Tra brainwashing e libera scelta.

Per una lettura psicologica dell’affiliazione ai Nuovi Movimenti Religiosi.

Mario Aletti e Claudia Alberico

Pubblichiamo un intervento sul dibattito in tema di lavaggio del cervello del professor Mario Aletti, presidente della Società Italiana di Psicologia della Religione, e della dottoressa Claudia Alberico, tratto dal volume "Ricerca di sé e trascendenza" (a cura di Mario Aletti e Germano Rossi, Centro Scientifico Editore, Torino 1999). Ringraziamo gli autori e l'editore per la gentile concessione. Le opinioni e le ricostruzioni esposte nell'articolo sono quelle degli autori e non si identificano necessariamente con quelle del CESNUR, che riproduce questo testo come importante contributo a un dibattito in corso.

 

When a society would turn its eyes away from

the deepest questions of responsability,

brainwashing becomes an explanation that

avoids the responsability of looking inward.

(A. Scheflin e E. Opton)

[Abstract] Brainwashing vs choice, or is some other option possible? New directions in studying the affiliation to new religious movements

The debate on brainwashing has recently become more acute, with particular attention to reference to new religious movements. This discussion, which has been emphasized by the media, especially on the occasion of serious accounts of collective homicide/suicide, is of social, legal and political interest (even involving the European Parliament). In the fields of both psychiatry and psychology, the concept of brainwashing is almost unanimously held to be inconsistent (see documents of the American Psychological Association) but this does not exclude the existence of forms of maltreatment and the abuse of credulousness or of the state of weakness: they are phenomena which are part of criminal acts, dealt with by common law. In a psycho-dynamic reading of cases of "coercive persuasion" the accent is put, rather than on the endless amount of the techniques of persuasion, on susceptibility to dependence and manipulation and on the difficulty to build "liberating ties" of "transitional" gender. On the other hand, the psychological valve of belonging (not only belonging to sects but to all religions) could be recognized as the production of autonomy developed in a person, helping the individual to acquire the "capacity to be alone".

1. Storia di una metafora

La metafora del brainwashing (lavaggio del cervello) nasce in ambito giornalistico, a partire dagli anni Cinquanta. E mentre, alla sua origine, dal cinese hsi nao, "purificare la mente", indicava un processo verso un netto miglioramento funzionale, in occidente il concetto fu assunto nell’accezione assolutamente negativa di "lavare il cervello" per "riprogrammare" le persone (cfr. Usai, 1996, pp. 23-28). Il termine fu divulgato dal giornalista americano Edward Hunter, che lavorava per la C.I.A. e, dopo aver scritto alcuni articoli nel 1950, pubblicò, nel 1951, il libro Brainwashing in red China, sui metodi di "rieducazione" utilizzati nelle prigioni dei comunisti cinesi nei confronti dei prigionieri americani di guerra, dei missionari cristiani e dei nazionalisti di Chang Kai Chek. Il termine indicava un insieme di tecniche di "persuasione coercitiva" (la Coercive persuasion, elaborata concettualmente da Schein, Schneier e Barker, 1961) che si pensava fossero all’origine del rinnegamento dei valori della democrazia e dell’antinazionalismo dichiarati da alcuni militari americani prigionieri, così come dell’apostasia di un certo numero di pastori e sacerdoti, che erano stati ampiamente divulgati dalla propaganda cinese. Questa "modifica del pensiero" (thought reform) secondo la nuova formulazione del modello proposta da Lifton (1961) in uno studio, condotto sui prigionieri di guerra coreani, circa le caratteristiche psicologiche del "totalitarismo ideologico", doveva dar ragione dell’inatteso cambiamento di credenze e comportamenti adottati da persone che normalmente non li avrebbero accettati.

Tra le caratteristiche del brainwashing, o delle tecniche di persuasione coercitiva - i termini sono pressoché sovrapponibili nella letteratura - comunemente descritte (Bromley e Richardson, 1983; Lifton, 1961; Robbins e Antony, 1979, 1980; Somit, 1968) si riscontrano: isolamento e dipendenza totale da un’autorità di controllo; debilitazione fisica, ottenuta anche con deprivazione di cibo e di sonno; induzione di senso di colpa, vergogna ed umiliazione; contestazione del precedente sistema di valori, credenze, comportamenti, fino alla loro totale messa in questione o condanna; proposta insistente e conclamata di un insieme strutturato di nuovi valori e comportamenti; promessa di un riscatto dalla situazione di costrizione immediatamente conseguente all’adesione al nuovo sistema; enfatizzazione di modelli esemplari di chi già ha compiuto il percorso di adesione.

 

2. Brainwashing e Nuovi Movimenti Religiosi

A partire dalla fine degli anni Settanta il termine brainwashing comincia ad essere usato come categoria esplicativa delle modalità di conversione, affiliazione, adesione e fedeltà ai Nuovi Movimenti Religiosi.

Si ipotizzava infatti che per aderire ad un movimento religioso alternativo e spesso in contrasto con la cultura dominante e con i canoni di comportamento socialmente accettati, un individuo dovesse essere privato o menomato della sua capacità critica e/o della libertà di scelta. Tale supposizione veniva avanzata nel momento in cui si constatava che soggetti, spesso giovani con brillante avvenire, o già avviati in una carriera professionale soddisfacente e, più in generale, persone appartenenti alla classe sociale medio-alta, abbandonavano studi ed occupazioni promettenti per affiliarsi ad un gruppo religioso. Se la causa non poteva ricercarsi nell’ignoranza o nell’arretratezza - come si era soliti fare per spiegare l’adesione ai movimenti religiosi popolari - l’ipotesi di un disturbo di funzionamento psichico, spontaneo od indotto, pareva a qualche studioso la più probabile. Soprattutto in ambito psichiatrico e in particolare nelle perizie per i tribunali, si ipotizzava che uno dei motivi della conversione-adesione fosse da ricercarsi o in tecniche sofisticate atte a manipolare e soggiogare la volontà di un individuo, o in una struttura psicologica particolarmente fragile, che lo rendeva facilmente influenzabile.

Oggi il fenomeno dei cosiddetti Nuovi Movimenti Religiosi è in espansione costante. Nel mondo sono stati censiti almeno 2.200 gruppi religiosi; si veda in proposito l’enciclopedica presentazione di Beit-Hallahmi (1993, 1997). Ampia è anche la letteratura sul tema, quasi esclusivamente in lingua inglese e prevalentemente riferita all’ambiente americano (cfr. Lippy, 1996) In Italia si contano 700-800 gruppi, per un totale di circa 100.000 adepti riconosciuti.

Quanto alla denominazione, si parla spesso di "sette" Questo termine viene usato come fosse intercambiabile con quello di Nuovi Movimenti Religiosi o di "culti emergenti" o semplicemente, "culti". In realtà i termini rimandano a concetti, schemi di riferimento e categorie (a volte anche etico-valutative) differenti. Ad esempio, il termine setta è spesso inteso a designare negativamente un movimento deviante; d’altra parte è anche vero che l’attributo di devianza è in relazione con i valori della maggioranza socio-culturale e questa varia da una società all’altra e da un’epoca all’altra. Tra gli studiosi italiani si tende oggi a preferire il termine Nuovi Movimenti Religiosi e ad usare meno quello di sette.

Come si è accennato, anche il concetto di brainwashing è, di per sé, tutt’altro che operazionale. La sua estensione ai nuovi culti lo rende ancor più confuso e nebuloso. Risulta infatti che nella quasi assoluta totalità dei processi di affiliazione ai nuovi movimenti religiosi sono da escludere la restrizione della libertà fisica degli adepti, le pene corporali e le deprivazioni alimentari, che erano piattaforma comune delle tecniche di brainwashing.

E tuttavia la convinzione di una forte persuasione coercitiva, da parte dei Nuovi Movimenti Religiosi, espresso nella metafora del brainwashing, ha trovato molta fortuna non solo nei mass-media, ma anche nelle pubblicazioni e nella pratica professionale di psicologi, sociologi e giuristi.

La letteratura in proposito appare vasta quanto disuguale per quel che riguarda la rilevanza scientifica e a volte prevenuta o animata da intenti polemici. Tipica in questo senso la produzione degli anti-cults movements, costituiti quasi sempre da associazioni di genitori di adepti, che cercano il recupero, spesso con tecniche di deprogramming e mezzi coercitivi della libertà individuale, non meno discutibili, dal punto di vista etico e psicologico, di quelli cui vorrebbero porre rimedio.

 

3. I suicidi di massa

L’interesse per il brainwashing come categoria interpretativa di comportamenti anomali degli appartenenti ai nuovi culti viene acceso, storicamente, da alcuni fatti eclatanti, che scuotono l’opinione pubblica, quali gli episodi di suicidi di massa.

Nel novembre del 1978 a Jonestown, in Guyana oltre 900 persone si suicidano insieme con il loro leader, il reverendo Jim Jones, bevendo veleno e così attuando quel destino apocalittico della comunità che Jones veniva da tempo annunciando. Di fronte al gesto estremo di togliersi la vita per seguire gli ideali proposti dal leader spirituale, era inevitabile che si facesse strada l’ipotesi di un obnubilamento, almeno parziale e/o temporale, delle capacità critiche e dello stesso libero arbitrio degli adepti. Dopo tale episodio si consolidò un atteggiamento di preoccupata attenzione verso il fenomeno delle nuove religiosità, non più solo per ragioni teologiche, da parte delle religioni tradizionali, ma anche, per la rilevanza insieme penale e sanitaria, da parte di giuristi e di psichiatri e psicologi periti dei tribunali, ed anche, per meri motivi di studio, da parte di sociologi e psicologi della religione, ovvero psicologi tout-court, interessati alle dinamiche che spingono e legano un individuo ad un gruppo-setta. Anche l’opinione pubblica ha cominciato ad accorgersi della presenza di questi numerosi gruppi e ad alimentare sentimenti di diffidenza ed ostilità, - Kilbourne e Richardson (1986) la considerano una nuova patologia, la Cultphobia - soprattutto dopo il verificarsi di altri episodi estremamente gravi, derivati da "idee che uccidono" (Introvigne, 1995).

Tra questi, la strage dei Branch Davidians a Waco, in Texas, nel 1993, dove morirono oltre 80 adepti, probabilmente suicidatisi prima dell’attacco decisivo sferrato dall’F.B.I. Un anno dopo Waco, si verificarono, quasi contemporaneamente in Svizzera e in Canada, i suicidi-omicidi di gruppo di 53 aderenti all’Ordine del Tempio Solare. Più recentemente, nel 1997, a San Diego, in California, 21 donne e 18 uomini, che facevano parte di un culto dei dischi volanti chiamato Heaven’s Gate (Porta del Paradiso) che si era molto divulgato attraverso Internet, si suicidarono nella convinzione che la cometa Hale-Bopp portasse con sé la fine del mondo: "è il segno che abbiamo atteso: il tempo per l’arrivo di un’astronave del Livello al di là dell’Umano, per portarci a casa nel loro mondo, letteralmente, nei Cieli" (dall’ultimo messaggio prima del suicidio sul sito heavensgate.com, citato in Introvigne, 1997c, p. 62).

Di fronte ad un gesto tanto radicale quanto il suicidio, gli interrogativi sono tanti e le risposte solo ipotetiche, in un ampio ventaglio di prospettive. Interessante pare la proposta di Enzo Pace (1997) che ravvisa nel sacrificio rituale una forma di purificazione, un modo di sfuggire a questo mondo che corrompe, per entrare in una dimensione migliore. L’apocalisse individuale sarebbe vista, secondo il sociologo, come unica soluzione all’apocalisse dell’ecosistema.

A seguito di tali gravissimi episodi, che sono però casi estremi e circoscritti, i Nuovi Movimenti Religiosi sono spesso fatti oggetto di preoccupata attenzione, quando non di ostilità aperta da parte dell’opinione pubblica ed anche dei Governi (In Italia, nell’aprile 1998, il Ministero degli Interni ha elaborato un Dossier che predispone interventi di controllo, basato sulla preoccupazione che il Giubileo di fine millennio possa indurre guru e leader a proporre ai loro adepti gesti violenti e/o suicidi di massa. Se ne faceva eco un articolo sul Corriere della Sera del 30 aprile 1998: "Allarme sulle sette per il Giubileo. Il Viminale: palcoscenico ideale per un gesto eclatante delle false chiese".

Sembra che molte paure nascano più da pregiudizi e da suggestioni che da pericoli reali: reazioni sproporzionate di panico, in cui confluiscono e si solidificano paure dalle origini più lontane e variegate. Come, in una prospettiva costruzionista, sostiene Philip Jenkis: "La reazione di panico non avviene a causa di una valutazione razionale della portata di una particolare minaccia, ma è il risultato di timori non ben definiti che finiscono per trovare un centro drammatico e semplificato in un particolare incidente o stereotipo, che quindi offre un simbolo visibile per la discussione e il dibattito" (Jenkis, 1996, p. 170)

 

4. Il dibattito all’interno dell’A.P.A.

Il modello del "lavaggio del cervello" è ormai screditato come categoria esplicativa nel mondo accademico. L’obiezione più comune che, a monte di ogni discussione, inficerebbe la sua applicabilità ai nuovi culti, viene vista nella diversità di fondo dalle tecniche usate in Cina, essendo assenti nei processi di affiliazione, l’uso della violenza, della restrizione della libertà e delle deprivazioni fisiche.

Nell’ambito dei professionisti raccolti nell’American Psychological Association (A.P.A.), nell’American Psychiatric Association e nell’American Sociological Association il dibattito è stato molto acceso; ma oggi la tendenza generale è quella di abbandonare la categoria del brainwashing come non sufficientemente esplicativa ed anzi confusiva.

Tra coloro che sostengono l’esistenza del brainwashing, anche se con sfumature diverse e toni più o meno aggressivi, troviamo autori come Margaret Singer (1995; Singer e Ofshe, 1990), Richard Ofshe (Ofshe e Singer, 1986) e Richard Delgado (1977). Sul fronte opposto, tra gli autori che non accettano il modello del brainwashing e ne contestano le atrocity tales, alcuni si collocano su posizioni polemiche che sembrano creare un contro-mito e a volte arrivano a dipingere i Nuovi Movimenti Religiosi come le uniche oasi di pace, di serenità, di piena realizzazione dell’uomo. Altri invece presentano i risultati di studi e ricerche sull’argomento, in qualche caso svolte in posizione di osservatore partecipante. Tra questi spiccano i nomi di studiosi come Eileen Barker (1982, 1984, 1989), Marc Galanter (1982, 1989a, 1989b), Gordon Melton (Melton e Moore, 1982) James Richardson (1980, 1995). Un argomento decisivo e preliminare contro la tesi della coercitività del proselitismo dei Movimenti viene dalle ricerche della Barker e di Galanter che hanno dimostrato come il turn over degli adepti sia molto veloce e come solo una piccola percentuale di iniziandi, sottoposti a Seminari o conferenze di presentazione, decidano di affiliarsi.

Di grande rilievo per la questione del brainwashing, si è rivelato il dibattito accesosi all’interno dell’A.P.A., con ampie polemiche e con il sovrapporsi di documenti spesso contrastanti tra loro, intorno al "caso Molko", nel 1986-87. Considerando che le argomentazioni portate in quell’occasione sono di rilevanza decisiva e che, tuttavia, il caso è poco conosciuto anche nella letteratura specialistica e i documenti interni dell’A.P.A. sono tuttora scarsamente divulgati e quasi ignorati, ci soffermeremo per qualche sottolineatura.

Nel processo Molko versus Holy Spirit Association for the Unification of World Christianity, la Corte Suprema della California valutava la possibilità di incriminare per delitto civile l’organizzazione religiosa (più nota come la Chiesa dell’Unificazione) che era stata accusata da David Molko, sostenuto anche da altri ex-seguaci, di manipolare sistematicamente gli adepti in modo tale da privarli della loro libertà di scelta nell’adesione alla Chiesa. Gli ex-adepti accusavano il gruppo di utilizzare una "persuasione coercitiva", senza maltrattamenti fisici, che aveva provocato in loro danni psichici di cui chiedevano il risarcimento. In particolar modo le tre accuse lanciate dai querelanti erano di False imprisonment (segregazione non consensuale di un individuo da parte di una persona che non ricopriva nessuna carica pubblica, per un periodo di tempo indefinito), Fraud (non erano chiari gli scopi dell’organizzazione), Intentional infliction of emotional distress (pressioni a livello emotivo e induzione di sensi di colpa). All’inizio del processo il Tribunale non ritenne queste accuse sufficienti per incriminare i dirigenti e i responsabili della Chiesa. I querelanti si appellarono alla perizia dello psichiatra Samuel Benson e della psicologa Margaret Singer.

La Singer (Università di Berkeley, California) era stata incaricata, già nell’autunno del 1983, di dirigere una task force interna all’American Psychological Association, il Deceptive and Indirect Methods of Persuasion and Control (DIMPAC) il cui compito era quello di descrivere le tecniche di controllo e di persuasione che possono limitare la libertà di un individuo, di raccogliere i dati disponibili sull’argomento, esaminare le implicazioni etiche, educative e sociali del problema e presentare un rapporto al Board of Social and Ethical Responsabilty for Psychology (BSERP) dell’A.P.A. All’epoca del processo Molko il rapporto non era ancora stato completato.

Nel frattempo, un gruppo di studiosi dell’A.P.A. esperti conoscitori dei nuovi culti, tra cui Eilen Barker, David Bromley, Benton Johnson, Newton Malony, Gordon Melton, Donald Miller, James Richardson e Thomas Robbins, intervenne con una iniziativa collettiva, ma di tipo privatistico, sul caso Molko, inviando un pro-memoria (Brief) alla Corte Suprema, qualificandosi come Amicus Curiae of A.P.A. (1987). Nel documento gli esperti analizzano gli standard scientifici per l’ammissibilità delle testimonianze dei periti e dimostrano l’inaccettabilità di diritto e la non accettazione di fatto della teoria del brainwashing da parte della comunità scientifica.

Per limitarci alla questione interna all’A.P.A. possiamo affermare che la teoria del brainwashing è stata rifiutata. Nel suo Memorandum ufficiale il BSERP dell’A.P.A. sosteneva che il documento redatto per il DIMPAC dalla Singer, "manca di rigore scientifico e accostamento critico equilibrato e le ipotesi di persuasione coercitiva praticata da sette religiose non sono abbastanza individuate per essere ammesse come prova in corti di giustizia federali" e, in conclusione, che il concetto di brainwashing "non è un concetto teoretico riconosciuto; è piuttosto una spiegazione sensazionalistica" (A.P.A., 1987, Memorandum)

È stato osservato che la presa di posizione del Memorandum, in realtà non chiude definitivamente la questione poiché essa era finalizzata ad una valutazione scientifico-critica del testo prodotto dalla task-force diretta dalla Singer. Ma, data l’ampiezza del dibattito interno e delle argomentazioni raccolte sia dai fautori sia dai critici del modello del brainwashing, il pronunciamento del Memorandum sembra contenere un rifiuto del modello nel suo insieme, in quanto non rispondente agli standard generali di scientificità e non in grado di definire un fenomeno osservabile empiricamente, in maniera rispondente ai criteri di attendibilità e di validità.

 

5. Per una rilettura psicologica

Superato il modello del brainwashing, la spiegazione del fenomeno dell’adesione ai nuovi culti si è maggiormente incentrata sulle caratteristiche soggettive degli individui. Molti studi su adepti ed ex-adepti hanno avanzato l’ipotesi che chi aderisce ad una setta abbia una certa "predisposizione all’adesione" che sarebbe ravvisabile nei rapporti interpersonali vissuti ancor prima dell’incontro con un gruppo religioso. In particolare si è visto come molti adepti provenissero da famiglie a struttura rigida, dove le tensioni rifluivano verso l’interno e presentassero una personalità segnata da disagi psichici, in particolare con difficoltà di socializzazione, di equilibrio emotivo e relazionale, di orientamento esistenziale.

In una direzione più positiva e simpatetica, l’adesione è invece stata vista come una scelta libera e matura, che risponde a rinnovati bisogni di spiritualità e di condivisione fraterna e che, nell’insieme, costituisce un fattore di crescita della persona.

Quanto poi alle tecniche di induzione dall’esterno, è stato fatto osservare, non senza una punta di ironia, che una certa persuasione coercitiva è presente, a livello più o meno intenso, in moltissime esperienze di vita (Hood, Spilka, Hunsberger e Gorsuch, 1996, p. 326). Certo si va dal livello altissimo dei prigionieri di guerra, al livello intermedio della disciplina militare, (ma - aggiungiamo noi - anche di tutte le istituzioni totali, comprese … tante forme di comunità religiose), ai livelli minimi, come l’imposizione ad un ragazzino riluttante di partecipare ad un campo estivo.

Queste considerazioni sull’interazione continua tra i livelli di libertà di scelta del soggetto e il ventaglio delle molteplici induzioni dell’ambiente, ci introducono a qualche riflessione conclusiva.

Le diverse spiegazioni psicologiche dell’adesione e affiliazione ai Nuovi Movimenti Religiosi sembrano riconducibili, fondamentalmente, a due paradigmi diversi, che non sembrano immuni da precomprensioni sociali ed etiche, fondamentalmente ideologiche e pre-scientifiche. Tali paradigmi sembrano polarizzarsi sull’asse passività-attività (Di Fiorino, 1992; Richardson, 1985).

Il paradigma della passività tende a vedere chi aderisce ai Nuovi Movimenti Religiosi come vittima di induzione, di manipolazione, di persuasione coercitiva, oppure di ignoranza o anche di psicosi collettiva, con una più o meno accentuata psichiatrizzazione del problema (Di Fiorino, Ermentini, Parlavecchio e Saviotti, 1990). Tra le interpretazioni orientate a questo polo, la più elaborata ed articolata è la lettura psico-sociale proposta da Galanter (1989a, 1989b) che si rifà alla teoria dei sistemi. Secondo Galanter, un gruppo religioso è pensabile come un sistema integrato, caratterizzato da trasformazione, controllo, retroazione e controllo di confine. Per quel che riguarda la "trasformazione", Galanter paragona il gruppo religioso ad una fabbrica, il cui prodotto finale è l’adepto e la cui materia prima è il potenziale adepto. La trasformazione funziona mediante il proselitismo, conversione al movimento e la disgregazione dell’identità e della stabilità psicologica precedente. La "funzione di controllo" consiste nel verificare che tutte le attività all’interno del sistema siano correttamente eseguite e coordinate tra loro. Del personale dirigente è designato a svolgere tale compito di controllo. Il controllo sugli adepti si ottiene facilmente grazie al meccanismo di identificazione della recluta col gruppo e all’attenta repressione dell’autonomia. La "retroazione" è "un modo con cui il sistema ottiene informazioni su come esegue il suo compito primario. Una parte della produzione viene reimmessa nel sistema e questo fornisce informazioni per progettare l’attività futura" (Galanter, 1989a/1993, p. 167). Tutte e tre le funzioni sopra presentate potrebbero essere ostacolate o danneggiate da intrusioni dall’esterno. Il "controllo di confine" salvaguarda il movimento da questo rischio, filtrando tutte le informazioni e controllando le persone potenzialmente pericolose. Questa ultima funzione sviluppa spesso negli adepti una vera e propria paura degli estranei (xenofobia) che può diventare paranoica. Il controllo di confine è peraltro rafforzato dalle reazioni della società circostante e dagli atteggiamenti anti-sette, che approfondiscono ulteriormente il solco e la differenza tra l’interno e l’esterno.

Il paradigma della attività enfatizza la figura del religious seeker, un soggetto che ricerca, nei Nuovi Movimenti Religiosi, risposte gratificanti, spesso non disponibili presso le chiese tradizionali, ai propri bisogni: di identità, di ruolo, di appartenenza, di relazione, di significato, di certezze, di guida, di soprannaturale (cfr. Fizzotti, 1994, pp. 69-77; Pinkus, 1994) che spesso non sono tipicamente od esclusivamente e nemmeno primariamente religiosi, al pari delle risposte cercate; così che si è potuto parlare, a proposito del clima in cui si collocano le nuove religioni, di un diffuso "sincretismo psico-religioso" (Aletti, 1994, p. 17)

Tra queste interpretazioni, si evidenziano quelle proposte da diversi autori che si rifanno alla Role Theory. La "teoria dei ruoli" mira a spiegare il comportamento individuale attraverso un’analisi delle condizioni sociali. Secondo Bromley, il soggetto sente il bisogno di assumere un ruolo in un gruppo religioso e solo secondariamente l’adesione alle credenze e la coesione al gruppo si rinsalderebbero gradualmente, in funzione dell’appagamento di questo bisogno (Bromley, 1988; Bromley e Shupe, 1979; Bromley e Breschel, 1992). Per altri l’uomo gioca positivamente la sua possibilità di sperimentare sempre nuovi ruoli sociali attraversando l’esperienza di adesione al gruppo religioso come momento di crescita e di continuità nell’identità personale (e non già di rottura) attraverso la conversione, o anche conversioni plurime e successive (Richardson, 1995; Kilbourne e Richardson, 1985; Richardson e Kilbourne, 1983).

Un modello "intermedio" tra accettazione passiva e ricerca attiva, che tiene conto del campo interazionale tra le induzioni dall’esterno e le posizioni interne del soggetto. può essere tratto dall’ambito della psicoanalisi relazionale, rifacendosi al costrutto dei fenomeni transizionali, elaborato da Winnicott. Esso pare in grado di fornire una valutazione psicologica, lungo la linea della crescita dell’autonomia e della maturazione della persona, sulle specifiche ed individuali modalità di conversione, adesione e coesione ai gruppi religiosi di ciascun soggetto, in funzione della sua storia relazionale.

Il modello è ben noto e la fecondità di una sua applicazione alla religiosità individuale è già stata presentata altrove (Aletti, 1998) ed anche in questo stesso volume, con riferimento alle caratteristiche di una religiosità che sia in grado di "allacciare legami e sciogliere nodi" (cfr. in questo stesso volume, pp. 33-44. Certamente, essendo incentrato sul funzionamento psichico della religiosità individuale, e non sui contenuti religiosi, il modello può essere adeguatamente applicato all’incontro che un soggetto può realizzare con diverse modalità concrete e storiche di religione: da quelle tradizionali, ai Nuovi Movimenti Religiosi, ed anche a singole credenze o pratiche all’interno delle religioni.

Esso permette di cogliere la vitalità psicologica dell’esperienza vissuta all’interno del gruppo religioso e il suo potenziale trasformativo per la personalità. Allo stesso tempo può individuare modalità perverse di strutturazione ed evoluzione della medesima esperienza. Quando, ad esempio, l’appartenza diventa gregarismo e dipendenza; la fiducia nel leader degenera in ipocritica; la creatività personale, la fantasia e il gioco sono mortificate in stereotipia e ripetitività; il simbolismo decade in feticismo, il rito in rituale esoterico per iniziati; la solidarietà e coesione interna si cristallizzano in chiusura e distacco dall’esterno, paura del mondo ed impossibilità a crescere.

Lungo il compito, ineludibile, della maturazione personale nell’autonomia della propria realizzazione, il gruppo religioso è uno strumento, non un fine. Questa funzione strumentale dell’appartenenza religiosa vale tanto per chi non crede, quanto per chi crede che il fine ultimo della sua vita sia la costruzione di una positiva relazione con Dio. Il gruppo religioso, mentre stabilisce legami, deve anche essere in grado di liberare l’uomo dai nodi che possono a volte essere costituiti dalle stesse forme istituzionali. Per Winnicott una educazione religiosa liberante deve essere tale da permettere che ci si possa anche allontanare dalla religione stessa (Winnicott, 1968, p. 148).

Quando il legame e la dipendenza con la "madre", l’ambiente facilitante, o la "casa" diventa incapacità di sentirsi bene con se stessi (capacità di essere soli, cfr. Winnicott, 1958) senza la costante presenza e sostegno di persone, regole, credenze, rituali, allora l’appartenenza ad un culto, o ad una religione, qualunque essa sia, fallisce il suo compito nei confronti del soggetto. Le religioni che, anziché costituire dei "legami liberanti" come una madre sufficientemente buona, tendono a fagocitare il soggetto, a non lasciarlo andare nella direzione della ricerca, della creatività, dell’autorealizzazione, che facciano uso o meno di tecniche orientate ad una persuasione coercitiva, sono comunque patogenetiche.

 

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Mario Aletti e Germano Rossi (a cura di), Ricerca di sé e trascendenza, Centro Scientifico Editore, Torino 1999

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Indice della Parte IV

- PierLuigi Zoccatelli, "Percorsi dell’identità religiosa. Un fenomeno in transizione: dal New Age al Next Age", pp. 237-242

- Mario Aletti e Claudia Alberico, "Tra brainwashing e libera scelta. Per una lettura psicologica della filiazione ai Nuovi Movimenti Religiosi", pp. 243-252

- Valentina Gagliardi, "Damanhur: alla ricerca di una nuova identità", pp. 253-262

- Laura De Colle, "Sai Baba e il metodo educativo ai valori umani", pp. 263-271

- Federico Squarcini, "Disagi e riforme in un movimento neo-orientale. Tra ricordi, identità e stile di pensiero", pp.273-286

- Gianni F. Trapletti, "I corsi per dischiudere la coscienza alla ‘Via interiore’ di Vita Universale", pp. 287-292


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Revised last: 25-11-1999