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Harvey Cox alla scoperta dell’ebraismo

Massimo Introvigne

Un po’ come il Beaujolais – il paragone non sembri irriverente – le Harvey Cox nouveau arriva di solito a intervalli determinati, sempre atteso con impazienza da chiunque si interessi alla teologia, alla storia delle religioni e alle scienze religiose in genere. Anche i sociologi della religione, benché talora criticati dal teologo americano, hanno molto da imparare dalle sue riflessioni. Se nel 1995 con Fire From Heaven. The Rise of Pentecostal Spirituality and The Reshaping of Religion in The Twenty-First Century (Addison-Wesley, Reading) Cox aveva assestato un duro colpo alle teorie della secolarizzazione cui, in altra stagione, aveva portato il suo contributo, Common Prayers. Faith, Family and a Christian Journey through the Jewish Year, datato 2001 da Houghton Mifflin e ora disponibile in paperback inglese, nonché in edizione italiana (Le feste degli ebrei, Mondadori, Milano 2003) – ha un tono più intimo e muove da una riflessione autobiografica.

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Cox ha sposato in seconde nozze la collega Nina Tumarkin, ebrea, e ha deciso prima del matrimonio di allevare eventuali figli – che, in quanto di madre ebrea, sarebbero stati considerati ebrei dalla loro tradizione – nella religione materna. Il figlio nato da questo matrimonio, Nicholas Cox, è ora arrivato al Bar Mitzvah. Il teologo battista americano presenta l’ebraismo come una religione dell’ortoprassi e del rituale, e ripercorre in quindici capitoli (più uno finale) le principali feste del calendario ebraico, tanto quelle del ciclo annuale quanto le cerimonie legate a ricorrenze come il matrimonio, il funerale, il Bar Mitzvah. Ritenere il libro un semplice studio di feste e rituali mancherebbe di coglierne il punto essenziale, secondo cui le feste e i rituali sono l’ebraismo. Così, raccontando a tinte piuttosto vivaci le esperienze del suo “matrimonio misto” (Cox è rimasto il marito e padre protestante di una moglie e di un figlio ebrei, prendendo posto in un ideale “Cortile dei Gentili” adiacente, ma non interno, al Tempio ebraico), il teologo ci offre in realtà una presentazione completa dell’ebraismo contemporaneo, almeno nella versione piuttosto liberal – certamente più accogliente di altre nei confronti di matrimoni misti – con cui la sua famiglia si è tenuta in contatto.

coxCon l’occasione, Cox ripresenta idee politiche e culturali non sempre condivisibili (il lettore cattolico apprezzerà la sua stima per Giovanni Paolo II, ma si chiederà se non sia vittima dei pregiudizi di un certo ambiente ebraico americano nei confronti di Pio XII), ma comunque provocatorie e interessanti. Ha cura, peraltro, di non presentare il suo matrimonio misto, che sembra funzionare ottimamente, come un idealtipo weberiano: i matrimoni misti, insiste più volte, non sono per tutti, e non c’è nessuna garanzia che un’esperienza maturata fra colleghi della tollerante Università di Harvard possa essere ripetuta, con esito ugualmente felice, sotto altri cieli.

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