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È la Giordania il vero modello di Islam moderato

di Massimo Introvigne (il Giornale, 3 luglio 2004)

Persa fra le molte notizie che arrivano dal Medio Oriente, la disponibilità espressa dalla Giordania a inviare truppe in Irak non deve essere però sottovalutata. Contemporaneamente si sta negoziando un accordo trilaterale fra Giordania, Israele e Unione Europea che apre la strada a joint venture che permetteranno al capitale israeliano di finanziare il decollo dell’economia giordana.
Uno scambio politico-economico, già in corso da anni: la Giordania – al di là di qualche dichiarazione di facciata – sostiene di fatto la campagna occidentale contro il terrorismo e ha fornito un discreto appoggio logistico anche all’attacco a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti e Israele lavorano per la stabilità della monarchia giordana e la sostengono con aiuti economici.
L’appoggio alla pacificazione dell’Irak è un episodio o sta nascendo in Giordania una novità, in un futuro almeno remoto, applicabile anche alla Palestina? Il modello giordano è la chiave per la soluzione della questione palestinese? Potrebbe sembrare di sì, se si considera che da un punto di vista etnico, linguistico e culturale i giordani, abitanti di quella che gli inglesi chiamavano Transgiordania, hanno caratteristiche pressoché identiche ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza.
Inoltre, una percentuale sulla cui consistenza vi sono controversie, ma che è valutata intorno almeno al 30%, della popolazione giordana viene dai territori affidati all’Autorità Nazionale Palestinese, e a questi palestinesi, a differenza di tutti gli altri Stati arabi, la Giordania ha concesso la cittadinanza. Non vi sarebbe dunque nessuna ragione per cui la convivenza con Israele e con un Irak democratico che è accettabile per un palestinese cittadino giordano non debba essere accettata da un palestinese cittadino di una futura Palestina indipendente che comprenda Cisgiordania e Gaza.
In pratica, il problema è più complicato. In Giordania esiste una classe dirigente affidabile, credibile per la maggioranza della popolazione; in Palestina no. Non si può paragonare un raiss corrotto e considerato da gran parte del popolo delle moschee palestinese un miscredente come Arafat con un giovane re insieme ritenuto discendente del Profeta e popolare per i suoi atteggiamenti democratici e le sue riforme come Abdullah II di Giordania.
Inoltre, la cosiddetta “eccezione giordana” deriva dal fatto che la maggiore organizzazione del fondamentalismo internazionale, quella dei Fratelli Musulmani, ha deciso da vent’anni di abbandonare la violenza e inserirsi nella politica parlamentare, mentre in Palestina è successo il contrario e i locali Fratelli Musulmani sono alle origini di Hamas. Fino a quando da un conservatorismo religioso e da un fondamentalismo capace di rinunciare alla violenza non emergerà in Palestina una classe dirigente alternativa a quella impopolare e corrotta raccolta intorno ad Arafat il modello giordano non potrà essere imitato.
Ma è importante che il modello esista. Lo ha ben compreso il terrorismo internazionale, che ha cercato ripetutamente di colpire la Giordania. E anche il fondamentalismo più radicale, che organizza continue campagne contro la cosiddetta “normalizzazione” dei rapporti con Israele e l’Irak e le riforme di re Abdullah II.
Sostenere le riforme (certo chiedendo anche una maggiore trasparenza di un processo elettorale talora criticato) e l’apertura economica giordana dovrebbe dunque essere una priorità per l’Occidente e per l’Europa.

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