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Il caso dei Tasaday. Quando a farsi la guerra (con armi improprie) sono gli antropologi

di Massimo Introvigne (il Foglio, 13 agosto 2005)

imgAnche se sarebbe banalizzante e irresponsabile squalificare un’intera disciplina accademica, la maggioranza dei cui studiosi sono persone oneste e per bene e che ha certamente contribuito alle nostre conoscenze sull’uomo, non si può negare che l’antropologia sia una scienza con qualche problema. Nessun’altra disciplina scientifica si è trovata coinvolta in tanti scandali negli ultimi anni. Margaret Mead (1901-1978), uno dei mostri sacri dell’antropologia moderna, è stata accusata di avere falsificato i dati o di essersi fatta prendere in giro dalle ragazze samoane da lei intervistate negli anni 1920, inventando uno stato di promiscuità sessuale originaria nelle Isole Samoa del tutto fantastico e assai più conforme ai pregiudizi della studiosa contro la morale giudeo-cristiana che alle autentiche idee degli isolani del Pacifico. Uno dei più eminenti antropologi contemporanei, Napoleon Chagnon, è stato accusato nel 2000 – non tutti ci credono – non solo di avere falsificato i dati delle sue famose ricerche sugli indios Yanomani dell’Amazzonia ma perfino di avere consapevolmente diffuso presso gli indigeni germi di malattie infantili per provare le sue teorie. Quanto a dati falsi, anche l’antropologo canadese Richard Lee è sospettato di avere ampiamente “inventato” il primitivismo “assoluto” degli indigeni del deserto del Kalahari, nel Botswana, su cui si sono basati generazioni di ricercatori. In Australia i lavori di Keith Windschuttle – contro il quale l’antropologia accademica maggioritaria sta reagendo in modo isterico – mettono in dubbio il carattere pacifico delle culture aborigene prima dell’arrivo dell’uomo bianco, e considerano il presunto genocidio perpetrato dai coloni in gran parte come un genocidio inventato.

Non si tratta solo di disinvoltura scientifica o di caccia ai finanziamenti delle fondazioni accademiche americane. Dai tempi di Margaret Mead a oggi, una parte importante della scienza antropologica – per fortuna non tutta – soffre di un pregiudizio “politicamente corretto” per cui i cosiddetti “primitivi” sono buoni, gentili e pacifici mentre la “cosiddetta” civiltà portata dagli occidentali, soprattutto dai missionari, è colpevole di “etnocidio”, distrugge culture moralmente superiori a quella dell’Occidente e trasforma il paradiso originario delle popolazioni primarie nell’inferno del consumismo e di quella paura del peccato che sarebbe tipica del cristianesimo. Per sostenere questa moderna versione del mito del “buon selvaggio” – un mito che, nella sua versione antica, è peraltro deriso da tutti gli antropologi – si ricorre, se c’è bisogno, anche alla falsificazione dei dati.

Eppure c’è almeno un caso in cui – o così si dice – l’antropologia è stata capace di fare pulizia in casa sua. Si tratta del caso dei Tasaday, una popolazione asseritamente rimasta all’età della pietra e alla vita nelle caverne, scoperta nel 1971 da Manuel “Manda” Elizalde, Jr. (1936-1997), un ricchissimo uomo d’affari filippino e un amico e collaboratore del dittatore Ferdinand Marcos (1917-1989) in una remota zona dell’isola di Mindanao, già allora teatro di due insurrezioni, una separatista islamica e una comunista. La stampa mondiale – e i primi antropologi accorsi a Mindanao – nel 1971 presentano i Tasaday come una delle maggiori scoperte nella storia dell’antropologia, una delle poche popolazioni sopravvissute – ancorché ridotta a poche decine di persone – che non conosca il metallo e l’agricoltura e sopravviva attraverso la caccia e la raccolta di prodotti cresciuti spontaneamente, vivendo in grotte inaccessibili.

Le fotografie dei Tasaday fanno il giro del mondo: il National Geographic è solo una tra le tante pubblicazioni a dedicare pagine e pagine alla scoperta. Le ricerche antropologiche vanno peraltro a rilento a causa della curiosa personalità di Elizalde. Milionario promosso dall’amico Marcos a responsabile degli affari indigeni delle Filippine, antropologo dilettante, sicuramente corrotto e legato alla malavita organizzata, e secondo i suoi biografi anche autentico maniaco sessuale, “collezionista” di centinaia di avventure galanti, “Manda” è anche descritto come persona capace di generosità. Sinceramente dedito a preservare il modo di vita delle popolazioni indigene, Elizalde cerca di aiutarle per quanto possibile, non senza pubblicizzare ogni forma di aiuto per favorire la sua carriera politica all’interno del regime di Marcos. Elizalde aveva anche frequentato abbastanza un certo tipo di antropologi per essersi convinto che i missionari andavano tenuti lontani dagli indigeni perché avrebbero corrotto il loro “paradiso” originario che, nel caso dei Tasaday, ignorava – o così “Manda” assicurava – la violenza e la guerra.

Nel 1986 il regime di Marcos cade. Due giornalisti – lo svizzero Oswald Iten e l’americana Judith Moses, entrambi critici militanti di Marcos e attivisti di sinistra – vengono a conoscenza di dibattiti fomentati all’inizio da rivalità tra antropologi filippini, dove qualcuno suggerisce che i Tasaday potrebbero essere stati un’abile invenzione della propaganda intesa a presentare Marcos ed Elizalde come protettori delle popolazioni indigene. Visitano la terra dei Tasaday accompagnati da Joey Lozano, un attivista comunista legato alla guerriglia di Mindanao. Pendono letteralmente dalle sue labbra, e raccontano al mondo che i Tasaday non sono mai esistiti. Elizalde, con la complicità volontaria o involontaria di antropologi americani e filippini venduti al regime (e – si dice – alla CIA) o semplicemente ingenui, ha trasportato in una remota foresta indigeni di altre tribù, e li ha indotti a vivere nelle caverne e vestirsi di foglie intrecciate in quella che Iten e la Moses presentano come la maggiore truffa nella storia dell’antropologia. Giornalisti e antropologi che avevano propagato la storia dei Tasaday perdono il posto. In diverse conferenze internazionali anche antropologi coinvolti in scandali precedenti pensano di passare dalla parte della ragione, o rifarsi una verginità, denunciando lo scandalo dei Tasaday come l’ennesima frode del corrotto regime di Marcos.

Caso chiuso? Niente affatto, secondo Robin Hemley, un professore di inglese (non di antropologia) all’Università dello Utah, autore di Invented Eden. The Elusive, Disputed History of the Tasaday (Farrar, Straus and Giroux, New York), pubblicato per la prima volta nel 2003 e ora ristampato. La tesi di Hemley – che non è solo sua ma è condivisa da un piccolo ma pugnace numero di antropologi e professori di linguistica – è che, in questo caso, la vera truffa è la “scoperta” della presunta truffa nel 1986. Solo il clima politico che si crea in tutto il mondo per cui tutto quanto è associato al regime di Marcos (le cui colpe – e quelle di Elizalde – Hemley non minimizza affatto) è per definizione brutto, sporco e cattivo spiega come si siano potuti prendere sul serio reportage che venivano da giornalisti del tutto privi di credenziali antropologiche, e che si fondavano sulle dichiarazioni di una sola persona, il militante comunista Joey Lozano, impegnato a sostenere una sua tesi ideologica e a reclutare “testimoni” del presunto scandalo molti dei quali ammetteranno poi di essere stati assunti e pagati dallo stesso Lozano.

I Tasaday ci sono ancora, Hemley li ha intervistati. La tesi secondo cui si tratta di membri di altre tribù ben note assunti come “attori” da Elizalde – per quanto data per scontata in conferenze antropologiche internazionali – è del tutto insostenibile. Hemley e chi la pensa come lui possono fornire una gran mole di argomenti – linguistici e archeologici prima che antropologici – che mostrano l’ipotesi della truffa come impossibile. Per esempio, la lingua Tasaday esiste, è stata registrata su cassette già negli anni 1970, e ha una sua coerenza che insegnare in pochi mesi anche ai bambini del gruppo sarebbe stato semplicemente impossibile.

Questo non significa che qualche antropologo entusiasta e lo stesso Elizalde non abbiano sia esagerato l’importanza della scoperta del 1971, sia – probabilmente – sbagliato l’analisi. Oggi – mentre anche il nuovo governo democratico filippino dichiara che i Tasaday esistono e che non c’è stata nessuna truffa – l’ipotesi verso cui la ricerca antropologica si avvia è che i Tasaday non siano un gruppo antichissimo “rimasto” all’età della pietra e alla vita nelle caverne. Ma, al contrario, che si tratti di una sotto-tribù che, in seguito a un’epidemia devastante di cui ha conservato la memoria, si è isolata nella foresta e ha perso la conoscenza dei metalli e dell’agricoltura che aveva in passato, regredendo – probabilmente non più di cento-duecento anni fa – a uno stato “selvaggio”. Lévi-Strauss parlerebbe di gruppo “pseudo-arcaico”. Ma l’ipotesi secondo cui i “selvaggi” spesso non sono popolazioni che si trovano in un paradisiaco “stato di natura” ma gruppi che hanno degenerato da un precedente stato di civiltà sarebbe piaciuta a Giovanbattista Vico (1668-1744) o a Joseph de Maistre (1753-1821). E pochissimo a certi antropologi “politicamente corretti” di oggi che, anche nell’imbroglio dei Tasaday dove si intrecciano pregiudizi politici e pregiudizi antropologici, non hanno poi fatto una gran bella figura.


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