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Algeria: "L'Islam moderato non va escluso dalla vita politica"

di Massimo Introvigne (il Giornale, 13 aprile 2004)

imgIl risultato «bulgaro» a favore del presidente uscente Abdelaziz Bouteflika nelle elezioni algerine (dove peraltro il 41 per cento degli elettori non è andato a votare) solleva parecchi interrogativi su un paese molto importante per l’Italia. Un buon terzo degli extracomunitari indagati per reati connessi al terrorismo in Italia è infatti algerino, e diversi marocchini fanno parte di organizzazioni estremiste nate in Algeria. La situazione algerina si è incancrenita, dopo il successo del partito fondamentalista Fis (Fronte islamico di salvezza) nel primo turno delle elezioni nel dicembre 1991 e il successivo colpo di Stato dell’Esercito del gennaio 1992, ribattezzato dai generali «atto salvatore» perché avrebbe salvato il paese dal fondamentalismo. Contro la dittatura militare si è scatenata la guerriglia ultra-fondamentalista del Gia (Gruppo islamico armato) la cui guerra, più che decennale, contro il regime di Algeri ha fatto oltre centomila morti.
Nel 1997 lo sterminio di interi villaggi di musulmani innocenti – massacrati da frazioni del Gia all’insegna del «chi non è con noi è contro di noi» – porta uno dei principali dirigenti del movimento, Hasan Hattab, a denunciare le forme indiscriminate di violenza e a fondare un’organizzazione separata, il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc). Quest’ultimo – presente anche in Italia – è oggi la formazione più legata a Bin Laden, che del resto aveva condannato come controproducenti gli eccessi delle frazioni più brutali del Gia.
Con il sostegno francese, l’esercito algerino ha colpito duramente il Gia e il Gspc, che oggi appaiono sconfitti sul piano della guerriglia e si riorientano verso il terrorismo. Ma non tutti applaudono i successi militari. Negli stessi Stati Uniti voci molto vicine all’amministrazione Bush considerano qualunque sostegno all’attuale regime di Algeri insostenibile sotto il profilo sia dei diritti umani, sia di ogni ragionevole previsione per il futuro. Certo il Fis è duramente anti-americano, ma da Washington è difficile considerare democratiche elezioni che escludono un movimento accreditato, in caso di elezioni libere, di una probabile maggioranza relativa.
Bouteflika, peraltro, si è permesso qualche critica all’«atto salvatore» del gennaio 1992, e nel 2003 ha partecipato a un congresso promosso ad Algeri per rivalutare il pensiero di Malek Bennabi (1905-1973), un pensatore islamico conservatore che ha sicuramente collaborato con governi nazionalisti laici ma annoverava fra i suoi allievi anche i futuri fondatori del Fis.
Si afferma spesso che il paradosso algerino consiste nel fatto che se si tengono libere elezioni le vincono i fondamentalisti, mentre se si vuole evitare l’avvento di un regime fondamentalista occorre affidarsi a chi è in grado di impedire elezioni davvero libere con la forza. La formula è suggestiva, ma troppo facile, e al popolo algerino lascia semplicemente la scelta tra la repressione della polizia militare o il terrorismo dei fondamentalisti. Non è così: solo se, sulla scia delle caute aperture di Bouteflika, forze islamiche conservatrici ma non legate al terrorismo potranno essere reinserite nella vita politica si uscirà davvero dall’emergenza algerina, con vantaggi anche per quei paesi come l’Italia dove l’estremismo e il terrorismo algerini hanno basi forse ormai non solo logistiche.

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