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Baget Bozzo e Saleri contro Dossetti: una lettura sociologica

di Massimo Introvigne

gianfrano fini

“Senza Dossetti il quadro politico italiano attuale (…) sarebbe assolutamente inimmaginabile”. Così scrive il politologo e dirigente del Movimento cristiano lavoratori (Mcl) Pier Paolo Saleri (a p. 225) nella parte da lui redatta del volume cui decise di dare vita con don Gianni Baget Bozzo (1925-2009) prima della scomparsa del sacerdote, giornalista e studioso genovese. L’opera vede ora la luce con il titolo Giuseppe Dossetti. La Costituzione come ideologia politica (Ares, Milano 2009). Lavoro rigoroso e parte a pieno titolo della letteratura scientifica sul tema, il testo è pure un j’accuse nei confronti di don Giuseppe Dossetti (1913-1996), la cui influenza sulla politica italiana e sulla Chiesa Cattolica è per gli autori – al di là delle intenzioni e della dimensione intima e spirituale della persona, di cui Dio solo è giudice, e cui neppure io intendo minimamente mancare di rispetto –indubbiamente e profondamente negativa.

Il testo di Baget Bozzo e Saleri sarà certamente recensito in modo adeguato da specialisti di storia del movimento cattolico in Italia. Quella che propongo qui non è certo una recensione completa, ma è una riflessione di carattere sociologico, a proposito di un tema centrale sia del volume sia della situazione politica e religiosa del XX e del XXI secolo. Benché gli autori – che non sono sociologi – non ne facciano cenno, mi sembra utile e fecondo discutere l’elemento essenziale della loro riflessione su Dossetti cercando di collocarlo all’interno di una delle teorie centrali della sociologia contemporanea: la teoria delle nicchie. Tra l’altro, benché io stesso – sulla scia di, e in collaborazione con, maestri come Rodney Stark e Lawrence Iannaccone – mi sia sforzato di applicare la teoria delle nicchie alla religione, non è inopportuno ricordare che la sua estensione al di fuori del campo strettamente economico – a opera del premio Nobel per l’economia Gary Becker nell’opera del 1976 L’approccio economico al comportamento umano (tradotta in italiano nel 1998 da il Mulino, Bologna) – non nasce per studiare fenomeni religiosi, ma politici.

Per gli economisti è evidente che non tutti i consumatori sono uguali. Si ripartiscono in nicchie composte da persone caratterizzate dalle stesse tendenze al consumo. Chi non ha figli difficilmente comprerà pannolini, e un disoccupato non rientrerà nella nicchia di chi acquista automobili di lusso. Se questo è ovvio, lo è meno la scoperta – che ha fruttato appunto il Nobel a Becker – che le nicchie non si costituiscono solo sulla base di caratteristiche oggettive quali l’età, il sesso o il reddito. Al contrario, i gusti e le preferenze soggettive sono fondamentali. Nella nicchia di lettori di fumetti per bambini non ci sono solo minorenni, ma anche adulti che hanno un particolare gusto per queste pubblicazioni. E ci sono persone di basso reddito che fanno parte della nicchia che consuma  vini o sigari di lusso, disposte se del caso a rovinarsi per intrattenere questa loro passione.

Insiste ancora Becker che la distribuzione dei consumatori in nicchie non vale solo per i beni materiali – libri, automobili o vini – ma anche per i beni simbolici, quali sono i “prodotti” (l’espressione, evidentemente, ha qui valore metaforico) offerti dalla politica o dalla religione. Anche i consumatori di beni simbolici politici – chi è interessato all’applicazione della teoria delle nicchie a quelli religiosi potrà partire, per esempio, dal mio libro Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2004) – si distribuiscono in nicchie. Queste non sono determinate solo dalle caratteristiche demografiche o dal reddito. Non tutti i poveri sono “di sinistra”, né tutti i ricchi “di destra”. Non tutti i membri di famiglie numerose si riconoscono in posizioni politiche che propongono provvedimenti a favore della famiglia. Se le cose andassero così, prevedere il successo o l’insuccesso di formazioni politiche o i comportamenti elettorali sarebbe molto facile. Non ci sarebbe neppure bisogno di sondaggi. Tali previsioni sono invece notoriamente difficili, perché anche i consumatori di beni simbolici politici si distribuiscono in nicchie in modo altamente imprevedibile, a causa di tendenze, preferenze, gusti, ideologie (e anche della fede religiosa) che in parte hanno poco a che fare con la demografia o il reddito.

Becker – e coloro che hanno testato la sua teoria applicandola a casi concreti – hanno pure proposto vari modelli di nicchie in cui si collocano i consumatori politici. Benché siano stati proposti modelli assai più complessi, molti studiosi mantengono – almeno per l’Occidente – la tradizionale tripartizione fra destra, centro e sinistra, pur consapevoli di come nel XXI secolo queste etichette siano diventate sempre più problematiche. Becker ha insistito sul fatto che, per dimensioni, le nicchie politiche non sono uguali. La maggior parte dei consumatori di beni simbolici politici si situano nella nicchia centrale. E la nicchia di destra comprende un numero maggiore di consumatori rispetto alla nicchia di sinistra. A scanso di equivoci, queste notazioni non costituiscono automaticamente delle previsioni elettorali, perché la teoria delle nicchie si riferisce alla domanda di beni simbolici politici. L’esito concreto – ed elettorale – dipende dalla possibilità che la domanda incontri un’offerta, e dalla qualità di questa offerta.

In campo religioso – per una dimostrazione densa di dati statistici rimando qui alla mia opera citata Fondamentalismi – la maggioranza delle persone interessate a quel bene simbolico che è la religione istituzionale si situa, analogamente, in una nicchia centrale conservatrice, e anche qui le nicchie più “a destra” del centro comprendono più fedeli – potenziali, giacché il passaggio da fedeli potenziali a fedeli attuali dipende appunto dall’incontro tra domanda e offerta – rispetto a quelle più “a sinistra”.

Un ultimo dato di cui tenere conto è che secondo la teoria delle nicchie le variazioni della domanda di beni simbolici sono processi lentissimi. La domanda tende a rimanere costante. Le variazioni politiche (come quelle religiose) dipendono in gran parte da mutazioni non della domanda, ma dell’offerta.

Se questi dati sociologici sono esatti – e vi sono numerose conferme empiriche del fatto che lo sono – i sostenitori di posizioni politiche “di sinistra” e di posizioni religiose “progressiste” si trovano di fronte a un problema di difficile soluzione. La loro retorica, infatti, insiste sul fatto che la “sinistra” e il “progressismo” rappresentano “il popolo”, “le masse”, “la maggioranza”. Tuttavia quando dalla retorica e dalla teoria passano ai fatti, questi ultimi si rifiutano ostinatamente di cooperare. Basta aprire le finestre, frequentare il popolo reale e anche studiare andamenti elettorali o movimenti di crescita e declino di denominazioni religiose nel lungo periodo per rendersi conto che “le masse” si comportano esattamente al contrario di quanto immaginano “i progressisti”. Sia in politica sia in religione la nicchia centrista-conservatrice e quelle che si situano alla sua “destra” (se vogliamo, per comodità, usare anche per i fenomeni religiosi un linguaggio politico, pure certo non del tutto adeguato) sono molto più popolate delle nicchie “progressiste” e “di sinistra” (parliamo qui, evidentemente, di numero di fedeli, non d’intellettuali o di giornalisti).

Alcuni grandi fenomeni culturali del XX secolo hanno cercato di fare i conti precisamente con questo dato di fatto. Per esempio la Scuola di Francoforte – una delle principali correnti filosofiche, psicologiche e sociologiche del secolo scorso – è partita precisamente dalla triste constatazione da parte dei suoi promotori, all’origine tutti marxisti, che l’anticomunismo non era un fenomeno tipico dei “ricchi” e dei “borghesi” ma coinvolgeva molti “poveri” e “lavoratori”. La Scuola di Francoforte spiegò questo fenomeno mettendo sotto accusa la cultura popolare e la religione, che avrebbero a diverso titolo manipolato psicologicamente i poveri creando in loro una “falsa coscienza”.

Che cosa c’entra tutto questo con Dossetti? C’entra molto, perché il dilemma che ho finora evocato è precisamente il problema centrale di Dossetti, come emerge dalle pagine del libro di Baget Bozzo e Saleri. La posizione di Dossetti, ridotta alla sua formulazione più semplice (che certo non rende giustizia alle molteplici sfaccettature del suo pensiero), è questa: nel mondo contemporaneo è in atto un epico scontro fra il bene e il male, che si dipana in tutta la società ma i cui terreni privilegiati sono gli Stati e la Chiesa Cattolica. Il bene è rappresentato da una costellazione di valori – che Dossetti, con una sincerità di cui non v’è ragione di dubitare, identifica con l’autentico cristianesimo – in cui vive un incontro fra la tradizione di quei cattolici che si erano detti democratici e tradizione marxista: primato del lavoro e dei diritti sociali rispetto ai diritti individuali; primato dello Stato (e di un’etica puritana che coinvolge anche la vita privata ma il cui vertice è il “senso dello Stato”) rispetto alle libertà concrete e locali, considerate con sospetto come possibile fomite di dispersione e corruzione; primato, nel quadro di una difesa con toni quasi mistici della moderna democrazia, della forma partito (purché questo non sia “corrotto” rispetto all’etica più sopra menzionata) sulla società civile; primato della magistratura, severa custode della moralità dei singoli e dello Stato, rispetto ai corpi elettivi e ai governi. Nella vita ecclesiale gli stessi – o analoghi – valori si declinano nel dossettismo come primato della collegialità dei vescovi rispetto al Papa e alla Curia romana; e come primato dei cattolici “adulti”, i quali conoscono le esigenze della moderna politica, rispetto alle indicazioni del Magistero e alla dottrina sociale, della cui stessa funzione Dossetti ultimamente dubita.

Saleri mette in luce – sulla scia d’interventi a proposito di Dossetti dell’ex-presidente della Repubblica Francesco Cossiga – come il sacerdote e monaco italiano avesse una viva avversione per  la forma di Stato “borghese” uscita dalla Rivoluzione francese. Ripetutamente, Saleri ricollega quest’avversione – anche qui, citando Cossiga – alle letture del giovane Dossetti di autori della scuola cattolica contro-rivoluzionaria, ugualmente avversa allo Stato liberale e alla Rivoluzione francese. Dossetti, così, è presentato come pensatore “che affonda le sue radici nella cultura cattolica controrivoluzionaria dei primi anni dell’Ottocento, sia pure stravolgendone la logica” (p. 218). Sul punto mi permetto però di dissentire. Nella teoria politica e sociale il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico. Non tutti coloro che avversano i prodotti della Rivoluzione francese sono contro-rivoluzionari. Si può criticare il liberalismo conseguente alla Rivoluzione francese in nome della monarchia tradizionale pre-rivoluzionaria – è il caso della scuola contro-rivoluzionaria – o in nome della necessità di un’ulteriore evoluzione del processo rivoluzionario verso una fase che incorpori elementi di socialismo (una necessità che il liberale “puro” è accusato di non capire). Le due posizioni – quella contro-rivoluzionaria e quella coerentemente rivoluzionaria – non sono analoghe ma opposte, e Dossetti si situa sul versante della seconda.

Saleri in qualche modo risponde a questa obiezione, affermando che sia lo Stato di Dossetti sia quello dei controrivoluzionari “dei primi anni dell’Ottocento” sono assolutisti, e pongono il fondamento della sovranità in soggetti diversi dal popolo: il re per i controrivoluzionari, un partito non corrotto – davvero “moderno principe” – o una élite d’illuminati dal vago sapore gnostico per Dossetti. Vi è qui però un noto equivoco, che dovrebbe essere ormai superato, dopo che negli ultimi decenni lo studio della scuola contro-rivoluzionaria è stato notevolmente approfondito dagli storici. La scuola contro-rivoluzionaria non trova la sua ragion d’essere nell’apologia della monarchia assoluta e dell’Antico Regime così come esisteva nel 1788. Sa bene che, tornando al 1788, l’anno dopo non potrà che essere il 1789. Al contrario, i contro-rivoluzionari vedono nell’assolutismo e nell’erosione delle libertà dei corpi intermedi, delle città, delle professioni, delle famiglie la premessa della Rivoluzione. Di queste libertà concrete – molto diverse dalla libertà astratta illuminista – quello che Saleri definisce giustamente come il neo-assolutismo di Dossetti non è amico, ma avversario.

Dossetti ha avuto una vita lunga e complessa. Ha avuto l’impressione di vincere diverse volte: con la fine dell’esperienza politica di Alcide De Gasperi (1881-1954) e l’egemonia sulla Democrazia Cristiana di uomini che in gran parte lo ammiravano e lo consideravano un punto di riferimento; con il Concilio Vaticano II, dove ebbe all’inizio un ruolo assai importante, ridimensionato però da Paolo VI (1897-1978) non appena al Papa fu chiaro quanto radicale fosse la riforma in senso collegiale dell’autorità nella Chiesa voluta da Dossetti; con Mani Pulite, colpo di Stato “legale” che sembrò rappresentare il trionfo delle sue idee sul ruolo della magistratura e cui egli non fu estraneo; con le vittorie elettorali di Romano Prodi, per molti versi il più fedele e conseguente dei suoi allievi. E tuttavia ogni volta a Dossetti la vittoria, che già sembrava saldamente afferrata, finì per scivolare via dalle mani: con la resistenza dell’ultimo Amintore Fanfani (1908-1999) – ma per certi versi dello stesso Aldo Moro (1916-1978) – a una prospettiva coerentemente dossettiana d’incontro tra cattolici e comunisti; con l’emergere della posizione di contrasto al Partito Comunista Italiano di Bettino Craxi (1934-2000); con gli ostacoli frapposti da Paolo VI – e tanto più dal suo successore Giovanni Paolo II (1920-1985) – all’interpretazione del Concilio secondo un’ermeneutica di rottura rispetto alla tradizione della Chiesa, pure divulgata in tutto il mondo dalla potente macchina culturale dossettiana della “scuola di Bologna”; con la discesa in campo imprevedibile e imprevista di Silvio Berlusconi, contro il quale non a caso il monaco italiano scagliò negli ultimi anni della sua vita anatemi di una durezza inusitata e pressoché apocalittica. Dossetti, dunque, non ha vinto: ma le alleanze da lui intessute nel corso di una lunga vita – da ultimo quelle con il quotidiano Repubblica e con influenti settori della magistratura, specie a Milano e in Sicilia – hanno generato una meccanica che per molti versi è all’opera ancora oggi.

L’identificazione del nucleo essenziale del dossettismo da parte di Baget Bozzo e Saleri ci riporta all’interesse anche per i sociologi del loro lavoro, e alla teoria delle nicchie. Per Dossetti molti non comprendono la radicalità dello scontro in atto fra il bene e il male perché sono, secondo una sua eloquente espressione, “contagiati dalla conta” (p. 220) – e questo non solo nella politica: “anche nella Chiesa” (ibidem). “Contagiati dalla conta” sono coloro che danno rilievo a quanto il popolo concretamente esprime con le sue scelte e con i suoi comportamenti: in politica, con il voto; in religione, scegliendo questa o quella denominazione o all’interno della Chiesa questo o quel movimento o realtà ecclesiale. La tesi secondo cui la volontà della maggioranza espressa attraverso i concreti comportamenti prevale sulla saggezza delle élite custodi del “bene” è definita da Dossetti “assurda e violenta” (ibidem). Movimenti come quello di Silvio Berlusconi – ma per altri versi (e senza quel vero e proprio “odio teologico”, p. 208, che l’ultimo Dossetti riserva al fondatore di Forza Italia, e che aveva avuto un antecedente remoto nella sua avversione per il politico cattolico della sua generazione più coerentemente anticomunista, Luigi Gedda, 1902-2000) anche  realtà come Comunione e Liberazione o l’Opus Dei – sono banditi senza misericordia dal dossettiano regno del bene, e il numero dei loro seguaci ed elettori diventa squisitamente irrilevante.

Vi è qui una soluzione radicale, e a suo modo anche elegante, del dilemma posto al moderno progressista dagli effetti della teoria delle nicchie. Il problema, ricordiamolo, è semplice. Secondo il progressista “il popolo” o “la maggioranza” dovrebbero occupare le nicchie “progressiste” in religione e “di sinistra” in politica (beninteso, molti progressisti non si esprimono in termini sociologici e non parlano di nicchie, ma la sostanza è questa). Ma se apre le finestre della sua officina ideologica, guarda fuori e conta, il progressista si accorge che non è così. “Il popolo” o “la maggioranza” nella maggior parte dei casi affollano invece le nicchie centrali-conservatrici o peggio quelle più “a destra”.

Come si è visto, la Scuola di Francoforte – nata, si può dire, precisamente intorno a questo problema – risponde che è così perché “il popolo” è sviato da “cattivi” che dispongono di sofisticati strumenti di manipolazione mentale, i quali utilizzano in particolare la religione e la cultura popolare. Qualche cosa di queste analisi passa anche in Dossetti, il quale non manca di prendersela con la religiosità popolare e con le televisioni – soprattutto quelle di Silvio Berlusconi – come forme di oppio del popolo. Ma la sua soluzione del dilemma è molto più radicale. Anziché spiegare perché le scelte della maggioranza non corrispondano alle previsioni dei progressisti, nega semplicemente la rilevanza delle maggioranze. Dossetti vuole liberare i progressisti dal “contagio della conta”: “l’allergia per le procedure elettorali democratiche è assolutamente irrefrenabile nei dossettiani, e non solo in campo politico” (p. 320). Il problema è risolto abolendolo. Quello che è bene per “il popolo” – in religione come in politica – non lo sa il popolo. Lo sanno le minoranze illuminate che conoscono il bene, e che devono – se del caso in modo inflessibile e giacobino – imporre il bene al popolo, esercitando una funzione pedagogica, anche contro la sua volontà.

Vecchia teoria, si dirà, tipica di tutte le forme di gnosticismo politico e religioso e di tutti i giacobinismi della volontà generale. Ma Dossetti la declina in modo originale, considerando un documento rivoluzionario – di rilievo addirittura mondiale – la Costituzione della Repubblica Italiana, alla cui redazione aveva collaborato. La Costituzione per Dossetti assume la duplice funzione – per usare la terminologia dell’antropologia contemporanea – di totem e di tabù. Secondo lui, non può essere modificata, nonostante il suo testo lo preveda: il Parlamento e il presidente della Repubblica che si muovessero in questo senso si comporterebbero in modo sostanzialmente eversivo. A guardia della Costituzione non stanno tanto i parlamentari e il governo eletti quanto i giudici non eletti. E i giudici hanno il diritto e il dovere di svolgere una funzione pedagogica anche quando questa funzione non è compresa, non è voluta, è avversata dal “popolo” e va contro l’opinione accertata della maggioranza. I giudici, infatti, e non il popolo, rappresentano in questo caso il bene.

Sbaglierebbe chi ritenesse che Dossetti non fa che riproporre una tesi cattolica tradizionale secondo cui le maggioranze possono sbagliare, e non qualunque legge votata a maggioranza (per esempio, una legge abortista) è giusta. Questa tesi – del tutto ovvia per un cattolico – fa riferimento alla legge di Dio, che prevale sulla legge sugli uomini e che si manifesta come legge naturale la quale, in quanto riconoscibile dalla ragione, s’impone a tutti, credenti e non credenti. Ma Dossetti, il quale dubita sia della nozione tradizionale di legge naturale sia della legittimità di un suo discernimento da parte del Magistero cattolico, non ha in mente una legge iscritta da Dio nel cuore dell’uomo ma la Costituzione. Così lo intenderanno i suoi seguaci. “Davvero non di poco conto – commenta Saleri – la sostituzione del diritto naturale con l’‘ideologia costituzionale’!” (p. 245).

Toni apocalittici di Dossetti a parte, il modo in cui – per via giudiziaria – è aggirata la volontà della maggioranza va al cuore di tanti problemi contemporanei. Sarebbe facile evocare il caso Eluana: ma la questione va molto al di là dell’Italia. Negli Stati Uniti, per esempio, la maggioranza degli elettori si sono pronunciati in referendum condotti in molti Stati dell’Unione contro il matrimonio omosessuale: ma i giudici, con le loro sentenze, stanno imponendo questa forma di matrimonio, palesemente non voluta dalla maggioranza degli statunitensi, città per città e Stato per Stato. Qualcosa di simile, beninteso, potrebbe avvenire anche in Italia dove – non diversamente dagli Stati Uniti – non manca chi teorizza che i giudici, che ne sanno di più e sono più avanti dei normali cittadini, devono educarli e imporgli norme che essi non sono “ancora” in grado di capire, anche contro la loro volontà. Delle singole conseguenze di questa sovversione giudiziaria del bene comune Dossetti, evidentemente, non ha responsabilità diretta. Ma il metodo con cui un progressismo minoritario s’impone alla maggioranza  con diversi pretesti e in nome di una presunta superiore eticità è precisamente l’essenza del dossettismo descritto da Baget Bozzo e Saleri. Un pericolo, da questo punto di vista, ancora ben vivo e presente.