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Salviamo i turchi dall'Iran

di Massimo Introvigne (il Giornale, 24 luglio 2007)

Le elezioni turche sono andate come prevedevano i sondaggi. Bush e Condi Rice lo sapevano da tempo, e per questo non hanno fatto neppure una telefonata ai leader dell'opposizione turca nelle settimane precedenti alle elezioni, confermando la loro fiducia all'islam politico di Erdogan, nonostante le perplessità di numerosi ambienti europei. Finita la campagna elettorale si può ora ammettere francamente che l'opposizione non era del tutto presentabile. I kemalisti del Chp candidavano diversi reduci dagli scandali di corruzione degli anni 1990. L'estrema destra nazionalista del Mhp - che entra in Parlamento superando il severo sbarramento del dieci per cento, ed è la vera sorpresa delle elezioni - ha portato in Parlamento un buon numero di figuri legati ai Lupi Grigi, nostalgici del Führer che in campagna elettorale hanno denunciato «complotti giudeo-massonici» e del cui movimento faceva parte l'autore dell'attentato del 1981 a Giovanni Paolo II, Ali Agca.

Il fatto che abbiano superato lo sbarramento del dieci per cento tre partiti - l'Akp di Erdogan, i kemalisti e gli ultra-nazionalisti - anziché due come nelle precedenti elezioni politiche fa sì che Erdogan, pure avendo aumentato notevolmente i voti rispetto alle ultime elezioni del 2002, dal 32% al 47%, abbia però perso seggi (340 più alcuni «indipendenti» rispetto ai 363 del 2002). Ha la maggioranza assoluta ma non quella dei due terzi che gli permetterebbe di eleggersi un proprio presidente della Repubblica. Rispetto ai sondaggi, si tratta del migliore tra i risultati possibili. Erdogan vince come era inevitabile, ma non stravince e per la presidenza della Repubblica o modifiche costituzionali dovrà venire a patti con gli altri partiti, mentre attende il referendum di ottobre che dovrebbe affidare al popolo l'elezione diretta del presidente ma probabilmente solo a partire dal prossimo decennio.

In campagna elettorale era certo lecito a molti europei fare il tifo contro Erdogan. Ora si tratta però di non regalare un grande Paese come la Turchia agli ayatollah di Teheran, che da mesi cercano di convincere Erdogan che l'Europa lo ha abbandonato e che un asse con l'Iran è il futuro della politica turca. Perché questo possa avvenire occorre tenere presenti due punti. Il primo è che da quasi mezzo millennio Turchia e Russia sospettano l'una dell'altra. Perché la Turchia non sia sedotta dall'offerta iraniana di costituire con Teheran un polo energetico e politico alternativo a Putin nell'Asia Centro-Occidentale, gli europei (come Washington consiglia) dovranno presentare a Erdogan offerte attraenti che contrastino seriamente il disegno egemonico di Mosca nella regione. Il secondo è che gli elettori di Erdogan - quasi metà dei turchi - non sono certo tutti fondamentalisti, ma sono fermi su alcune rivendicazioni religiose come la possibilità (non l'obbligo) per le donne di indossare il velo, anche negli uffici pubblici e nelle scuole. Intervistando sindaci di piccoli comuni turchi li ho trovati aperti sui diritti delle minoranze religiose e la condanna del terrorismo, ma fermi nella difesa del velo. Proprio su questioni simboliche come quella del velo (del resto già indossato dal 65% delle turche in barba alle leggi), l'Europa dovrà forse mostrare con Erdogan una certa flessibilità, nello stesso tempo vigilando contro ogni violazione dei diritti delle minoranze o deriva fondamentalista. Abbandonare il dialogo sarebbe molto pericoloso, e spingerebbe la Turchia nelle braccia dell'Iran.