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Come disinnescare la minaccia islamica nel Kashmir

di Massimo Introvigne (il Giornale, 25 maggio 2004)

I ventisei morti di domenica in un attentato a un autobus militare indiano in Kashmir sono un segnale forte del terrorismo al nuovo primo ministro Manmohan Singh. Il tributo di sangue che il Kashmir ha pagato al terrorismo – sessantamila morti dal 1989 a oggi – è il più alto del mondo dopo quello algerino. In Kashmir si trovano almeno duemila militanti di Al Qaida – arabi, afghani e uzbeki – cui vanno sommati altri tremila terroristi locali.
Lasciando la penisola indiana, e dividendola nel 1947 fra un India indù e un Pakistan musulmano, gli inglesi persuadono – con le buone o con le cattive – i seicento regni semi-indipendenti che esistono nei confini dell’India britannica a cedere la loro sovranità o all’India o al Pakistan. Uno di questi regni, il Kashmir, è in maggioranza musulmano sunnita, ma è governato dal 1846 da una dinastia indù. Questa nel 1947 firma un Atto di Accessione all’India, scatenando una rivolta musulmana che si trasforma in una guerra fra India e Pakistan. Il cessate il fuoco negoziato nel 1949 dalle Nazioni Unite – le quali chiedono che il futuro del Kashmir sia deciso da un referendum – blocca le ostilità su una “linea di controllo provvisorio”, che lascia un terzo del Kashmir al Pakistan e due terzi all’India. Questa rifiuta il referendum – contando sull’alleato sovietico per bloccare con il veto nuove risoluzioni ONU – ma inserisce nella sua costituzione l’articolo 370, che garantisce allo Stato indiano dello Jammu e Kashmir un’ampia autonomia. Dopo due guerre fra India e Pakistan nel 1965 e nel 1971, il Trattato di Simla del 1972 riconosce di fatto la linea di controllo provvisorio. Il Trattato preserva la pace per quasi vent’anni, ma nel 1989 il separatismo nel Kashmir indiano riemerge con una violenza senza precedenti, senza dubbio a causa della decisione di Osama bin Laden di aprire un nuovo fronte in Kashmir dopo i successi in Afghanistan e del conseguente afflusso di volontari islamici stranieri, ma anche dell’impetuosa crescita di partiti e movimenti ultra-fondamentalisti in Pakistan e nello stesso Kashmir. Nella vita politica del Kashmir riemerge anche una terza forza, ignorata dalle risoluzioni dell’ONU e dal Trattato di Simla, che non sta né con l’India né con il Pakistan ma chiede un Kashmir indipendente, facendo valere il dato dell’unità linguistica: la lingua più parlata nella regione, a prescindere dalle differenze di religione, è il kashmiri.
Il Kashmir è un rompicapo quasi insolubile, ma il rapporto del 1950 della commissione ONU guidata dal giurista australiano Sir Owen Dixon metteva già in luce un fatto innegabile. Ogni soluzione applicata a tutto il Kashmir, referendum compreso, non condurrà alla pace, perché il Kashmir è diviso fra un nord-ovest musulmano di lingua punjabi, un centro musulmano di lingua kashmiri, e un sud-est dove si parlano il kashmiri e l’hindi e dove c’è una cospicua minoranza indù. L’aspirazione di chi parla kashmiri all’indipendenza è forse almeno per il momento irrealizzabile, ma una razionalizzazione su base linguistica e religiosa della linea di controllo provvisoria e reali autonomie all’interno delle rispettive federazioni dell’India e del Pakistan possono disinnescare la mina del Kashmir. Una prospettiva per cui molto aveva fatto il governo Vajpayee e che non piace ai terroristi, i quali sognano di fare del Kashmir un nuovo Afghanistan e le cui bombe vogliono indurre il nuovo governo indiano a interrompere i negoziati, lasciando il campo a torbidi in cui Al Qaida spera di pescare.

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