le idee del nonno nei termini della sinistra no global occidentale, devono essere fischiate spesso le orecchie negli ultimi giorni. Predica spesso nelle periferie parigine, e qualcuno pensa che il suo islam non precisamente filo-occidentale c'entri qualcosa con gli incidenti notturni. Beninteso, Ramadan non incita esplicitamente alla violenza. Ma in Italia siamo culturalmente attrezzati per comprendere il ruolo dei «cattivi maestri» che tirano il sasso e ritirano la mano.

Ramadan ha ora preso carta e penna per spiegare che con quello che sta succedendo a Parigi l'islam non c'entra. Si tratta semplicemente di povertà e di emarginazione sociale. Chi sostiene il contrario fa anzi il gioco dei terroristi, che sperano di trasformare una rivolta sociale in una religiosa.

Ramadan avrebbe ragione se qualcuno sostenesse che le cause dei fatti di Parigi sono esclusivamente religiose. Le spiegazioni serie, infatti, non fanno mai riferimento a una sola causa. Quello che succede a Parigi ha certo una componente di protesta sociale, che si spiega con il disagio economico, la crescente disoccupazione, lo sfascio del sistema scolastico e dei servizi sociali nella Francia di Chirac - troppo spesso pronta a vedere la pagliuzza nell'occhio di altri Paesi e non la trave nel suo - e il fallimento di una gestione dell'ordine pubblico che ha alternato carota e bastone nel modo sbagliato.

Tuttavia, se su questi fattori pure importanti non si fosse innestata la predicazione di un islam estremista i tumulti o non sarebbero scoppiati o sarebbero stati contenuti nelle dimensioni di molti eventi analoghi che le forze dell'ordine sono riuscite a gestire e che non sono arrivati sulle prime pagine dei giornali internazionali.

Per quanto questa osservazione possa essere sgradevole, balza all'occhio il contrasto tra il fondamentalismo islamico, che sfocia spesso nella violenza, e il fondamentalismo cristiano, ebraico o indù che nella stragrande maggioranza dei casi rimane non violento. In Francia, ma anche in Inghilterra, esistono quartieri musulmani caratterizzati da disagio sociale, ma ci sono anche quartieri - «ghetti», se si vuole - abitati da latino-americani, cinesi, indiani o ebrei hassidici dove le situazioni di disagio non sono meno forti. Molti degli immigrati latino-americani non sono cattolici e molti dei cinesi non sono confuciani o taoisti: in entrambi i casi si tratta di comunità che nell'immigrazione hanno aderito in modo massiccio a gruppi protestanti fondamentalisti o pentecostali, che tra l'altro avrebbero qualcosa da lamentare essendo stati presi di mira dalla campagna scatenata dal laicismo francese contro le «sette». C'è un fondamentalismo indù violento - che si scontra in genere con i musulmani - in India, ma nell'emigrazione è quasi assente.

La domanda cui Ramadan - e i suoi stanchi ripetitori nella sinistra italiana - devono rispondere è perché, a parità di disagio economico, nei quartieri abitati in prevalenza da brasiliani, cinesi, indiani, ebrei ultra-ortodossi (o anche russi o romeni, spesso seguaci di un cristianesimo orientale piuttosto conservatore) non scoppiano rivolte, e nei quartieri musulmani sì. Che la predicazione di odio degli imam radicali sia il fattore che fa la differenza è una conclusione cui si può sfuggire solo con una buona dose di malafede.