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Kuwait al bivio dopo la morte del suo emiro

di Massimo Introvigne (il Giornale, 16 gennaio 2006)

La morte dell'emiro del Kuwait Jabbar al Ahmed al Sabah è stata annunciata pochi giorni dopo la sua maggiore vittoria politica. Nel 1999 l'emiro aveva emanato un decreto che concedeva il voto alle donne, ma la maggioranza fondamentalista del Parlamento aveva rifiutato di ratificarlo. Il 16 maggio 2005 il Parlamento aveva ammesso le donne a votare «nei limiti della legge coranica», una formulazione ambigua. Ora le donne sono state ammesse all'elettorato attivo e passivo senza limiti, realizzando così il sogno dell'emiro, peraltro messo fuori gioco da un'emorragia cerebrale fin dal 2001.

Il Kuwait è soltanto una mezza democrazia, perché - benché le elezioni siano libere e ragionevolmente oneste - il governo non è eletto dal Parlamento. Il Primo Ministro è nominato dall'emiro, e nomina a sua volta gli altri ministri. Tuttavia sia l'emiro sia il governo possono proporre leggi, ma queste possono essere rifiutate dal Parlamento (e non di rado lo sono), il quale quindi detiene realmente il potere legislativo e da cui nasce la maggioranza della legislazione.

La legge del Kuwait vieta anche i partiti politici, ma la proibizione è teorica. Sulla carta, tutti i candidati sono indipendenti. In pratica, fanno capo a organizzazioni non registrate come partiti ma attive e presenti nel Paese, tra cui i fondamentalisti Fratelli Musulmani. L'islam politico costituisce il gruppo più forte in Parlamento, ma solo due deputati restano chiaramente leali alla direzione egiziana dei Fratelli Musulmani mentre gli altri appartengono piuttosto alla corrente neo-fondamentalista.

Proprio questi sviluppi hanno permesso la storica estensione del voto alle donne, contro cui attivisti ultra-fondamentalisti stavano ancora manifestando quando è giunta la notizia della morte dell'emiro. Il Kuwait conferma che «fondamentalismo» è ormai una parola con molti significati.

Sul cammino della democrazia il Kuwait ha altre due pietre d'inciampo. La prima è la nuova mappatura dei distretti elettorali promossa dal governo dopo la rivoluzione iraniana del 1979 con l'ovvia intenzione di ridurre il numero di deputati della minoranza sciita, di cui si temevano le simpatie filo-iraniane. Di qui è nato un persistente malcontento degli sciiti, alimentato dai servizi iraniani e che era culminato nell'attentato di un estremista sciita alla vita dell'emiro nel 1985. L'altra è la legge elettorale che in teoria garantiva il voto solo ai «vecchi kuwaitiani», discendenti di chi era cittadino del Kuwait nel 1920. Dal momento che la maggioranza dei kuwaitiani è stata naturalizzata dopo il boom petrolifero, in pratica votava solo il 15% dei cittadini. Nel 1996 una prima coraggiosa riforma dell'emiro ha concesso il voto a chi fosse stato naturalizzato da trent'anni e ai suoi discendenti. Trent'anni sono molti, ma - con la concessione del voto alle donne - oltre un terzo, forse la metà dei cittadini voterà alle politiche del 2007.

Si sa che prima dell'emorragia cerebrale del 2001 l'emiro - che sarà ricordato per la coraggiosa opposizione all'invasione di Saddam e per la saggia gestione di un fondo destinato a mantenere prospero il Paese quando si esaurirà il petrolio, che dispone ora di sessanta miliardi di dollari - preparava nuove riforme. Il suo successore, il cugino Saad al Abdullah al Sabah, è anch'egli malato ma il primo ministro Sabah al Ahmed al Jabbar, un cauto riformatore, dovrebbe continuare a muoversi sulla via di una cauta democratizzazione, un esempio per la vicina Arabia Saudita.