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Resistenza del terrore

di Massimo Introvigne (il Giornale, 28 agosto 2004)

C'è un tempo per l'invettiva e un tempo per la politica. L'Italia ha il diritto alla prima e il dovere della seconda. Bene ha fatto il presidente Berlusconi a denunciare come barbarie l'assassinio di Enzo Baldoni. E malissimo hanno fatto quegli anti-imperialisti, pacifisti e anti-globalisti di tutti i colori che hanno intonato una squallida litania di se e di ma, distinguendo fra la “resistenza cattiva” legata ad Al Qaida che avrebbe ucciso Baldoni e la “resistenza buona” che sarebbe invece estranea alla barbarie dei tagliatori di teste. Niente affatto: decine di fatti e di documenti dimostrano che il terrorismo di Zarqawi e quello, spacciato per “resistenza”, dei nostalgici di Saddam Hussein sono due facce della stessa medaglia. Del resto, Zarqawi e Saddam Hussein avevano già cominciato a mettersi d'accordo molti mesi prima che cadesse il regime del raiss. Ed è evidente che i militanti di Al Qaida accorsi in Irak per pescare nel torbido non potrebbero muoversi in una paese che non conoscono se non avessero l'appoggio logistico, la complicità e la collaborazione di formazioni locali. Si tratta appunto della sedicente “resistenza” che ha invitato, alimentato, sostenuto il terrorismo di Al Qaida, e che oggi ne condivide le tremende e criminali responsabilità.
Ma non c'è contraddizione tra l'invettiva contro gli assassini e la prudenza politica con cui Berlusconi e Blair prima, Frattini poi hanno fatto sapere agli Stati Uniti che l'Italia e quella parte di Europa che è solidale con l'amministrazione americana pensano che la questione di Najaf vada risolta sul piano politico. Non si deve infatti confondere Muktada al-Sadr con Zarqawi e con i sunniti nostalgici di Saddam. Al-Sadr, come si dice nell'entourage di Sistani, è un giovane presuntuoso “molti anni e molti gradi lontano dalla carica di ayatollah”. È l'erede di un pensiero politico, quello di suo padre, che ha giustificato la teocrazia khomeinista in Iran. È un violento che non ha esitato a fare assassinare i suoi avversari politici. È probabile che sia anche un ladro, e che in queste ore gli si stia chiedendo conto della sparizione di pezzi importanti del cosiddetto tesoro della moschea di Najaf. Ma il ribelle al-Sadr non è un terrorista. Spara contro i militari - americani e irakeni -, non contro i civili. Non addestra kamikaze, non usa autobomba, non rapisce ostaggi e non taglia teste. Può darsi, naturalmente, che in futuro le cose cambiano e che certe amicizie pericolose - gli israeliani segnalano crescenti contatti con Hamas - inducano al-Sadr a diventare un terrorista. Per il momento non lo è ancora: è un ribelle e un bandito, e la cosa è diversa.
Nella situazione attuale dell'Irak con i terroristi non si può e non si deve trattare, con i ribelli - anche banditi e ladri - che hanno qualche migliaio di seguaci in armi si deve. Lo ha fatto, per ora con successo (si vedrà quanto duraturo), l'unico che poteva farlo, il grande ayatollah Sistani. Si sussurra che al Pentagono non tutti siano entusiasti per la conclusione pacifica della vicenda di Najaf, fortemente caldeggiata invece da Gran Bretagna e Italia. Qualche falco americano avrebbe preferito spazzare via al-Sadr a cannonate, creando però un pericoloso martire. Sistani, del resto, non è il commesso viaggiatore degli Stati Uniti. Aspira al ruolo di padre della nuova patria irakena e di grande pacificatore. Chissà se ce la farà, ma con i tempi che corrono l'Occidente fa bene a dargli una chance. Anche perché non ci sono molte alternative.

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