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Miti sull’11 settembre: il Project for the New American Century ha "previsto" e "auspicato" gli attentati?

di Massimo Introvigne

imgDopo il crollo degli argomenti di carattere tecnico sulle presunte origini da ricondurre non all’ultra-fondamentalismo islamico ma ad ambienti statunitensi o israeliani degli attentati dell’11 settembre, gli ambienti negazionisti – il cui scopo è indebolire e fiaccare la volontà di reazione dell’Occidente contro lo stesso ultra-fondamentalismo islamico – ne avanzano altri. Alcuni, come le leggende degli “israeliani danzanti” e degli “studenti d’arte israeliani”, hanno carattere mitologico. Altri sono semplici menzogne.

Una delle più persistenti è così riportata in un tipico sito negazionista italiano: esiste un “documento diramato dal PNAC nel 2000, dove si auspicava una ‘nuova Pearl Harbor’ per convincere gli americani a spendere di più per la difesa e per affrontare i nuovi nemici dell’egemonismo USA.
Quel documento, ‘Rebuilding the american defense’, era firmato da Rumsfeld, Wolfowitz, Cheney e Douglas Feith, che erano al potere l’11 settembre”.

Qui si va al di là delle semplici interpretazioni deliranti e patologiche per entrare in una sfera diversa: quella del falso. Il Project for the New American Century (PNAC) era (dal momento che oggi non esiste più, e anche il suo sito Internet ha cessato di funzionare) un’istituzione propagandistica e di studio creata dal New Citizen Project, un’associazione sostenuta da alcune delle maggiori fondazioni conservatrici americane e diretta da William Kristol, uno dei principali esponenti del pensiero neo-conservatore. Il PNAC è stato co-fondato nel 2007 dallo stesso Kristol e da Robert Kagan, un altro dei più noti esponenti neo-conservatori. Il direttore del PNAC era Gary Schmitt, un docente universitario di studi internazionali che oggi lavora per l’American Enterprise Institute, una delle più importanti fondazioni conservatrici americane.

Il 3 giugno 1997 il PNAC esordì con uno Statement of Principles, firmato dall’élite del conservatorismo – di varie matrici – statunitense, in cui si chiedeva all’allora presidente Bill Clinton e all’opinione pubblica di sostenere una modernizzazione dell’esercito, con le necessarie maggiori spese, a fronte di un panorama militare internazionale che stava cambiando, e una politica estera che non sostenesse regimi dittatoriali semplicemente perché “amici degli Stati Uniti” ma “promuovesse la causa della libertà politica” in tutti i Paesi del mondo. In questo Statement of Principles non c’era nessun accenno al rischio, eventualità o possibilità di una nuova Pearl Harbor, cioè di un episodio simile a quello del 7 dicembre 1941 quando durante la Seconda guerra mondiale forze giapponesi attaccarono la base navale statunitense di Pearl Harbor, nelle Isole Hawaii, senza una preventiva dichiarazione di guerra (che seguì solo ad attacco iniziato).

Fra i firmatari dello Statement of Principles ci sono praticamente tutti coloro che nel 1997 erano qualcuno nel mondo conservatore e neo-conservatore statunitense, da Francis Fukuyama, il teorico della “fine della storia” (una posizione notoriamente non condivisa dai neo-conservatori) fino a George Weigel, il teologo cattolico amico personale e biografo di Giovanni Paolo II. Fra i numerosi firmatari dello Statement of Principles c’erano anche il futuro vice-presidente Richard D. Cheney, il futuro ministro della Difesa Donald Rumsfeld (che aveva già occupato la stessa carica nel 1975), e il futuro vice-ministro della Difesa Paul Wolfowitz, nonché il fratello del futuro Presidente degli Stati Uniti, Jeb Bush. Certamente il tema prevalente del documento – quello secondo cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto smettere di sostenere dittatori “amici” e promuovere la democrazia ovunque possibile – sarebbe poi diventato un principio-cardine del programma di politica estera dell’amministrazione di George W. Bush, anche se non sempre sarebbe stato seguito con coerenza.

Negli anni successivi il PNAC si è reso noto per diversi documenti in cui giudicava essenziale per la promozione della democrazia in Medio Oriente il rovesciamento del regime di Saddam Hussein (1937-2006) in Iraq, se necessario con una guerra. Il PNAC è soprattutto noto per un documento del settembre 2000 intitolato Rebuilding America’s Defenses. Strategy, Forces and Resources for a New Century, che è tuttora disponibile tramite il servizio WebArchive. Il documento nasce da riunioni di un gruppo di studio diretto da Donald Kagan (padre di Robert Kagan e storico docente all’Università di Yale) e Gary Schmitt, ed è stato redatto da Thomas Donnelly, dirigente dell’American Enterprise Institute ed esperto di affari militari. I “partecipanti alle discussioni” del gruppo di studio sono elencati alla fine del documento, e comprendono alcuni dei più noti professori universitari di studi militari degli Stati Uniti nonché Paul Wolfowitz, allora docente presso la prestigiosa Johns Hopkins University.

L’affermazione secondo cui  “quel documento, ‘Rebuilding the american defense’, era firmato da Rumsfeld, Wolfowitz, Cheney e Douglas Feith” è dunque semplicemente falsa. Rumsfeld, Cheney e Feith non parteciparono neppure alle discussioni e al gruppo di studio. Wolfowitz vi partecipò, ma non ha “firmato” il documento che è “firmato” solo dai coordinatori, Donald Kagan e Gary Schmitt, e dal redattore, Thomas Donnelly. Anzi, si dice esplicitamente – come è abituale in questi casi – che “il rapporto non rappresenta necessariamente le opinioni dei partecipanti al progetto”, Wolfowitz compreso.

Ma che cosa dice Rebuilding the American Defense? Il documento non è mai stato segreto, e può essere letto per intero. Dal punto di vista storico e geopolitico si avverte l’influenza delle idee dei Kagan, padre e figlio, secondo cui gli Stati Uniti sono un impero paragonabile agli imperi antichi e devono abituarsi a ragionare come tale. Dal punto di vista militare si argomenta, con dovizia di particolari, che il mondo sta attraversando una “rivoluzione negli affari militari” e che gli Stati Uniti non si sono totalmente adeguati a questa “rivoluzione”. Considerando la possibilità che in futuro gli Stati Uniti debbano combattere simultaneamente più di una guerra, il rapporto sostiene che è necessario acquistare nuovi tipi di elicotteri, aerei e missili e aumentare il budget per le spese militari dal 3,5 al 3,8% del PIL. Chiunque abbia partecipato a una riunione di esperti di cose militari anche una sola volta in vita sua sa che si tratta di un ambiente estremamente litigioso e polemico. Non stupisce quindi che altri esperti di strategie militari, non meno autorevoli dei professori consultati dal PNAC, abbiano espresso il loro dissenso rispetto al documento. Quanto alla visione “imperiale” dell’America, si tratta di una questione dottrinale. È evidente che chi condivide gli ideali conservatori e patriottici del PNAC avrà simpatia per questa visione mentre chi coltiva idee “di sinistra”, negli Stati Uniti e altrove, vi vedrà una manifestazione di arroganza e – appunto – di “imperialismo”. Ma tutto questo non ha direttamente a che fare con l’11 settembre.

Ci si dice invece che il documento “auspicava una ‘nuova Pearl Harbor’ per convincere gli americani a spendere di più per la difesa e per affrontare i nuovi nemici dell’egemonismo USA”. Ora, la parola “auspicare” ha un senso diverso da “prevedere” o “temere”. Se compero un biglietto della lotteria io “auspico” che sia quello vincente, “prevedo” che probabilmente non lo sarà (sulla base del calcolo della probabilità che mi dà una possibilità su qualche milione) e “temo” di avere sprecato i miei soldi. Se “prevedo” che sia il biglietto vincente sono, per dire il meno, un ottimista inguaribile. Se “auspico” che il biglietto sia perdente sono un masochista e forse ho bisogno dello psichiatra. Che cosa ci dice il documento Rebuilding the American Defense di “una nuova Pearl Harbor”? L’argomento emerge due volte. A pagina 67 si afferma che la Marina americana è rimasta più indietro dell’Esercito e dell’Aviazione a fronte della “rivoluzione negli affari militari”, che nella Marina secondo il documento si esprimerebbe nel superamento dell’epoca in cui le portaerei erano decisive. Pertanto, “senza un rigoroso programma di sperimentazione che studi la natura della rivoluzione negli affari militari così come si applica alla guerra sul mare, la Marina potrà trovarsi di fronte a una nuova Pearl Harbor – altrettanto impreparata alla guerra nell’epoca post-portaerei di quanto lo fu all’alba dell’epoca delle portaerei”. Per chiunque non sia un complottista o un dietrologo inguaribile, è evidente che qui non si “auspica” una “nuova Pearl Harbor” ma la si teme, suggerendo misure perché questo non avvenga. La “nuova Pearl Harbor” inoltre non assomiglia a un attentato ma a una grave impreparazione della Marina statunitense in caso di guerra navale in cui le portaerei non giochino un ruolo preponderante. Ancora una volta, che il rapporto abbia ragione o torto è irrilevante per l’argomento che ci occupa, e che riguarda solo i rapporti fra il testo e l’11 settembre.

A pagina 52, anticipando temi che sono trattati più dettagliatamente in seguito, si osserva che alcuni suggerimenti del rapporto, che raccomanda di privilegiare le nuove tecnologie sospendendo la produzione di nuove portaerei e di aerei F-22, ritenuti destinati a diventare presto obsoleti, solleveranno senz’altro dubbi e perplessità negli Stati maggiori sia degli Stati Uniti sia dei Paesi alleati, per non parlare delle industrie fornitrici di “vecchio” materiale e dei politici. E si afferma: “Inoltre il processo di trasformazione [delle logistiche militari], anche se porta con sé cambiamenti rivoluzionari, sarà probabilmente lungo, a meno che si verifichi qualche evento catastrofico che funga da catalizzatore – come una nuova Pearl Harbor. La politica interna e quella industriale modelleranno il ritmo e il contenuto della trasformazione non meno delle esigenze delle missioni in corso. Una decisione di sospendere o cessare definitivamente la produzione di portaerei, come è raccomandato da questo rapporto ed è giustificato dalla chiara direzione che sta prendendo la tecnologia militare, causerà certamente grandi controversie”. Anche qui solo la mentalità paranoica dei complottisti e negazionisti dell’11 settembre può vedere in questo brano (a) l’“auspicio” di una nuova Pearl Harbor e (b) l’annuncio dell’11 settembre come “nuova Pearl Harbor” in grado di convincere l’opinione pubblica  a seguire le raccomandazioni del rapporto. Un annuncio pubblico: infatti è noto che i complotti segreti dei potenti “cattivi” sono annunciati in pubblico con anticipo, diffusi a stampa e via Internet e firmati con nome e cognome dei congiurati… Né il riferimento al ruolo di possibile “catalizzatore” cambia il quadro. Un medico può prevedere che un infarto possa fungere da “catalizzatore” per una vita più sana del suo paziente: non per questo – normalmente – glielo augura o lo “auspica”.

Il contesto del riferimento a pagina 52 allude a problemi squisitamente tecnici, e la resistenza più forte è prevista da parte di Stati maggiori che pensano in modo tradizionale. La raccomandazione che incontrerà maggiori resistenze, secondo gli autori del rapporto, è l’invito a smettere di costruire portaerei. La “nuova Pearl Harbor” è evocata come possibilità che Stati maggiori che si adeguano alle nuove tecnologie molto lentamente possano doversi trovare a prendere invece assai rapidamente decisioni troppo a lungo rimandate. Che tutto questo “auspichi” una “nuova Pearl Harbor” è un’interpretazione del testo maliziosa e fuori contesto. Né il riferimento al ruolo di possibile “catalizzatore” cambia il quadro. Un medico può prevedere che un infarto possa fungere da “catalizzatore” per una vita più sana del suo paziente: non per questo – normalmente – glielo augura o lo “auspica”. Non è chiaro, inoltre, come l’11 settembre sia stata in effetti una “nuova Pearl Harbor” suscettibile di (e quindi – ragionano i negazionisti – architettata per) fare accettare le strategie suggerite nel rapporto. L’attacco all’Iraq si è ancora avvalso ampiamente delle portaerei, proprio quello che il rapporto non raccomandava.

Si deve poi considerare che l’ossessione di Pearl Harbor è ancora viva nell’opinione pubblica degli Stati Uniti e molto di più in chi studia problemi militari. “Pearl Harbor” è sinonimo di “farsi cogliere impreparati”, cioè esattamente di quello che gli esperti di logistica e di strategia militare lavorano per impedire. Il riferimento a Pearl Harbor, forse esotico in Italia, non lo è nel documento di un gruppo di studio statunitense cui hanno partecipato numerosi professori di studi militari e altri specialisti del settore. L’uso dell’espressione “nuova Pearl Harbor” con riferimento all’11 settembre come attentato organizzato da esponenti dell’amministrazione americana e/o israeliana è stato diffuso da un libro con lo stesso titolo del professore in pensione di filosofia e teologia David Ray Griffin, ma trasforma semplicemente un’ossessione storica in una mania ossessiva complottista.

Dunque, il documento Rebuilding the American Defense (a) non è stato “firmato” da “Rumsfeld, Cheney e Douglas Feith” e a rigore neppure da Wolfowitz (che partecipò alle riunioni del gruppo di studio ma non ne “firmò” il rapporto finale) e (b) non “auspica” una “nuova Pearl Harbor”, come si vuole far credere a chi non ha letto il documento: la “teme”, la “paventa” o forse la “ipotizza”, con riferimento non ad attentati compiuti tramite aerei ma a problemi che riguardano in primo luogo le portaerei e la Marina. Anche questo mito dell’11 settembre non ha dunque alcuna base seria, se non nell’immaginario disturbato di chi lo propone e lo diffonde.