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Democrazia, cose turche

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 6, n. 18, 5 maggio 2007)

Tramontata l’era dei golpe, ad Ankara si scontrano gli eredi del laicismo di Kemal Atatürk e l’islam politico. A rischio la possibilità di un islam tradizionale ma non ultrafondamentalista. Se Erdogan perde, ne soffrirà il mondo

I più vecchi di noi ricordano l’Europa dei colpi di Stato militari degli anni Sessanta e Settanta. I generali turchi. I colonnelli greci. Lo schema delle reazioni aveva allora almeno il vantaggio di essere prevedibile. Erano gli Stati Uniti – non ancora convertiti all’idea che la migliore sicurezza per l’America consiste nella democrazia ovunque – a tollerare generali e colonnelli purché fossero contro l’Unione Sovietica. Erano gli estremisti di destra a scandire – con parecchia ingenuità – slogan come «Ankara, Atene, adesso Roma viene». Ed erano i grandi quotidiani di centro-sinistra a scagliare la propria indignazione contro i militari golpisti.

Quello che è successo in queste settimane a proposito della Turchia ci mostra come il mondo sia cambiato dopo la fine dell’impero sovietico e dopo l’11 settembre 2001. L’esercito turco – che ha una lunga tradizione di colpi di Stato – ne ha, nella sostanza, minacciato uno assicurando che non “rimarrà a guardare” se il parlamento eleggerà un presidente della repubblica a lui sgradito.

Le maggioranze che decidono

Gli Stati Uniti hanno subito fatto sapere che nessuna interferenza militare in Turchia sarà tollerata. Lo stesso ha fatto Tony Blair, seguito – in tono per la verità più timido – dall’Unione Europea. Al contrario, da la Repubblica in giù, la stampa italiana di centro-sinistra e di sinistra ha manifestato una sorprendente indulgenza verso i militari turchi, che fino a qualche anno fa erano dipinti come spauracchi simili ai vecchi colonnelli greci e che oggi – in quanto difensori della tradizione laicista turca contro un governo d’ispirazione islamica – diventano improvvisamente simpatici. Anche un certo giornalismo di centro-destra italiano si è schierato, se non con i militari, certamente contro il governo turco.

Nessuno dubita seriamente che la Turchia sia una democrazia, e che le ultime elezioni si siano svolte senza brogli e in piena trasparenza. Il sistema elettorale, che prevede contro i partiti etnici, in particolare curdi, e le formazioni ultranazionaliste e comuniste uno sbarramento del 10% che tra l’altro i militari (che detestano separatisti e comunisti) sono i primi a non voler cambiare, dà la maggioranza in parlamento a chi ha ricevuto un po’ più del 30% dei voti.

È così in molte parti del mondo. Quando si arriva alle elezioni del presidente della repubblica, che in teoria dovrebbe essere super partes, si discute e si dibatte, ma alla fine chi ha la maggioranza in parlamento elegge chi vuole. Lo ha fatto con Giorgio Napolitano in Italia l’Unione, che ha un margine di voti sull’opposizione assai più modesto della maggioranza di governo turca. Stava per succedere anche in Turchia, dove il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aspirava a diventare presidente della repubblica.

Davanti al tribunale

Contro questo progetto si sono svolte manifestazioni di piazza, che hanno fatto scrivere a molti media nostrani che la Turchia aveva parlato chiaro e che il partito di Erdogan doveva fare marcia indietro. I conti dei manifestanti divergono al solito fra organizzatori, polizia e governo. Un dato sembra tuttavia chiaro: le cifre di chi ha manifestato ad Ankara e poi a Istanbul contro Erdogan non hanno raggiunto i due milioni d’italiani portati in piazza dalla Casa delle Libertà contro il governo di Romano Prodi, in un Paese come il nostro che ha certo meno abitanti rispetto ai 73 milioni della Turchia. E a Prodi non è certamente venuto in mente di dimettersi: la piazza, in democrazia, non sostituisce le urne.

Il progetto di Erdogan è stato criticato dai vertici della Confindustria turca, la TÜSIAD: ma se Prodi dovesse dimettersi ogni volta che lo critica Luca di Montezemolo, da tempo non staremmo più qui a discuterne. Si aggiunge che la TÜSIAD non ha il monopolio degl’imprenditori in Turchia: rappresenta la grande industria e le filiali delle aziende straniere, mentre le piccole e medie aziende, e anche le non piccolissime “tigri dell’Anatolia” cui si deve il boom economico turco, hanno seguito la scissione della MÜSIAD, che sta con Erdogan.

Dopo aver vinto le elezioni del 2002, Erdogan – che a quelle elezioni non poté presentarsi in quanto interdetto dai pubblici uffici e perfino arrestato nel 1999 da un potere giudiziario sostanzialmente infeudato ai militari – designò l’ex sindaco di Ankara Abdullah Gul come primo ministro “provvisorio”, in attesa che un escamotage giuridico gli permettesse di ottenere un seggio in un’elezione suppletiva e diventare premier nel 2003.

Ora il gioco fra Erdogan e Gul si è ripetuto. Il presidente della repubblica in Turchia siede nel Consiglio di sicurezza nazionale (uno strano organismo di cui fanno parte anche i vertici militari e che ha il potere di veto sulle leggi), e la carica è stata per tradizione sempre riservata a esponenti laicisti, con l’eccezione, dal 1989 al 1993, di Turgut Özal, un economista di fama mondiale e un devoto musulmano membro della stessa confraternita sufi di Erdogan, che aveva però rapporti più che buoni con i militari. Gul è dello stesso partito di Erdogan e viene anche lui dall’islam politico: ma come sindaco di Ankara ha imparato a convivere con i militari e come ministro degli Esteri ha intessuto buoni rapporti con le cancellerie europee.

Erdogan fece un passo indietro e sarebbe spettato ai kemalisti e ai militari farne uno anche loro, in nome della concordia nazionale. Ma non è andata così: i militari hanno emesso un comunicato durissimo contro la candidatura di Gul. L’opposizione ha disertato le votazioni in parlamento per l’elezione del presidente e ha sostenuto che, in mancanza del numero dei due terzi dei parlamentari (che serve perché l’eletto sia proclamato tale al primo scrutinio), l’intera procedura di votazione è nulla.

Si è quindi rivolta alla Corte Costituzionale – un altro baluardo tradizionale del laicismo – che, dopo avere chiesto a un esperto un rapporto che era favorevole al governo, lo ha ignorato e ha dato ragione all’opposizione annullando la votazione.

Nel momento in cui scrivo la soluzione più probabile sembrano le elezioni politiche anticipate, che permettano al nuovo parlamento di eleggere il presidente della repubblica. Anche se il partito di Erdogan non avrà la maggioranza dei due terzi, ove uscisse dalle urne con una maggioranza assoluta dei seggi non solo confermata ma, stando ai primi sondaggi, rafforzata sarebbe molto difficile ai militari, o a chiunque altro, contestare il suo diritto di indicare anche il presidente della repubblica.

La politica turca vive della contrapposizione fra gli eredi del “padre della patria” laicista Kemal Atatürk, che si augurava di «vedere tutte le religioni affondare in fondo al mare», e l’islam politico. Ma in entrambi gli schieramenti ci sono falchi e colombe. I kemalisti – sconfitti alle ultime elezioni, ma maggioritari nell’esercito – sono divisi fra un’ala rigidamente laicista e una che ricorda come lo stesso Atatürk negli ultimi anni della propria vita avesse fatto qualche apertura alla religione.

L’islam politico è dominato dal partito di Erdogan, l’AKP, che è il risultato di una “svolta di Fiuggi” del 2001 in cui i “giovani” – con alla testa i sindaci d’Istanbul, Erdogan, e di Ankara, Gul – hanno messo in minoranza i “vecchi” dell’ex primo ministro Necmettin Erbakan, dichiarato di abbandonare l’ideologia fondamentalista e aperto ai diritti delle donne e delle minoranze religiose. Ma le “svolte di Fiuggi” non si fanno in un giorno. Nella base del partito di Erdogan rimangono forti simboli e tendenze fondamentaliste, e il governo deve mediare fra gli umori meno moderati degl’iscritti e quelli centristi della grande maggioranza dei propri elettori.

I musulmani maggiorenni

Il risultato di questa mediazione è un programma in cui la legge islamica è indicata come orizzonte ideale piuttosto che come insieme di precetti fissi e immutabili, e in cui la politica estera è saldamente ancorata all’alleanza statunitense e alla richiesta di ingresso nell’Unione Europea. L’AKP distingue il “secolarismo” della Costituzione turca dal “giacobinismo”. Dichiara di accettare il secolarismo se questo significa separazione dello Stato dalla religione – nel senso che lo Stato si disinteressa delle scelte religiose dei cittadini, garantendo la libertà di religione e di coscienza – e di ripudiare il giacobinismo che definisce invece come ingresso aggressivo dello Stato nella sfera della religione per lottare contro le istituzioni confessionali e limitare la libertà religiosa.

Yalçin Akdogan, il più influente ideologo dell’AKP, fa esplicito riferimento al pensatore angloirlandese Edmund Burke – il primo critico della Rivoluzione francese – e propone una riconciliazione che passa anche per un apprezzamento positivo, forse non solo tattico, del contributo dell’Atatürk alla storia turca, interpretato però in chiave “secolarista” ma non “giacobina”.

Il tipo stesso del “giacobino” è il presidente della repubblica uscente Ahmed Necdet Sezer, un ex magistrato che ha ritenuto un dovere difendere il laicismo con gesti anche clamorosi.

I terreni principali di scontro sono due: la possibilità per chi ha frequentato le secondarie presso le scuole religiose I’mam Hatip (di cui lo stesso Erdogan è ex alunno) di accedere senza limitazioni alle università e la questione del velo (in Turchia un semplice foulard), sempre più visibile nella società turca (dove, secondo una rilevazione sociologica del 2003, lo porta il 65% delle donne), ma tuttora vietato nelle scuole pubbliche e nelle università.

Erdogan sa che la questione sta molto a cuore al suo elettorato, ma anche che molti nella magistratura e nell’esercito considerano la proibizione del velo un bastione irrinunciabile del kemalismo. Ha rinunciato a uno scontro frontale sul tema, ma sua moglie e quella di Gul portano il velo, agitando nell’immaginario dei laicisti duri e puri lo spettro di una first lady velata nel palazzo presidenziale che fu di Atatürk.

C’è ora da augurarsi che le elezioni si svolgano senza brogli, e che i militari non le condizionino. Ogni vicenda diversa farebbe fare alla Turchia un passo indietro di vent’anni e la escluderebbe per sempre dall’Europa. Chi la pensa diversamente e “fa il tifo” per i militari golpisti ritiene che escludere dal potere anche la forza in assoluto meno radicale della immensa galassia postfondamentalista dell’islam mondiale – appunto l’AKP di Erdogan – sia un fine così importante da giustificare il mezzo di buttare a mare la democrazia e tornare ai colpi di Stato.

Lo si può pensare, ma si deve riflettere sulle implicazioni antropologiche. Questa tesi presuppone un homo islamicus come eterno minorenne, cui non va concesso di votare perché “vota male” ed elegge “fondamentalisti”. Se si vuole la democrazia, si deve invece lasciare agli elettori musulmani la libertà di scegliere. Tanto più quando non scelgono degli amici di Osama bin Laden, ma dei musulmani che hanno sostituito al fondamentalismo il conservatorismo e che, in 5 anni di governo, non hanno islamizzato a forza la società ma si sono comportati, in fondo, come una buona vecchia DC europea.