CESNUR - center for studies on new religions

Enciclopedia delle religioni in Italia

di Carmine Napolitano (Fedeltà, anno 26, n. 271, ottobre dicembre 2001, pp. 216-218)

Dodici anni di lavoro; oltre 600 schede relative ad altrettante realtà religiose presenti in Italia e raggruppate in 38 aree; il tutto racchiuso in oltre mille pagine. Solo a vederlo il bel tomo che contiene la ricerca del CESNUR dà subito l’idea di qualcosa che mancava, ma ora c’è. Con i suoi dati questa Enciclopedia si presenta come un formidabile strumento di informazione e di formazione. Se “avventura” è stata (come affermano gli autori nella premessa all’introduzione) deve essere stata una bella avventura, un viaggio attraverso il pianeta religioso italiano che ha consentito di fotografare una realtà quasi sconosciuta quando non misconosciuta. Un’avventura, tra l’altro, vissuta da un gruppo di ricerca di prim’ordine: il prof. Massimo Introvigne, riconosciuta autorità in materia di sociologia della religione, i suoi valenti collaboratori – dott. Zoccatelli e dott.ssa Roldàn – e la dott.ssa Ippolito la cui competenza è garantita dal suo ruolo istituzionale presso il Ministero dell’Interno.
I rischi di un’opera enciclopedica sono noti e perciò sarebbe superfluo rimarcarli; d’altra parte, come tutte le opere prime, anche questa è perfettibile e gli stessi autori si dichiarano disponibili ad accogliere tutti i suggerimenti utili a migliorare il quadro offerto nelle future riedizioni. Piuttosto mi sembra il caso di sottolineare i pregi di un’opera come questa che, considerando la generale scarsezza di informazione sulle questioni religiose nel nostro paese e la discutibile qualità di quella che viene data, non mi sembrano pochi né irrilevanti; a cominciare dalla metodologia della ricerca che tiene conto dei più recenti mutamenti nel campo degli studi di sociologia della religione. L’abbandono di alcuni schemi classici ed una maggiore attenzione alla dinamica storica del fenomeno religioso mi sembrano gli elementi più significativi. È noto, infatti, che gli studi in materia si sono mossi (e spesso ancora si muovono) prendendo le mosse dalla ormai del tutto insufficiente tripartizione troeltschiana in tipo-chiesa, tipo-setta, tipo-mistico; dove risulta più che evidente il pregiudizio teologico che guida la classificazione e che a Troeltsch derivava dalla sedimentazione storica e culturale dell’avversione sviluppatasi nel protestantesimo storico nei confronti dei movimenti religiosi popolari. Del tutto condivisibile, quindi, la scelta degli autori di bandire un termine come “setta” ormai talmente carico di significato negativo che nel linguaggio religioso può essere usato solo per offendere e squalificare; infatti, non sono pochi gli studiosi dei fenomeni religiosi e gli operatori dell’informazione che lo usano con questa premeditazione. Troppo spesso si dimentica che chi fa ricerca deve sforzarsi di offrire il maggior numero possibile di elementi al lettore per la formulazione di un giudizio autonomo; invece gli elementi trovati vengono colorati con giudizi di valore che non competono al ricercatore nell’esercizio delle sue funzioni. Per chi fa ricerca l’unico giudizio possibile è quello teso a distinguere, non di attribuire qualifiche. Nessuno ha il diritto di definire, qualificare e classificare altri.
Sulla base di tali convinzioni l’Enciclopedia ha tentato di offrire un quadro più che delinearlo operando nell’unico modo serio possibile: riportando sostanzialmente quanto i diretti interessati pensano di dover dire di se stessi. A mia memoria è la prima volta che accade e credo che questo sia un fatto da salutare con interesse ed apprezzamento. In qualche caso i dati dell’Enciclopedia potranno essere incompleti o anche errati; fa parte dei rischi di un’opera di questo tipo, ma non sono mai frutto di malafede. È una metodologia che ha trovato ampio spazio negli ambienti ecumenici e che potrebbe anche diventare universale; si faciliterebbe la comunicazione di ciò che si è e la comprensione di ciò che sono gli altri. Il panorama che viene fuori da questa indagine è, ovviamente, interpretabile in modi diversi; chi volesse badare solo ai rapporti statistici ne dedurrebbe che tutto sommato il fenomeno della diversità religiosa in Italia è del tutto marginale attestandosi intorno al 3,5% della popolazione (e comunque ben al di sopra di quell’1% a cui si è voluto da molto tempo agganciare la soglia della diversità religiosa in termini numerici). È chiaro che sul piano dell’identità vera e propria questa è una percentuale che dice e non dice; d’altronde non è facile quantificare con criteri statistici quella dimensione interiore che comunemente è definita “fede religiosa”. Si può solo prendere atto di quanto viene dichiarato, ma non si può certo misurare il grado di adesione interiore alle confessioni di fede delle chiese o l’intensità del sentimento di appartenenza. Tali aspetti sono comunque sottolineati abbondantemente nell’introduzione all’opera.
Un altro aspetto che pure mi sembra di notevole interesse è la cronologia della crescita del fenomeno; in fin dei conti prima della seconda guerra mondiale la diversità religiosa in Italia era dovuta al protestantesimo, all’ebraismo e a poche altre forme di spiritualità non cattolica per un’incidenza forse addirittura minore dell’1%. È a partire dagli anni Cinquanta che il fenomeno sembra avere una crescita graduale, ma costante; e che questo coincida con l’instaurazione della repubblica e dei governi democratici è anch’esso un fatto evidente. D’altra parte, non si deve dimenticare che in Italia le minoranze religiose hanno sempre avuto vita difficile anche dopo il varo della Costituzione e solo negli ultimi due decenni si sono fatti passi tali sul piano delle garanzie libertarie da permettere una diversificazione dei culti e delle fedi; a ciò bisogna aggiungere la spinta dell’immigrazione sempre più decisiva a partire almeno dagli anni Ottanta.
Una presentazione completa dell’opera è cosa impossibile e richiederebbe perizia in direzioni molto diverse, laddove dell’esistenza di alcune fedi religiose apprendo solo scorrendo le pagine del volume. Mi limito a sottolineare qualche aspetto a me più noto relativo al mondo protestante ed in particolare a quello pentecostale. Complessivamente i protestanti (in Italia più comunemente noti come ‘evangelici’) sarebbero 363.000 di cui 250.000 pentecostali; ad essi è dedicato un quarto del volume. È noto che la presenza protestante in Italia ha radici storiche molto antiche ed è diventata consistente con la fioritura delle chiese pentecostali; accade in Italia, quindi, quello che sta accadendo in tutto il mondo e cioè che il protestantesimo avanza in modo travolgente grazie alle giovani chiese pentecostali. D’altra parte, è l’intero cristianesimo che sta beneficiando della spiritualità pueumocarismatica; se, infatti, alle chiese pentecostali si aggiungono i movimenti carismatici cattolici si può avere un’idea, sul piano quantitativo, del ‘ritorno al sacro’ (come si dice forse un po’ impropriamente) che sta caratterizzando l’occidente. È proprio grazie alla grande ondata dei movimenti pentecostali che alcuni insigni interpreti dello spirito religioso del XX secolo, come Harvey Cox, sono stati indotti a fare marcia indietro sulla convinzione che la secolarizzazione nel giro di pochi decenni avrebbe ineluttabilmente scristianizzato l’occidente. Di tutto questo nell’opera è detto abbondantemente con schede puntuali su ogni gruppo o denominazione.
Una certa perplessità suscita la distinzione del protestantesimo in quattro fasi quasi che una sostituisca progressivamente l’altra; se l’intento è questo è difficile concordare. Tuttavia una certa plausibilità questa distinzione può averla se intende sottolineare la diversità di accenti e la sottolineatura di alcune verità (presunte tali dagli interessati) dimenticate dagli altri; si tratta, insomma, di una delle caratteristiche fondamentali della vitalità del protestantesimo che ha elevato la diversità a patrimonio e che nel corso dei secoli lo hanno visto continuamente rifiorire. Il che dovrebbe anche indurre alcuni analisti abituati a vedere il mondo in bianco e nero (e senza sfumature) ad abbandonare l’idea che il protestantesimo si divida solo in due tronconi: liberali e fondamentalisti (o evangelicali come si dice con termine di cattivo gusto); a dimostrare che le cose non stanno così sono proprio le chiese pentecostali le quali sicuramente rappresentano una terza via all’interno del protestantesimo (ammesso e non concesso che non ce ne siano altre). In questa prospettiva esprimo una mia personale soddisfazione nel vedere ormai definitivamente agganciato il pentecostalesimo al protestantesimo quando nel raggruppamento n. 9 si parla di ‘protestantesimo pentecostale’; non so quanti protestanti ‘storici’ saranno d’accordo con questo accostamento, ma le cose stanno proprio cosi; i pentecostali prima di essere tali in virtù della loro peculiare spiritualità sono evangelici e protestanti sia in relazione alla teologia che in relazione alla loro concezione della chiesa. Forse anche un bel po’ di pentecostali ignorano tale radice, ma ciò non cambia nulla.
Una domanda: perché viene impiegato il termine ‘pentecostalismo’? Da cattolico deriva cattolicesimo, da protestante protestantesimo; perciò da pentecostale deriva pentecostalesimo. Con il suffisso -ismo mi pare che si tenda a sottolineare più una posa che una posizione, ma non è il caso delle chiese pentecostali. Una certa perplessità nasce a proposito delle ‘quattro ondate’ pentecostali; e tuttavia può avere una sua ragion d’essere per via della magmaticità del pentecostalesimo che spesso conduce le chiese a riposizionamenti organizzativi e dottrinali (come dimostrano, ad esempio, le appartenenze trasversali) e rende molto difficile un inquadramento esauriente. Ciò può aver condotto a qualche svista. Ad esempio, la collocazione della Federazione delle Chiese Pentecostali nella ‘seconda ondata’; ma la Federazione è un organismo trasversale che accoglie diverse tradizioni pentecostali. Oppure la collocazione di alcune aree pentecostali in ‘ondatè diverse dalla prima senza sottolineare che si tratta solo di lifting perché le chiese che ne fanno parte sono tutte di tradizione ‘classica’. Ma questi sono dettagli facilmente migliorabili.
Il lettore non si lasci sfuggire l’occasione (con un piccolo investimento) di avere nella biblioteca personale un’opera verso la quale allungare con fiducia la mano ogni qualvolta un dubbio o una domanda dovesse farsi avanti circa la geografia religiosa del nostro Paese.

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