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Santo Stefano, maestro di preghiera

di Massimo Introvigne

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Proseguendo nella sua «scuola della preghiera», il 2 maggio Benedetto XVI ha dedicato l'udienza generale alla figura del primo martire, santo Stefano, che era appunto uno dei sette discepoli scelti per il servizio della carità verso i bisognosi di cui il Papa aveva parlato in precedenza. «Nel momento del suo martirio, narrato dagli Atti degli Apostoli, si manifesta, ancora una volta, il fecondo rapporto tra la Parola di Dio e la preghiera».

Stefano è accusato di avere affermato che «Gesù …distruggerà questo luogo, [il tempio], e sovvertirà le usanze che Mosè ci ha tramandato» (At 6,14). E in effetti davvero Gesù aveva affermato: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Ma quello che gli accusatori di Stefano non comprendono, o non vogliono comprendere, è che Gesù «parlava del tempio del suo corpo. Quando, poi, fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» (Gv 2,21-22).

Il discorso di Stefano davanti al tribunale è il più lungo degli Atti degli Apostoli. E «si sviluppa proprio su questa profezia di Gesù, il quale è il nuovo tempio, inaugura il nuovo culto, e sostituisce, con l'offerta che fa di se stesso sulla croce, i sacrifici antichi». Stefano sa che l'accusa di «sovvertire la legge di Mosè» è grave non solo per i rischi personali che corre, ma per il futuro stesso dell'evangelizzazione cristiana. «Egli rilegge così tutta la narrazione biblica, itinerario contenuto nella Sacra Scrittura, per mostrare che esso conduce al "luogo" della presenza definitiva di Dio, che è Gesù Cristo, in particolare la sua Passione, Morte e Risurrezione».

Ma Stefano sa che i suoi accusatori non sono in buona fede, e che sarà ucciso. Dunque «in questa prospettiva Stefano legge anche il suo essere discepolo di Gesù, seguendolo fino al martirio. La meditazione sulla Sacra Scrittura gli permette così di comprendere la sua missione, la sua vita, il suo presente. In questo egli è guidato dalla luce dello Spirito Santo, dal suo rapporto intimo con il Signore, tanto che i membri del Sinedrio videro il suo volto "come quello di un angelo" (At 6,15). Tale segno di assistenza divina, richiama il volto raggiante di Mosè disceso dal Monte Sinai dopo aver incontrato Dio».

Il discorso di Stefano è dotto e profondo. «Parte dalla chiamata di Abramo, pellegrino verso la terra indicata da Dio e che ebbe in possesso solo a livello di promessa; passa poi a Giuseppe, venduto dai fratelli, ma assistito e liberato da Dio, per giungere a Mosè, che diventa strumento di Dio per liberare il suo popolo, ma incontra anche e più volte il rifiuto della sua stessa gente». In questi eventi della Sacra Scrittura, che dunque Stefano afferma di non volere affatto sovvertire, «emerge sempre Dio, che non si stanca di andare incontro all'uomo nonostante trovi spesso un'ostinata opposizione. E questo nel passato, nel presente e nel futuro». Quindi in tutto l'Antico Testamento Stefano «vede la prefigurazione della vicenda di Gesù stesso, il Figlio di Dio fattosi carne, che – come gli antichi Padri – incontra ostacoli, rifiuto, morte».

Proseguendo nel suo vasto affresco biblico, «Stefano si riferisce quindi a Giosuè, a Davide e a Salomone, messi in rapporto con la costruzione del tempio di Gerusalemme». E conclude citando Isaia (66,1-2): «Il cielo è il mio trono e la terra sgabello dei miei piedi. Quale casa potrete costruirmi, dice il Signore, e quale sarà il luogo del mio riposo? Non è forse la mia mano che ha creato tutte queste cose?» (At 7,49-50). Stefano ci offre dunque una grande «meditazione sull'agire di Dio nella storia della salvezza, evidenziando la perenne tentazione di rifiutare Dio e la sua azione», che culmina nel rifiuto di Gesù Cristo.

Quanto all'accusa specifica che gli è rivolta, Stefano indica che «Gesù è il "luogo" del vero culto». Il primo martire «non nega l'importanza del tempio per un certo tempo, ma sottolinea che "Dio non abita in costruzioni fatte da mano d'uomo" (At 7,48). Il nuovo vero tempio in cui Dio abita è il suo Figlio, che ha assunto la carne umana, è l'umanità di Cristo, il Risorto che raccoglie i popoli e li unisce nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue».

Anche qui il discorso di Stefano lo rivela capace di competere con i suoi accusatori sul piano della teologia e della cultura biblica. Del resto, «l'espressione circa il tempio "non costruito da mani d'uomo", si trova anche nella teologia di san Paolo e della Lettera agli Ebrei: il corpo di Gesù, che Egli ha assunto per offrire se stesso come vittima sacrificale per espiare i peccati, è il nuovo tempio di Dio, il luogo della presenza del Dio vivente; in Lui Dio e uomo, Dio e il mondo sono realmente in contatto». E vi è anche un profondo messaggio spirituale: «Gesù prende su di sé tutto il peccato dell'umanità per portarlo nell'amore di Dio e per "bruciarlo" in questo amore. Accostarsi alla Croce, entrare in comunione con Cristo, vuol dire entrare in questa trasformazione. E questo è entrare in contatto con Dio, entrare nel vero tempio».

A questo punto gli accusatori decidono che non vogliono più stare a sentire Stefano – rischierebbero di non sapere che cosa rispondere – e lo lapidano: «ma proprio il suo martirio è il compimento della sua vita e del suo messaggio: egli diventa una cosa sola con Cristo. Così la sua meditazione sull'agire di Dio nella storia, sulla Parola divina che in Gesù ha trovato il suo pieno compimento, diventa una partecipazione alla stessa preghiera della Croce». Prima di morire Stefano esclama: «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (At 7,59), ripetendo le parole del Salmo 31 (v. 6) e anche dell'ultima espressione di Gesù sul Calvario: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Quindi, anche qui imitando Gesù, a proposito dei suoi carnefici prega: «Signore, non imputare loro questo peccato» (At 7,60). «Notiamo – però – che, se da un lato la preghiera di Stefano riprende quella di Gesù, diverso è il destinatario, perché l'invocazione è rivolta allo stesso Signore, cioè a Gesù che egli contempla glorificato alla destra del Padre»: «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio» (v. 55).

Che cosa dice a noi santo Stefano? E «da dove questo primo martire cristiano ha tratto la forza per affrontare i suoi persecutori e giungere fino al dono di se stesso?». La risposta «è semplice: dal suo rapporto con Dio, dalla sua comunione con Cristo, dalla meditazione sulla storia della salvezza, dal vedere l'agire di Dio, che in Gesù Cristo è giunto al vertice». Così, «anche la nostra preghiera dev'essere nutrita dall'ascolto della Parola di Dio, nella comunione con Gesù e la sua Chiesa».

Ma è possibile anche una risposta più complessa: «santo Stefano vede preannunciata, nella storia del rapporto di amore tra Dio e l'uomo, la figura e la missione di Gesù». Gesù è il nuovo tempio «non fatto da mano d'uomo» in cui «la presenza di Dio Padre si è fatta così vicina da entrare nella nostra carne umana per portarci a Dio, per aprirci le porte del Cielo». Anche la nostra preghiera, allora, «deve essere contemplazione di Gesù alla destra di Dio, di Gesù come Signore della nostra, della mia esistenza quotidiana. In Lui, sotto la guida dello Spirito Santo, possiamo anche noi rivolgerci a Dio, prendere contatto reale con Dio con la fiducia e l'abbandono dei figli che si rivolgono ad un Padre che li ama in modo infinito».