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I dubbi dell'Iran

di Massimo Introvigne (il Giornale, 8 aprile 2004)

imgCi sono tre partite in corso intorno al tentativo di Moktada al-Sadr e del suo Esercito del Mahdi di impedire un’ordinata transizione verso un governo nazionale irakeno e verso libere elezioni, dove è accreditato nei sondaggi di una percentuale inferiore al dieci per cento. La prima partita è militare, e al-Sadr non può vincerla. La sua milizia consta di circa diecimila unità e non ha speranze né contro le truppe della coalizione né contro le altre milizie sciite che fanno capo ai partiti Sciri e Da’wa, che di militanti ne contano almeno sessantamila.
La seconda partita è in Occidente. Da Osama bin Laden in giù, tutti gli ultra-fondamentalisti islamici sanno che missioni impossibili sul piano dei rapporti di forza possono diventare possibili sul piano politico. In Irak non c’è un nuovo Vietnam, e neppure una rivolta del «popolo irakeno» o degli «sciiti» contro gli Stati Uniti: il primo obiettivo di al-Sadr sono i capi più legittimi e popolari della comunità sciita – due dei quali ha già fatto ammazzare, e per questo lo si vuole ora arrestare e processare –, e i sondaggi mostrano che nove iracheni su dieci condannano le violenze e approvano il piano alleato di transizione verso una sovranità nazionale. Tuttavia, è sufficiente far credere alle opinioni pubbliche occidentali che «è proprio come in Vietnam», spaventarle, terrorizzarle perché in prossimità di elezioni (e l’Occidente è sempre vicino a qualche elezione) qualcuno sia tentato di sfruttare i morti a fini di bassa cucina elettorale e proporre a un’opinione pubblica dove la paura fa novanta il falso rifugio del pacifismo imbelle. Semmai, si trova fra questi spacciatori di falso pacifismo qualcuno che è più sadrista di al-Sadr. Quest’ultimo in tutti i suoi discorsi prende le distanze da quello che definisce «Satana Saddam» e ne celebra la caduta, mentre l’ex-ispettore dell’Onu Hans Blix (ora è chiaro da che parte stava) e il vecchio senatore Ted Kennedy affermano a chiare lettere che era meglio lasciare il dittatore al suo posto.
Su queste due partite se ne innesta una terza, trascurata ma decisiva. Le città sante sciite stanno in Irak, ma da anni il centro del potere sciita si è trasferito in Iran. Al di là dell’abituale retorica anti-americana, il regime di Teheran è molto perplesso. È in gioco la dottrina stessa del velayat e-faqih, della «guida del giurisperito», secondo cui i religiosi sciiti esperti di legge islamica hanno potere di veto sulle autorità secolari democraticamente elette. Prima ancora che da Khomeini, questo cardine della vita politica iraniana è stato teorizzato dal padre di Al-Sadr, e combattuto dal vecchio grande ayatollah Sistani, riconosciuto come guida spirituale dalla maggioranza degli sciiti iracheni. Khamenei non può quindi stare con Sistani; ma non sta neppure con Al-Sadr, perché quest’ultimo teorizza una pluralità di guide nazionali, e non accetta la tesi secondo cui c’è un’unica guida (iraniana) per tutto il mondo sciita ed è lo stesso Khamenei. A Teheran dominano i dubbi: c’è l’aspirazione a mediare e c’è quella a pescare nel torbido, e il tutto si intreccia con i problemi interni iraniani. L’atteggiamento dell’Europa, cui Teheran guarda da diversi anni, potrà essere decisivo anche per l’Iran.

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