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«Magna Europa. L'Europa fuori dall'Europa». Da una felice intuizione dello storico Hendrik Brugmans un libro unico. Che inaugura una collana
 
TESTIMONIANZA PER L'OCCIDENTE
 
La difesa della nostra identità politico-culturale non può prescindere da un corretto riappropriarsi della storia, senza leggende né "rosa" né nere

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno V, n. 33, 19 agosto 2006)

magna europa - copertina

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Dopo l'11 settembre 2001 è venuta in primo piano una questione cruciale per la vita politica e culturale dell'Occidente.

Non è esagerato dire che si tratta oggi della questione, in assoluto, più importante per il futuro della civiltà che da secoli chiamiamo "occidentale".

Contro questa civiltà si manifesta un'aggressione da parte dell'ultrafondamentalismo islamico.

Vale la pena di difenderla? La risposta rimanda a un quesito ancora più fondamentale: esiste ancora l'Occidente? Ne facciamo parte? È giusto, è doveroso fare fronte comune per resistere, quando l'Occidente è aggredito? A questa domanda circolano risposte diverse, anzi opposte, che per di più non si distribuiscono sempre secondo la consueta griglia Destra-Sinistra. Vi è, certamente, una Sinistra d'ispirazione a vario titolo marxista e postmarxista che avversa sia l'Occidente storico - la civiltà cristiana romano-germanica che ha avuto il proprio apogeo nel Medioevo - sia l'Occidente contemporaneo. Per questa Sinistra - che ha pure una sua versione catto-comunista -, se vi è uno scontro di civiltà, questo non si manifesta fra culture, fra l'Occidente e i suoi nemici, ma fra i "ricchi" e i "poveri" del mondo: un'idea difficile da sostenere se si considera, per esempio, che fra i dirigenti del terrorismo internazionale ci sono, a partire da Osama bin Laden, numerosi miliardari e che lo stesso attacco terroristico all'Occidente è sostenuto da potentati economici che controllano enormi risorse petrolifere, così che ascriverli al campo dei "poveri" appare, più che scorretto, ridicolo.

Un "Continente" sui generis

Più insidiosa è la tesi - diffusa anche "a destra", e che ha trovato in Italia il suo più eloquente portavoce nello storico professor Franco Cardini - secondo cui l'Occidente storico europeo è certo degno di apprezzamento, ma l'Occidente contemporaneo non ha più nulla a che fare con il suo predecessore medioevale e cristiano: non merita di essere difeso, e non ha maggiore dignità dell'islam e di altre culture, anzi ne ha di meno perché almeno l'islam ha conservato certi valori tradizionali. La questione è di natura eminentemente geopolitica.

L'Occidente del Medioevo coincideva con l'Europa, o meglio con una sua parte. L'Occidente di oggi è una "Magna Europa" che comprende i Paesi dove gli europei hanno costituito civiltà radicate nel cristianesimo ma che hanno incontrato una geografia e una storia locali pre-esistenti al loro arrivo: l'America Settentrionale e quella Meridionale, l'Australia, la Nuova Zelanda, il Sudafrica, le enclave europee in Asia come Goa o le Filippine.

Non sono invece "Magna Europa" i Paesi oggetto di semplice occupazione coloniale, come, per esempio, il Kenya o la Mauritania: il concetto ricomprende invece quelle terre dove si è sviluppata una civiltà culturalmente europea e appunto, secondo il senso comune "occidentale", per certo condizionata dalla nuova location geografica, ma altrettanto certamente identificata da un riferimento alla storia e alla religione degl'immigrati europei. Il cristianesimo, per esempio, oggi è assai più diffuso nella "Magna Europa" che nell'Europa simpliciter: se anche ci si limita al cattolicesimo (per il protestantesimo, la tendenza è semmai più marcata), al 31 gennaio 2005 il 49,8% dei fedeli cattolici viveva nel continente americano e solo il 25,8% in Europa secondo dati dell'Annuario Pontificio 2005.

Per i sostenitori della tesi secondo cui l'«Occidente-modernità » (l'espressione è del citato professor Franco Cardini in un'intervista a cura del giornalista Umberto De Giovannangeli dal titolo Il Papa non è un teo-con, apparsa su l'Unità del 23 aprile 2005) non è affatto il legittimo erede dell'Occidente medioevale e cristiano, la stessa nozione di "Magna Europa" è fuorviante.

Gli Stati Uniti d'America sarebbero un Paese essenzialmente protestante e massonico, intrinsecamente nemico fin dalle origini dei valori della tradizione europea e cristiana. L'America Latina conserverebbe certo una fede popolare, ma le strutture politiche dei suoi Stati nazionali si sarebbero costituite sulla base di un processo rivoluzionario guidato da élite massoniche e giacobine, intente a replicare nei paesi ibero-americani la Rivoluzione Francese. Dell'Australia o delle Filippine si parla meno, ma - quando se ne fa qualche cenno - i ragionamenti proposti sono spesso analoghi.

Per questo è oggi cruciale mostrare che la "Magna Europa" esiste e che, pur essendo ovvio che né gli Stati Uniti né l'Argentina di oggi sono brandelli di Sacro Romano Impero (ma non lo è, ovviamente, neppure l'attuale Unione Europea), gli elementi di continuità almeno coesistono con quelli di discontinuità, così che legittimamente si può parlare di un Occidente come realtà unitaria che si estende dal Grande Nord canadese fino alle Filippine e all'Australia e conserva vestigia, ricordi e anche elementi di cultura e di vita che risalgono alla civiltà europea medioevale intrisa di cristianesimo. Da questo punto di vista, l'attacco all'Occidente da parte dell'ultrafondamentalismo islamico - un attacco che ha colpito negli Stati Uniti, in Europa, in Australia, nelle Filippine - dimostra, proprio da parte dell'avversario, una comprensione almeno intuitiva dell'esistenza di una "Magna Europa" ancora così pericolosa da meritare di essere aggredita con l'arma del terrorismo.

La pubblicazione del volume Magna Europa. L'Europa fuori dal'Europa, curato da Giovanni Cantoni e Francesco Pappalardo (D'Ettoris Editori, Crotone 2006) - che raccoglie testi di relazioni presentate a un seminario organizzato nel 2002 a Bobbio da Alleanza Cattolica e parzialmente replicato nel 2004 a Crotone dalla Fondazione D'Ettoris e dalla Biblioteca Pier Giorgio Frassati - costituisce da questo punto di vista un autentico avvenimento culturale, da inquadrare e apprezzare come tale, prima ancora di addentrarsi nell'esplorazione dei singoli argomenti trattati nella ricchissima collezione d'interventi.

Il volume è aperto da una presentazione di Cantoni, fondamentale per comprendere il senso del testo. Vi si trovano preziose indicazioni sull'origine dell'espressione "Magna Europa", e soprattutto una rivendicazione della legittimità del concetto, in un contesto in cui la stessa nozione di Europa non ha senso se la si intende in modo puramente geografico - si tratta di una "penisola del continente asiatico" che ospita popolazioni diversissime dal punto di vista etnico e linguistico - ma acquista un significato preciso solo se la si intende in senso culturale, con riferimento sia all'eredità storica greco-romana, sia (soprattutto) al cristianesimo, sia - ancora - alla traduzione di questa eredità e di questa religione in strutture politiche rappresentate da concetti come "feudalesimo" e "impero" che godono di cattiva stampa ma che possono e devono essere riletti al di là delle "leggende nere", ancorché "senza concessioni di sorta alle ‘leggende rosa'".

Asia, Australia, Sudafrica...

La prima sezione - L'Europa che parte - fotografa, per così dire, l'Europa nel momento in cui diventa "Magna" attraverso l'espansione geografica. L'Europa non lo sa, ma dal punto di vista della scienza, dell'economia e della tecnologia, delle strutture politicoamministrative del Sacro Romano Impero, delle istituzioni educative animate soprattutto dalla Compagnia di Gesù, della strategia e della tattica militare, ha acquisito una straordinaria superiorità sul resto del mondo, anche nei confronti di quella ‘umma (comunità) islamica che pure per lunghi secoli aveva rappresentato una seria sfida alla sua egemonia. Una superiorità non casuale o dovuta a semplice perizia tecnica, ma logica conseguenza di un modo particolare di porsi di fronte al reale radicato nell'antropologia cristiana e nella traduzione sistematica di questa antropologia in una filosofia e in una scienza operata dalle università medioevali. Non si può non notare come le relazioni a un seminario tenuto nel 2002 anticipino qui con puntualità le tesi centrali del volume del sociologo americano Rodney Stark in The Victory of Reason. How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success (Random House, New York 2005), studio che ha suscitato un vasto dibattito internazionale sostenendo precisamente che la superiorità scientifica, politica e militare dell'Europa nasce dal cristianesimo.

La seconda sezione - L'Europa fuori dall'Europa - costituisce un monumentale corso di storia delle principali espressioni della "Magna Europa" che sarebbe presuntuoso e inadeguato anche solo tentare di riassumere nel normale spazio di una recensione. Dopo un inquadramento de L'espansione europea dal secolo XIV al secolo XIX di Francesco Pappalardo, la sezione comprende contributi di Cantoni sull'Iberoamerica; di Paolo Mazzeranghi sul Canada, gli Stati Uniti d'America, il Sudafrica e l'Australia; e di Sandro Petrucci sulla "talassocrazia" portoghese in Asia e sulle Filippine spagnole.

Mi limito a segnalare alcuni temi che mi sembrano centrali per la controversia culturale cui ho accennato all'inizio. Anzitutto, se è certamente vero che la Spagna e il Portogallo cattolici hanno inteso diversamente lo spirito e le modalità dell'espansione rispetto all'Inghilterra e ai Paesi Bassi protestanti, praticando su scala assai più ampia i matrimoni misti con le popolazioni locali, destinando risorse maggiori alle missioni, e quasi sempre offrendo (o almeno tentando di offrire) maggiore protezione e diritti ai nativi, non si deve però ritenere - quasi rovesciando le "leggende nere" ampiamente diffuse da una certa pubblicistica inglese in funzione antispagnola - che la conquista e la colonizzazione inglese e olandese si siano risolte in una semplice litania di massacri d'"indigeni" buoni e pacifici, sempre e comunque vittime della malvagità e del razzismo degli europei.

La storia dell'Australia - su cui Mazzeranghi non ha potuto tenere conto dei lavori controversi ma fondamentali di Keith Windschuttle, pubblicati solo a partire dal 2003, che avrebbero notevolmente rafforzato le sue tesi - e del Sudafrica, ma anche del Canada e degli stessi Stati Uniti, dimostra che le cose non sono andate sempre e soltanto così, e che la storiografia seria non conosce soltanto il bianco e il nero ma richiede sempre un ampio numero di sfumature.

Le due rivoluzioni

Un secondo tema - ormai ampiamente condiviso dalla storiografia accademica, ma non necessariamente dalle opere divulgative e dai manuali scolastici - riguarda il carattere gravemente fuorviante di ogni assimilazione della cosiddetta Rivoluzione Americana alla Rivoluzione Francese all'interno di concetti comodi ma errati come quello di "epoca delle grandi Rivoluzioni".

A prescindere dal ben diverso atteggiamento nei riguardi della religione - perseguitata in Francia, rispettata e messa al centro dell'ethos della nuova nazione negli Stati Uniti d'America - la Rivoluzione Americana non si batte per, ma contro il centralismo e la negazione delle autonomie locali e dei corpi intermedi che s'infiltrava anche nell'amministrazione britannica e di cui la Rivoluzione Francese costituisce al contrario la maggiore affermazione. Semmai, elementi di centralismo penetrano successivamente negli Stati Uniti d'America e determinano l'insurrezione degli Stati del Sud, che di queste spinte centralistiche sono vittima: la Guerra Civile del 1861- 1865, che non va assolutamente ridotta alla sola questione della schiavitù. Se le conseguenze della Guerra Civile si fanno sentire ancora oggi, è d'altro canto anche vero che la resistenza del Sud al centralismo, sconfitta sul terreno militare, non fu vana e contribuì alla preservazione di un sistema di autonomie locali che fa degli Stati Uniti d'America la realtà della "Magna Europa" che ancora oggi meglio conserva le vestigia di un ordine costruito sulla gelosa difesa delle prerogative delle città, delle contee e degli Stati che costituiscono la Federazione.

Un terzo e decisivo tema riguarda l'indipendenza iberoamericana, analizzata con dovizia di particolari da Cantoni, il cui lungo capitolo sul tema, quasi un piccolo libro, va letto in continuità con quello dello stesso autore sulla conquista dell'Iberoamerica. Qui la vulgata comune ci parla di una dominazione spagnola rapace, oppressiva, "medioevale" e negatrice delle autonomie dei coloni, e di un processo che porta all'indipendenza avviato e condotto sulla base dell'Illuminismo, dell'anticlericalismo, dell'avversione alla monarchia, delle idee massoniche e di un presunto entusiasmo per tutto quanto va sotto il nome di modernità. Sulla scia dell'intellettuale nicaraguese Julio César Ycaza Tigerino (1919-2001), più volte citato nel capitolo, Cantoni denuncia questa vulgata come una "falsificazione grottesca e stupefacente".

Cantoni è consapevole del fatto che la materia è assai complessa, e che anche questo importantissimo momento della storia della Magna Europa non si presta a ricostruzioni mono- o bicromatiche, richiedendo invece l'uso accorto dell'arte della sfumatura.

Tuttavia nella sostanza l'America Latina ispanica è un mondo a suo modo "feudale", attaccatissimo alle libertà locali e ai diritti dei corpi intermedi; ed è quando questi diritti sono negati sia dal centralismo della dinastia dei Borboni sia dall'occupante francese che s'impadronisce della Spagna nel periodo napoleonico che gli ispanoamericani insorgono.

Quale liberalismo

Se anche si vuole parlare di "liberalismo" occorre distinguere fra un liberalismo appunto "feudale", simile a quello dei suoi teorici anglosassoni alla Edmund Burke (1729-1797) e fondato su un patto (del tutto diverso dal "contratto sociale" illuministico) con cui il sovrano ottiene obbedienza in cambio di un rigoroso rispetto dei diritti e delle autonomie locali, e un liberalismo "assolutistico" che attraverso il centralismo prepara l'Illuminismo.

In tema d'indipendenza dei paesi iberoamericani, con riferimento al suo momento iniziale e originario, lo stesso Ycaza Tigerino conclude che essa "significò il trionfo della mentalità feudal-liberale creola sulla mentalità assolutistico- liberale spagnola". La storia, però, non finisce qui, perché la situazione estremamente confusa nella madrepatria spagnola e nella stessa America Latina determina - ma dopoil momento originario dell'indipendenza - il fenomeno del caudillismo e delle dittature personali, dove non di rado liberali nel senso "europeo" del termine, ispirati dall'Illuminismo e massoni, si sostituiscono ai libertadores che rimanevano legati più spesso al modello "feudal-liberale" evocato da Ycaza Tigerino. E tuttavia chi potrebbe negare che elementi di profonda fedeltà all'eredità cristiana, politica e religiosa, rimangono ancora oggi vivi e vitali in America Latina, pur contrastati da tanti elementi di segno del tutto diverso?

In finis il Pontefice

Il volume si conclude, a modo di appendice, con elementi informativi sul tema Magna Europa: strutture di collegamento o vincoli istituzionali formali e informali.

La storia delle "strutture di collegamento" militari ed economiche non è per la verità particolarmente entusiasmante per quanto riguarda la "vecchia" Europa, che, a causa delle sue divisioni interne e di una scarsa disponibilità a investire soprattutto nel settore degli armamenti, ha avuto quasi sempre bisogno dell'impulso e del contributo degli Stati Uniti d'America per organizzare una difesa dell'Occidente che oggi non può che coniugare il momento militare e quello finanziario.

Una ragione in più per ritenere che - di fronte alle nuove aggressioni promosse soprattutto dall'ultrafondamentalismo islamico e che risultano in un mondo dove, come ha affermato Papa Benedetto XVI nel suo Discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, del 9 gennaio 2006, così "riabilitando" un'espressione a torto demonizzata, «non a torto si è ravvisato il pericolo di uno scontro delle civiltà» - la "Magna Europa" debba sempre più rafforzare la sua autopercezione come erede legittima dell'Occidente, radicata nella grande epopea della cristianità europea, certo indebolita dalla plurisecolare aggressione dell'Illuminismo e del relativismo ma ancora capace di trovare nella sua storia ragioni per reagire e per combattere.