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Burleigh, lo storico detestato dai liberal per come parla delle religioni

di Massimo Introvigne (il Foglio, 25 settembre 2007)

Nello scorso mese di marzo ho letto sul New York Times una recensione dell’ultimo libro dello storico cattolico inglese Michael Burleigh firmata da Tony Judt, un intellettuale inglese ultra-liberal che vive a New York e appartiene a quella categoria di ebrei che si sono costruiti una reputazione  attaccando in modo così virulento la “lobby ebraica” negli Stati Uniti e Israele da essere denunciati dall’American Jewish Committee come “neo-antisemiti”. Judt definiva il volume “disgustoso”, bieco prodotto di una “apologetica cattolica”. Con una simile raccomandazione, mi sono affrettato a ordinare non solo il libro -  Sacred Causes (Harper Collins, New York 2007) – ma anche il primo volume della storia d’Europa di Burleigh di cui Sacred Causes costituisce il “seguito”: Earthly Powers, pubblicato dallo stesso editore del 2006. Ora finalmente Sacred Causes esce in italiano, tradotto da Rizzoli come In nome di Dio. Religione, politica e totalitarismo da Hitler ad Al Qaeda. Pazienza se per la traduzione è stata usata l’edizione inglese del 2006 anziché quella americana del 2007 (le differenze non sono essenziali). Più grave è l’abitudine degli editori italiani – di cui è stato vittima anche il grande sociologo Rodney Stark –, di fronte a un’opera in più tomi, a pubblicare nella nostra lingua solo l’ultimo, magari attirati da qualche controversia.

Ma guardiamo il bicchiere mezzo pieno: anche il lettore di lingua italiana ha ora accesso a un grande storico che manda in bestia i liberal per il metodo prima ancora che per il merito. Burleigh, infatti, è un allievo di Eric Voegelin (1901-1985), e a differenza dei liberal di questo mondo considera la religione non una nota a pié di pagina della storia, ma l’elemento centrale delle vicende umane. Anche quando sembra che non sia così. Infatti, come insegnava Voegelin, i totalitarismi del XX secolo come il nazional-socialismo e il comunismo (ma già il giacobinismo laicista del XVIII e del XIX) sono “religioni politiche”, tentativi di assorbire tutta la vita sociale nello Stato, cui è affidato anche il compito di rispondere alle grandi domande (religiose) sulla vita e sul destino dell’uomo. La modernità per Burleigh è così la storia di un conflitto insanabile fra le religioni in senso proprio e le “religioni politiche”. E per Burleigh nella storia moderna le religioni tradizionali stanno dalla parte della libertà, e le “religioni politiche” – laicismo, comunismo e nazional-socialismo – da quella della tirannide.

Naturalmente Burleigh conosce tutte le sfumature della storia e sa bene che raramente questa si presenta come un semplice scontro fra i “buoni” e i “cattivi”. Per queste visioni in bianco e nero ci sono i vecchi film western e ora in Italia c’è Beppe Grillo. Quella di Burleigh invece è una storia a colori, dove la realtà è sempre più complicata degli schemi in cui si cerca di racchiuderla. Così vediamo le Chiese – compresa quella cattolica – compiere talora scelte sbagliate, appoggiare dittatori o politicanti corrotti guardando a vantaggi immediati e perdendo di vista la prospettiva generale. Queste accuse alle Chiese, nota Burleigh, sono qualche volta esatte, altre volte – come nella vexata quaestio dei rapporti fra Pio XII e la Germania nazista (di cui lo storico inglese è uno dei maggiori specialisti viventi) – “oscenità” distorte post factum da una propaganda laicista. Né tutti i singoli giudizi storici di Burleigh si possono immediatamente condividere. Tuttavia resta il quadro di fondo: di fronte all’attacco degli statalismi totalitari – dal giacobinismo fino all’islam politico di Tariq Ramadan –, il cristianesimo – e in particolare la Chiesa cattolica – hanno costituito nella storia d’Europa, e sono ancora oggi con Benedetto XVI, il più sicuro presidio della ragionevolezza della politica e della libertà. Ce né abbastanza perché al medio liberal venga voglia di bruciare Burleigh. E forse al medio lettore del Foglio di leggerlo.