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Sul jihad il Papa non ha sbagliato

di Massimo Introvigne (Il timone. Mensile di informazione e formazione apologetica, anno VIII, n. 56, settembre-ottobre 2006, pp. 14-15)

Dopo il magistrale discorso di Benedetto XVI a Regensburg del 12 settembre 2006, i fondamentalisti Fratelli Musulmani e gli islamologi “buonisti” alla Gilles Kepel, consigliere di Chirac (il cui articolo è stato tempestivamente tradotto da Repubblica), seguiti da diversi politici italiani dell’Unione, hanno chiesto al Papa di ammettere di essersi sbagliato sul rapporto fra islam e violenza e sulla nozione di jihad. Precisato ancora una volta che non intendeva “fare sue” le “brusche” parole dell’imperatore Manuele II Paleologo citate a Regensburg, il Papa ha ribadito in diverse occasioni che la citazione di quell’antico monarca era introduttiva a una riflessione sul rapporto fra “religione e violenza” nelle religioni, in cui nulla vi è da modificare e da cui solo può partire un dialogo fondato sul rispetto ma anche sulla chiarezza

Il Papa ha usato a Regensburg “jihad” come sinonimo di “guerra santa”, nel senso di guerra combattuta con le spade e i cannoni. Gli è stato risposto che il jihad, parola che significa “sforzo sulla via del Signore”, si distingue in “grande jihad”, lo sforzo per dominare le proprie passioni, e in “piccolo jihad”, che è la guerra combattuta con le armi. Si tratta di un’argomentazione ripetuta così spesso che molti la riprendono acriticamente senza darsi pena di esaminarla più da vicino.

Ma l’eminente islamologo americano David Cook, che nel suo recente Understanding Jihad (University of California Press, 2005), ha tracciato la storia del concetto attraverso un’attentissima ricostruzione delle fonti, definisce “patetico e ridicolo” il tentativo di considerare primario nell’islam il significato di jihad come “sforzo spirituale di vivere bene”. Nel suo libro, Cook inchioda i buonisti tramite diverse centinaia di citazioni che dimostrano come nei primi secoli dell’islam, mentre la fede di Muhammad si espande con le armi, oltre il novantacinque per cento dei casi in cui la parola “jihad” ricorre in testi musulmani questa significa guerra armata. Certo, c’è un hadith, un detto del Profeta, in cui questi tornando dalla battaglia alle fatiche della vita quotidiana dichiara di stare ritornando “dal piccolo al grande jihad”. Ma – senza entrare nelle complesse questioni evocate da Cook sulla autenticità degli hadith in genere e di questo in particolare – la questione è mal posta e ignora il cuore del problema, quello precisamente evidenziato da Benedetto XVI. Nell’islam – almeno per il fedele di sesso maschile – non c’è distinzione netta fra vita spirituale e difesa e propagazione della fede in armi. La guerra ha una valenza spirituale, e una spiritualità che escluda completamente la guerra dal suo orizzonte religioso non è una vera spiritualità.

Solo alla fine dell’epoca delle grandi conquiste, il mondo della mistica sufi proclama la priorità del jihad spirituale: ma questo neppure per i sufi esclude il jihad armato. Per i sufi che non vogliono dedicare lunghi mesi alla guerra, sottraendoli alla meditazione, i sultani turchi – ricorda Cook – istituiscono un battaglione incaricato di decapitare i prigionieri che l’esercito riconduce a Istanbul alla fine di ogni guerra, in modo che possano ottenere anche loro in poco tempo quei meriti che si possono acquisire solo partecipando al jihad in armi. Questo conferma che lo stesso sufismo era ben consapevole che anche la via del mistico non può escludere – né di principio né di fatto – il momento militare. Questo non ha di per sé – a prescindere da deviazioni storiche, che non sono mancate – lo scopo di obbligare l’infedele a farsi musulmano, ma di sottometterlo politicamente. Benché nel Corano ci sia una differenza fra le sure del primo periodo della vita del Profeta, quando – capo di una minoranza perseguitata – invocava la tolleranza della maggioranza, e quelle del secondo periodo quando invece – al potere e trionfante – si mostrava assai meno tollerante verso gli sconfitti, nessun musulmano rinnega il versetto della seconda sura citato anche da Benedetto XVI a Regensburg: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”. I non musulmani non vanno convertiti a forza ma privati dei pieni diritti politici e sottomessi ai credenti: nel caso dei “popoli del Libro”, cristiani ed ebrei, vanno ridotti alla condizione di dhimmi, cittadini di serie B che pagano maggiori tasse, sono discriminati da numerosi punti di vista e non possono accedere alle maggiori cariche pubbliche. Per gli altri (ma per gli indù, maggioranza schiacciante nell’India governata dai musulmani, si trovò un escamotage per assimilarli ai popoli del Libro, onde evitare all’impero Moghul una continua guerra civile) in linea di principio non vi sono diritti, ma al massimo una mera tolleranza. Il jihad in armi non mira dunque alla conversione forzata, ma alla sottomissione politico-giuridica dell’infedele. Che poi di fatto per sfuggire a questa condizione di sottomissione l’infedele spesso si converta (è il caso della maggioranza cristiana del Nordafrica, passata in pochi secoli dopo la conquista araba allo stato di piccola minoranza) è un’altra questione.

L’idea che Cook chiama “ridicola” secondo cui il “vero” jihad sia quello spirituale è un’invenzione degli islamologi occidentali a partire dal primo Novecento quando, per ragioni diverse, il maggiore islamologo, Louis Massignon (1883-1962), e il maggiore esoterista, René Guénon (1886-1951), dell’Occidente ritengono che l’islam più autentico vada cercato nel sufismo. Ma in soccorso della storia viene ora la sociologia, i cui sondaggi mostrano che quando si chiede ai musulmani comuni (non ai pochi intellettuali che vanno in televisione), sia nei paesi dove sono in maggioranza sia nell’emigrazione, che cosa evoca per loro la parola “jihad” questi rispondono a schiacciante maggioranza facendo riferimento alla guerra e non alla spiritualità. Per questo hanno ragione il Papa e le autorità saudite (che hanno confermato – e difeso – l’essenziale aspetto militare del jihad), e torto i buonisti.

Lo storico François Georgeon, nella sua monumentale biografia del sultano turco Abdulhamid II (1842-1918), ricorda che quando l’Inghilterra lo minacciò per questioni di crediti e di ferrovie, il sultano scrisse alla regina Vittoria (1819-1901) ricordando che era anche califfo di tutto l’islam e che come tale era “il custode di una terribile parola, jihad, e mi basterebbe pronunciarla perché duecento milioni di musulmani facciano dell’India britannica un lago di sangue”. La prudente regina inglese fece un passo indietro: a differenza di Chirac aveva bene inteso che, parlando di jihad, il sultano non si riferiva a un corso di esercizi spirituali.

 

Per approfondire:

David Cook, Understanding Jihad, University of California Press, Berkeley- Los Angeles 2005.

Massimo Introvigne, La nuova guerra mondiale. Scontro di civiltà o guerra civile islamica?, Sugarco, Milano 2005