CESNUR - center for studies on new religions

La Francia contro il "modello turco"

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 3, n. 39, 25 settembre 2004)

A metà settembre, la University of Utah di Salt Lake City - che ospita uno dei più noti centri per lo studio del mondo islamico degli Stati Uniti - ha organizzato un convegno internazionale sulla situazione politico-religiosa in Turchia, dove chi scrive ha presentato la relazione d'apertura. Il convegno ha soprattutto esaminato la nascita e lo sviluppo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), al governo dal 2002 e apparentemente popolare tra i turchi, che lo hanno ricompensato con un ulteriore aumento del dieci per cento dei voti alle elezioni amministrative del 2004. La parabola dell'AKP giustifica in effetti l'interesse internazionale.
Il partito nasce dall'alveo del fondamentalismo turco, ma con una sorta di “svolta di Fiuggi” si separa dall'area legata al fondamentalismo internazionale e ai Fratelli Musulmani (il cui leader, l'ex-primo ministro Erbakan, continua a ispirare un partito che si è fermato poco sopra al due per cento) per elaborare un programma che il suo fondatore e attuale primo ministro Erdogan definisce di “democrazia conservatrice”. Il parallelo con la Democrazia Cristiana (quella degli anni 1950 più che quella di Moro o di De Mita) è riecheggiato spesso nel convegno americano, e in effetti i tre valori del programma dell'AKP - la famiglia, l'identità religiosa e la nazione - ricordano gli slogan su “Doio, patria e famiglia” delle elezioni italiane del 1948. Uno dei primi ad avere proposto il paragone fra l'AKP di Erdogan e la vecchia Democrazia Cristiana era stato, anni fa, Silvio Berlusconi in visita a Istanbul. Gli specialisti accademici tendono a essere d'accordo con lui, anche se lo stesso Erdogan - memore del fatto che la Costituzione turca vieta i partiti di ispirazione religiosa - di recente ha contestato il parallelo, affermando che gli sembra più appropriato quello con il conservatorismo degli Stati Uniti.
Quello che succede in Turchia è importante perché per la prima volta in un paese musulmano un partito di origine fondamentalista si sposta verso il centro conservatore, mantiene buoni rapporti con gli Stati Uniti e l'Europa, rafforza le istituzioni democratiche, isola gli estremisti islamici. Fenomeni simili si stanno verificando in Malaysia e in Indonesia.

I timori della Germania

Gli specialisti convenuti a Salt Lake City divergono se quello che questi paesi hanno in comune è il non essere arabi - così che sarebbe l'“arabità”, non l'islam a essere difficilmente compatibile con la democrazia - o l'avere sperimentato uno sviluppo economico che ha creato una robusta classe media borghese, elettorato di riferimento delle “democrazie islamiche” così come delle Democrazie Cristiane europee. La seconda versione è sostenuta dal fatto che un partito di centro (che si chiama proprio così: “Centrista”), composto da ex membri dei Fratelli Musulmani in marcia dal fondamentalismo verso il conservatorismo, gode di notevoli consensi in Egitto anche se il regime di Mubarak per ora si rifiuta di riconoscerlo e di farlo partecipare alle elezioni.
Giocoforza, è emersa anche la questione dell'ingresso della Turchia nell'Unione Europea, insieme con il notevole risentimento turco contro chi vi si oppone: la Francia e i cristiano-democratici tedeschi, cui secondo una parte della stampa e forse anche del governo turco avrebbe voluto offrire una sponda il cardinale Ratzinger in occasione della visita del Papa dello scorso agosto in Francia. Il modo con cui è stata presentata da molta stampa internazionale l'intervista del cardinale Ratzinger al Figaro Magazine del 13 agosto, sottolineando una sua frase sull'estraneità della Turchia all'Europa, è però fuorviante e si presta all'equivoco politico. Potrebbe sembrare che il cardinale volesse correre in soccorso o della CDU tedesca (alle prese anche con la domanda dell'AKP di aderire al Partito Popolare Europeo) o della posizione della Francia, rimasta ora isolata nella sua opposizione all'apertura di negoziati per l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea. Se si ha cura di leggere tutta l'intervista, si scopre invece che la posizione del cardinale è opposta a quella di Chirac. Il presidente francese - il maggiore oppositore della menzione delle radici giudeo-cristiane nella Costituzione europea - si oppone ai negoziati con la Turchia per ragioni politiche (i turchi sono fedeli alleati degli Stati Uniti), e in nome di un laicismo che sarebbe messo in pericolo, nonostante i richiami alla laicità della Costituzione di Kemal Atatürk, dal fatto che la Turchia sia un paese attualmente governato da un partito di ispirazione religiosa.

Laicità e laicismo sono nemici

Il cardinale Ratzinger parte invece, precisamente, dalla denuncia del “laicismo ideologico”, che rischia di rinchiudere la religione nel “ghetto della soggettività”. Il laicismo non va confuso con la laicità, che è la semplice, opportuna distinzione - cosa diversa dalla separazione radicale - fra religione e cultura, e fra religione e politica. Il laicismo invece, “auspica che la vita pubblica non sia toccata dalla realtà religiosa”, e sfocia in un 'profanità' assoluta” che è “un pericolo per la fisionomia spirituale, morale e umana dell'Europa”.
Il cardinale rifiuta anche l'argomento secondo cui il laicismo francese è una reazione comprensibile e necessaria al fondamentalismo. Al contrario “almeno in parte il fondamentalismo è alimentato dall'accanimento laicista”, e nel mondo islamico la risposta alla “sfida terribile del fondamentalismo” non va cercata nel laicismo ma in un “senso religioso razionale, unito alla ragione”. Che è come dire che nei paesi islamici vanno favoriti governi religiosi conservatori come quello di Erdogan, non laicisti che combattono la religione in genere.
Quanto all'Europa, è stato commesso - afferma Ratzinger - “un errore”. A causa di uno strano “odio dell'Europa contro se stessa e contro la sua grande storia”, si è persa l'occasione di costruire con l'Unione Europea un “continente culturale” radicato nella sua eredità cristiana. Se si pensa l'Europa come “continente culturale” allora, aggiunge il cardinale, “la Turchia ha sempre rappresentato un altro continente”, “in contrasto permanente con l'Europa”. “Identificare i due continenti sarebbe un errore: si tratterebbe della perdita di una ricchezza, della sparizione dell'elemento culturale a vantaggio di quello economico”.
Certo, se fosse possibile rimontare dal progetto di “continente economico” a quello di “continente culturale”, ci sarebbero ragioni per sostenere che la Turchia non ne fa parte, e con i turchi non si potrebbe andare al di là di quelle relazioni di “collaborazione stretta e amichevole” che il cardinale Ratzinger del resto prospetta. Ci si può chiedere però se - proprio a causa dei veti francesi - la partita non sia già chiusa, e la prospettiva del “continente culturale” non sia già stata abbandonata. Resterebbe allora solo il “continente economico” (e politico) di cui la Turchia fa già parte e che un Europa senza dimensione “culturale” avrebbe poche buone ragioni per escludere.
Dietro il problema della Turchia, Ratzinger indica così il problema di fondo dell'Europa. E sul Nouvel Observateur del 9 settembre, un po' perso fra le tirate anti-americane e anti-religiose del direttore Jean Daniel e di altri redattori, l'islamologo Bruno Etienne pone il problema nei suoi termini corretti : è curioso, scrive, che “anche e soprattutto coloro che si sono opposti alla menzione dei valori cristiani nella carta fondamentale europea” li usino oggi in Francia per escludere la Turchia. Salvo poi - come è emerso, ancora, al convegno di Salt Lake City - fare intendere a Erdogan che una presa di distanze dagli Stati Uniti e da Israele lo renderebbe più “europeo” e meno esposto ai veti francesi.
Dietro il riferimento evidentemente posticcio e ipocrita ai “valori cristiani” si nasconde dell'altro: la politica della Francia verso il mondo islamico privilegia le dittature militari perché sono gli unici regimi a essere veramente e integralmente laicisti. “Come per l'Algeria - scrive Etienne - meglio i militari 'laici' che gli 'islamisti'”: meglio, per Chirac e per la politica francese in genere, generali torturatori ma non religiosi e anti-americani che un pio musulmano come Erdogan, che ha l'ardire di proporre una via islamica alla democrazia, che non passa per il laicismo né per la rinuncia all'identità religiosa, e di dichiararsi perfino ammiratore del conservatorismo americano.

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