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Contro la crisi, «la fierezza di un'identità cristiana». Il Papa ad Arezzo e Sansepolcro, 13-5-2012

di Massimo Introvigne

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Il pellegrinaggio di Benedetto XVI ad Arezzo e Sansepolcro del 13 maggio 2012 avrebbe dovuto comportare anche una tappa alla Verna, annullata per ragioni meteorologiche ma accompagnata dalla distribuzione del discorso che il Papa aveva preparato. Il viaggio ha attirato l'attenzione della stampa italiana quasi esclusivamente per i riferimenti alla crisi economica, mentre in realtà ha costituito un poderoso richiamo al tema delle radici cristiane. Certo, il Pontefice ha fatto più di un cenno – in particolare nell'omelia della Messa ad Arezzo – alla «crisi economica». Ma, come aveva fatto altre volte, ne ha identificato le radici ultime in una «profonda crisi spirituale», alla cui base stanno «logiche puramente materialistiche» e «una cultura dell'effimero, che ha illuso molti».

È perché l'uomo oggi è «chiuso nel proprio individualismo» - secondo le parole del discorso preparato per la Verna – che si è determinata la carenza etica da cui è nata anche la crisi dell'economia. Ma qual è la soluzione a questi mali – e quindi alla crisi – indicata dal Pontefice? La si può riassumere in un'espressione usata ad Arezzo: «la fierezza di un'identità cristiana». Occorre recuperare – un tema carissimo a Benedetto XVI come già al beato Giovanni Paolo II (1920-2005) – la consapevolezza delle radici cristiane dell'Europa, dell'Italia, di ogni nostra città e regione. Qui troveremo le soluzioni. Salutando dalla finestra dell'episcopio di Arezzo, il Papa ha ricordato con poche ma precise parole il nesso che intercorre fra memoria e futuro: «Chi è capace di rendere presente in modo così perfetto la cultura del passato è anche capace di aprire cultura per il futuro perché conosce l'uomo, ama l'uomo che ha la sua grandissima dignità di essere non solo uomo, ma immagine di Dio. E questa dignità dell'uomo ci obbliga ma anche ci consola e ci incoraggia: se siamo realmente immagine di Dio, siamo anche capaci di andare avanti e di superare i problemi del presente e di aprire cammini al nuovo futuro».

Questo rapporto fra radici e crisi contemporanea è stato declinato – in modi diversi ma complementari – ad Arezzo, nel discorso preparato per la Verna e a Sansepolcro. Di Arezzo il Papa ha ricordato lo straordinario contributo alle radici culturali e spirituali dell'Italia. Un primo passaggio è stato il superamento del paganesimo con san Donato [?-362], «la cui testimonianza di vita, che affascinò la cristianità del Medioevo, è ancora attuale. Egli fu evangelizzatore intrepido, perché tutti si liberassero dagli usi pagani e ritrovassero nella Parola di Dio la forza per affermare la dignità di ogni persona e il vero senso della libertà». Benedetto XVI ricorda l'episodio dei pagani che irruppero nella chiesa dove san Donato celebrava la Messa e spezzarono in mille pezzi il calice. Tranquillamente, il santo lo ricompose e, per quanto ne mancassero dei pezzi, il vino miracolosamente rimaneva al suo interno senza versarsi. «Il calice infranto e ricomposto da san Donato, di cui parla san Gregorio Magno [540-604] (cfr Dialoghi I, 7, 3) – ha detto il Papa –, è immagine dell'opera pacificatrice svolta dalla Chiesa dentro la società, per il bene comune».

Il Pontefice ha quindi ricordato ad Arezzo che «nella vostra Cattedrale è sepolto il beato Gregorio X, Papa [1210-1276], quasi a mostrare, nella diversità dei tempi e delle culture, la continuità del servizio che la Chiesa di Cristo intende rendere al mondo». Il beato Gregorio X, interagendo con personaggi del calibro di san Tommaso d'Aquino (1225-1274) e san Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), «si misurò con i grandi problemi del suo tempo: la riforma della Chiesa; la ricomposizione dello scisma con l'Oriente cristiano, che tentò di realizzare con il Concilio di Lione; l'attenzione per la Terra Santa; la pace e le relazioni tra i popoli – egli fu il primo in Occidente ad avere uno scambio di ambasciatori con il Kublai Khan [1215-1294] della Cina».

Infine, e benché si trattasse di un'epoca in cui già non poche nubi cominciavano ad addensarsi sulla Chiesa, il Pontefice ha ricordato le «grandi personalità del Rinascimento» aretino, da Francesco Petrarca (1304-1364) a Giorgio Vasari (1511-1574). Non vennero meno in quest'epoca le devozioni di Arezzo, prima fra tutte quella alla Madonna del Conforto, e si perfezionò giuridicamente un sistema civico ed economico dotato di statuti che «furono strumenti per assicurare a molti i diritti inalienabili». Un tema, quello dei diritti da garantire, di attualità oggi, quando è minacciata la stessa «difesa della vita, dal suo primo sorgere al suo termine naturale».

Alla Verna, due anni prima di morire san Francesco (1182-1226) ricevette le stigmate. Da anni Benedetto XVI è interessato alla figura del santo di Assisi e a radici dell'Italia che non sono solo cristiane ma francescane: «il Medioevo francescano – ha detto nel discorso preparato per la Verna – ha lasciato un segno indelebile». «I ripetuti passaggi del Poverello d'Assisi e il suo indugiare nel vostro territorio sono un tesoro prezioso»: ma «unica e fondamentale fu la vicenda della Verna, per la singolarità delle stimmate impresse nel corpo del serafico Padre Francesco».

Nello stesso modo, da anni il Pontefice va mettendo in guardia da interpretazioni errate, sentimentali, buoniste o meramente umanitarie del messaggio di san Francesco. Al contrario, il santo invita a «recuperare la dimensione soprannaturale della vita, a sollevare gli occhi da ciò che è contingente, per tornare ad affidarci completamente al Signore». A proposito del Cantico di Frate Sole, spesso sfigurato da interpretazioni che fanno di san Francesco una specie di ecologista del New Age ante litteram, il Papa ricorda che nella visione del santo di Assisi la natura senza la luce dell'amore di Dio e della croce di Cristo rimane oscura come la luna quando non riceve la luce dal sole. «Solo lasciandosi illuminare dalla luce dell'amore di Dio, l'uomo e la natura intera possono essere riscattati, la bellezza può finalmente riflettere lo splendore del volto di Cristo, come la luna riflette il sole. Sgorgando dalla Croce gloriosa, il Sangue del Crocifisso torna a vivificare le ossa inaridite dell'Adamo che è in noi, perché ciascuno ritrovi la gioia di incamminarsi verso la santità, di salire verso l'alto, verso Dio».

«Non si sale a La Verna – afferma il Pontefice – senza lasciarsi guidare dalla preghiera di san Francesco [detta] dell'absorbeat», che recita: «Rapisca, ti prego o Signore, l'ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, perché io muoia per amore dell'amor tuo, come tu ti sei degnato di morire per amore dell'amor mio». E qui Benedetto XVI torna su un tema che gli è caro: se vogliamo comprendere davvero la spiritualità di san Francesco, quindi le radici francescane dell'Italia, dobbiamo farci guidare dall'interpretazione che ne diede il suo «insigne figlio» san Bonaventura da Bagnoregio, in particolare nel suo Itinerarium mentis in Deum.

Qui la via di san Francesco è riassunta in tre tappe. «Anzitutto la mente va rivolta alla Passione del Signore, perché è il sacrificio della Croce che cancella il nostro peccato, una mancanza che può essere colmata solo dall'amore di Dio». «Esorto il lettore – scrive san Bonaventura – prima di tutto al gemito della preghiera per il Cristo crocifisso, il cui sangue deterge le macchie delle nostre colpe».

In secondo luogo – e l'elemento è tipicamente francescano, in questo diverso da altre scuole di spiritualità – la preghiera ha «bisogno delle lacrime», espressione con cui san Bonaventura – che qui afferma di trasmetterci il più genuino insegnamento di san Francesco – allude al «coinvolgimento interiore, del nostro amore che risponda all'amore di Dio».

Il terzo passaggio è la admiratio, cioè la capacità di provare «stupore davanti all'opera salvifica di Cristo». La admiratio presuppone l'umiltà. «Non è infatti con l'orgoglio intellettuale della ricerca chiusa in se stessa che è possibile raggiungere Dio, ma con l'umiltà». Scrive san Bonaventura nell'Itinerarium: «[l'uomo] non creda che gli basti la lettura senza l'unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza l'ammirazione, la considerazione senza l'esultanza, l'industria senza la pietà, la scienza senza la carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio senza la grazia divina, lo specchio senza la sapienza divinamente ispirata».

Così, ripete il Pontefice, san Francesco – rettamente compreso – continua a parlare «anche a noi». E ci ricorda che «non basta dichiararsi cristiani per essere cristiani, e neppure cercare di compiere le opere del bene», il che rischierebbe di rivelarsi un mero umanitarismo. «Occorre conformarsi a Gesù, con un lento, progressivo impegno di trasformazione del proprio essere, a immagine del Signore», e l'esempio che il Papa indica è quello di santa Margherita da Cortona (1247-1297), «figura poco nota di penitente francescana, capace di rivivere in se stessa con straordinaria vivacità il carisma del Poverello d'Assisi».

La terza storia legata alle radici cristiane che Benedetto XVI ha voluto raccontare nel suo pellegrinaggio è stata quella – per molti versi davvero straordinaria – della fondazione della città di Sansepolcro, di cui ricorre quest'anno il millenario. La storia inizia con due santi vissuti a cavallo dell'anno 1000, sant'Arcano e sant'Egidio. I due santi, «di fronte alle grandi trasformazioni del tempo, si misero alla ricerca della verità e del senso della vita». Questo loro viaggio insieme storico e simbolico li portò in Terra Santa. Qui si misero a raccogliere pietre dei luoghi del Vangelo, perché era nata in loro un'idea «speciale»: «costruire nell'Alta Valle del Tevere la civitas hominis a immagine di Gerusalemme», una nuova città di giustizia e di pace. Questa sarebbe stata Sansepolcro, la città del Santo Sepolcro, realizzata grazie all'apporto e all'aiuto dei monaci e del «carisma benedettino».

Al centro e insieme in alto misero il Duomo, secondo un «progetto che segna l'urbanistica del Borgo di Sansepolcro, perché la stessa collocazione del Duomo ha una forte valenza simbolica: è il punto di riferimento, a partire dal quale ciascuno può orientarsi nel cammino, ma soprattutto nella vita; costituisce un forte richiamo a guardare in alto, a sollevarsi dalla quotidianità, per dirigere gli occhi al Cielo, in una continua tensione verso i valori spirituali e verso la comunione con Dio, che non aliena dal quotidiano, ma lo orienta e lo fa vivere in modo ancora più intenso. Questa prospettiva è valida anche oggi, per recuperare il gusto della ricerca del "vero", per percepire la vita come un cammino che avvicina al "vero" e al "giusto"».

La storia di questa città costruita intorno a una «copia in pietra del Santo Sepolcro di Gerusalemme», disseminata delle pietre che i santi fondatori avevano portato dalla Terra Santa, e articolata secondo un'urbanistica sacra con al centro il Duomo, «sede della ritrovata armonia tra i momenti del culto e della vita civica», non avrebbe forse tanto impressionato Benedetto XVI se i fondatori non fossero stati lettori di un testo di sant'Agostino (354-430) a lui carissimo, il De civitate Dei. Non è la prima volta che il Pontefice ne ricorda la genesi e il contenuto. «Quando i Goti di Alarico [ca. 370-410] entrarono in Roma e il mondo pagano accusò il Dio dei Cristiani di non aver salvato Roma caput mundi, il Santo Vescovo di Ippona chiarì ciò che dobbiamo aspettarci da Dio, la giusta relazione tra sfera politica e sfera religiosa. Egli vede nella storia la presenza di due amori: "amore di sé", fino all'indifferenza per Dio e per l'altro, e "amore di Dio", che porta alla piena libertà per gli altri e ad edificare una città dell'uomo retta dalla giustizia e dalla pace (cfr La Città di Dio, XIV, 28)».

I santi fondatori di Sansepolcro non pretendevano di edificare in Terra la civitas Dei – il che è tipico degli utopisti e degli ideologi –, ma volevano costruire una civitas hominis che verso la città di Dio tendesse, in modo da non sprofondare verso quella civitas diaboli che nasce dall'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio. In questo senso, il messaggio che viene dalla città di Sansepolcro è anche politico. I fondatori «idearono un modello di città articolato e carico di speranza per il futuro, nel quale i discepoli di Cristo erano chiamati ad essere il motore della società nella promozione della pace, attraverso la pratica della giustizia». Sansepolcro è un ricordo iscritto nella storia e nella pianta di una città che «il bene comune conta di più del bene del singolo», un principio che in un momento storico diverso fu riaffermato anche dalla «splendida figura del neo-beato Giuseppe Toniolo [1845-1918]».

Oggi viviamo in tempi di antipolitica, dominati dalla tentazione della «sfiducia verso l'impegno nel politico e nel sociale». A questa tentazione – animati da storie come quelle di Arezzo, della Verna, di Sansepolcro – «i cristiani, specialmente i giovani, sono chiamati a contrapporre l'impegno e l'amore per la responsabilità». Ai giovani in particolare il Papa rivolge «l'invito a saper pensare in grande: abbiate il coraggio di osare!». Ma per osare occorre appunto un «impegno a riscoprire le radici cristiane, affinché i valori evangelici continuino a fecondare le coscienze». È il messaggio centrale che ci viene da questo pellegrinaggio del Pontefice.