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Buddhismo: fra post-modernità e tradizione

di Andrea Menegotto

Il buddhismo in Occidente - e così in Italia - vive oggi certamente un momento particolare e, in qualche modo, cruciale. Da un lato occorre notare che una buona parte della sua influenza si gioca al di fuori dell’appartenenza alle associazioni che raggruppano i fedeli buddhisti, concentrandosi nell’ambito di quella galassia del believing without belonging, per utilizzare un’espressione coniata dalla sociologa anglosassone Grace Davie (cfr. Religion in Britain since 1945. Believing without Belonging, Blackwell, Oxford 1994), ovvero - nel caso del nostro Paese - il «credere senza appartenere» di circa quella metà della popolazione nazionale che si dichiara più o meno vagamente «religiosa» o «credente», ma non frequenta con regolarità nessuna religione organizzata e che tuttavia è disposta ad assumere in un mix sincretistico una molteplicità di posizioni dottrinali diverse. Da questo punto di vista, ad esempio, nella galassia del believing without belonging il tema reincarnazionista - primo fra tutti - è pressoché onnipresente, pur in una versione volgarizzata ed edulcorata, diffusa sulla scia delle interpretazioni di sedicenti esperti e mass-media, rispetto alla versione tipica delle scuole buddhiste tradizionali.

 

Il ruolo chiave del XIV Dalai Lama

D’altra parte, un innegabile aspetto del buddhismo sulla scena occidentale che pure vale la pena di richiamare è quello legato al luccichio di flash e al clamore mass-mediatico che si crea intorno alla figura di Tenzin Gyatso (1935-), il XIV Dalai Lama, di cui sono testimonianza anche le sue visite in Italia e - nell’estate 2005 - in Svizzera. Per quanto i paralleli con il Papa cattolico risalgano già a missionari seicenteschi e siano duri a morire, il Dalai Lama, nonostante il suo più ampio potere politico (sopravvissuto all’invasione cinese e all’esilio dei tibetani dalla loro terra), non è propriamente il leader religioso di tutto il buddhismo né tanto meno di tutto il  buddhismo tibetano, ma del «sistema» geluk, ovvero di ciò che sostituisce il «sistema» sakya alla corte mongola nel XVI secolo e considera come suo fondatore Tzong Khapa (1357-1419), il cui discepolo Gendundrup (1391-1474) è considerato il primo Dalai Lama. I gelukpa accedono al potere politico su tutto il Tibet grazie alla loro eccellenza come interpreti della filosofia buddhista e all’organizzazione di grandi monasteri, in particolare le «tre sedi» di Sera Me, Ganden e Drepung. Quest’ultimo, prima dell’invasione cinese, è sia l’«università» del buddhismo geluk che il più grande monastero buddhista del mondo con oltre tredicimila monaci.

Tuttavia, tutte le scuole buddhiste nutrono grande rispetto per il Dalai Lama e lo stesso è emerso come il principale ambasciatore del buddhismo, non solo tibetano, nel mondo. Oltretutto, è bene non dimenticare che la gran parte del buddhismo tibetano vive in Occidente, dove si sono rifugiati oltre cinquemila monaci (fuggiti alla persecuzione cinese della loro terra), che in genere rappresentano l’élite del mondo monastico tibetano dal punto di vista sociale e intellettuale.  In questa situazione, il Dalai Lama mantiene la delicata posizione di chi deve cercare da una parte di non perdere il contatto con le peculiari e millenarie tradizioni tibetane, dall’altra di presentare la religione buddhista in una forma «modernista» accettabile agli occidentali.

 

La tentazione del «modernismo»

In un editoriale comparso sull’Avvenire del 25 ottobre 2003, Lucetta Scaraffia si sofferma su un’affermazione dello stesso Dalai Lama, il quale interviene per invitare gli europei di matrice cristiana a non convertirsi al buddhismo, evidenziando il fatto che l’esito di questa conversione è spesso fallimentare. Tale affermazione non rimane isolata, ma - al contrario - presenta un certo grado di problematicità se affiancata all’atteggiamento «modernista» di decisa apertura verso le odierne teorie psico-spirituali del mondo occidentale, rappresentata emblematicamente da un libro scritto a quattro mani dal medesimo Dalai Lama con lo psicologo Daniel Goleman (Emozioni distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente: rabbia, desiderio e illusione, Mondadori [Milano] 2003). Tanto più se si considera la figura dello stesso Goleman, che è  autore di bestseller internazionali, fondatore della teoria dell’«intelligenza emotiva» e formatore di manager, imprenditori e dirigenti, il cui pensiero, per la verità, ricalca teorie vicine a quelle sostenute dagli ambienti della programmazione neurolinguistica e comunque catalogabili - almeno in Europa - con l’etichetta di Next Age, inteso come fenomeno caratterizzante la fase evolutiva-involutiva del New Age dal suo momento utopistico a una tensione di carattere individualista.

La linea intrapresa dal Dalai Lama con Emozioni distruttive viene peraltro confermata dalla pubblicazione nel 2005 di un altro volume, questa volta scritto in collaborazione con lo psichiatra americano Howard C. Cutler, già co-autore - nel 2001 - con Tenzin Gyatso de L’arte della felicità (Mondadori, Milano). Si tratta del libro L’arte della felicità sul lavoro (ancora edito per i tipi di Mondadori), in cui - affrontando questioni quali la conoscenza di se stessi e il controllo delle emozioni distruttive -, pur nel naturale mantenimento di un continuum dottrinale buddhista, si finisce ancora una volta - volutamente o meno - per ricalcare temi tipici degli ambienti Next Age, popolati di formatori che insegnano i più svariati metodi e tecniche per ottenere felicità e successo professionale e nella vita quotidiana, attingendo sia alle tradizioni orientali, sia alle svariate teorie psico-spirituali dell’Occidente.

I due citati volumi, a cui qualche altro potrebbe essere accostato, si affiancano a una ben più ampia produzione editoriale in cui il Dalai Lama certamente affronta - in un’ottica spirituale e religiosa - temi prettamente legati alla visione buddhista della realtà senza sfociare in accostamenti di tipo «modernista», e peraltro tenendo conto di un necessario confronto della tradizione buddhista con il clima culturale e religioso che attualmente caratterizza l’Occidente. Tuttavia, essa non può essere ignorata, anche a fronte del fatto che, come scrive Massimo Introvigne, «Quando parla in Italia o in Svizzera, il Dalai Lama dice ciò che piace al grande pubblico occidentale, cioè “non uccidere nessun essere vivente”, “voler bene agli animali”, “essere critici nei confronti delle armi moderne”, “essere critici nei confronti della guerra”». Senza dubbio nel buddismo esiste  - anche come conseguenza della credenza nella reincarnazione - il principio del rispetto per la vita di tutte le creature, così come sussiste un certo pacifismo. Tuttavia, la storia e importanti studiosi del buddhismo tibetano quali Donald S. Lopez Jr., professore di Studi buddhisti e tibetani all’Università del Michigan, ci ricordano che non mancano episodi di uccisioni e combattimenti per la causa buddhista, così come nella dottrina buddhista non sono assenti temi bellici e nelle apocalissi contenute nei testi sacri di alcune scuole tibetane, la venuta del Buddha Maitreya (il Buddha futuro che attende di venire nel mondo), sarà accompagnata da un sostanziale sterminio dei non credenti e di chi non è buddhista. Ma, d’altra parte, «Vi è un piccolissimo gruppo di occidentali, valutabile in qualche migliaio di persone, un’élite che si interessa di Tantrismo e che è arrivata al Buddismo da interessi di tipo esoterico e che quindi nel Buddismo Tibetano-Mongolo è affascinata dal Tantrismo e sa di cosa si tratta. Poi vi è una massa di milioni di persone che nulla sa di questo aspetto peculiare, esoterico della tradizione di cui il Dalai Lama è il “capo”, ma è affascinato dalla versione in pillole del Buddismo come religione del buonismo, della pace e dell’amore universale che lui presenta agli occidentali in lingua inglese» (Buddismo in pillole per l’Occidente, in Giornale del Popolo. Quotidiano della Svizzera Italiana, 6 agosto 2005).

Peraltro, la posizione del Dalai Lama non risulta isolata: altrove si segnalano  atteggiamenti di taglio «modernista» (soprattutto in merito alla decisa vicinanza nei confronti di tesi e temi tipici di una certa psicologia occidentale), come quelli di un altro importante esponente e diffusore del buddhismo tibetano in Occidente (e particolarmente in Italia): Lama Gangchen Tulku Rinpoche (Thinley Yarpel Lama Shresta), responsabile della Lama Gangchen World Peace Foundation (L.G.W.P.F.), un’ONG associata alle Nazioni Unite, e punto di riferimento di alcuni centri italiani che a lui si ispirano direttamente: l’Albagnano Healing Meditation Centre di Albagnano di Bèe (Verbania), il Kunpen Lama Gangchen  di Milano e il Centro Buddha della Medicina (Gancen Sanghie Men Chö Ling)  i Torino, tutti membri dell’Unione Buddista Italiana (U.B.I.).

L’apertura diretta verso le «moderne» teorie psico-spirituali del mondo occidentale e l’atteggiamento «modernista» in genere - tanto più se l’esperienza buddhista viene collocata nel contesto tipicamente post-moderno del believing without belonging - finiscono senza dubbio per aprire un ampio capitolo, per qualche verso problematico, circa il ruolo e la natura che il buddhismo sta assumendo sulla scena religiosa e sociale in Occidente, talora presentandosi agli occhi dell’uomo occidentale solamente come appendice vagamente spirituale accanto a tecniche più o meno scientifiche, che in qualche modo finiscono semplicemente per dimostrare il valore non religioso, ma prettamente psicologico dell’accostamento buddhista alla realtà.

C’è però qualcosa di più: lo sforzo di occidentalizzare il buddhismo trasforma certamente lo stesso in una moda spirituale fra le più allettanti e popolari e così il Dalai Lama si trova sempre più spesso chiamato a presenziare in salotti mondani e ad affiancarsi a VIP che nella religione di cui Tenzin Gyatso è un importante esponente non vedono molto di più che una moda, una filosofia e uno stile di vita destinato semplicemente a dare pace, salute e serenità interiore, calma e rilassatezza. A questo accostamento, tutto lustrini e cocktail, sembra adattarsi perfettamente un’espressione coniata qualche anno fa ancora da Introvigne, quella di «buddhismo-champagne», ovvero della religione di chi appare più impegnato a soddisfare il proprio narcisismo umano e spirituale piuttosto che a trovare la vera risposta ai perché della sua vita.

 

Tentativi di riscoperta della tradizione

Prescindendo dalle reali intenzioni di autori ed editori, solitamente estranei o comunque lontani dall’idea di contribuire ad alimentare un pur esistente confronto intra-buddhista fra «modernismo» e recupero della «tradizione» - forse più evidente agli occhi di studiosi e osservatori esterni -, alcuni recenti eventi nel panorama editoriale italiano possono essere letti come tentativo di un recupero di una tradizione buddhista certamente non solo in confronto, ma radicata in Occidente, eppure ansiosa di non cedere semplicemente il passo al «modernismo», rivendicando - pur nel dialogo con l’Occidente - una propria identità costituita dal riferimento ideale e costante alle «fonti» del buddhismo, prima fra tutte la figura e l’insegnamento del Buddha (563-483 a.C.?).  

 

Verso le fonti: la riscoperta dell’opera di Giuseppe Tucci

In questa ottica, vale la pena di notare come un importante avvenimento sia rappresentato dalla ristampa, nella primavera del 2005 - a quasi cinquant’anni dalla prima edizione (1957) - della Storia della filosofia indiana (Laterza, Bari) di Giuseppe Tucci (1894-1984), considerato come il più grande orientalista italiano del Novecento, e fra i massimi tibetologi di tutti i tempi. Giornalista, scrittore, archeologo, antropologo, esploratore, Accademico d’Italia e presidente onorario di numerose istituzioni di grande prestigio, Tucci ha meritato ben cinque lauree honoris causa e, nel 1976, il Premio Nerhu per la Comprensione internazionale.

Prima bibliotecario della Camera dei Deputati, tra il 1925 e il 1930 insegna italiano, cinese e tibetano presso le Università indiane di Calcutta e Shantiniketan. Dal 1930 diviene docente di lingua e letteratura cinese all’Università di Napoli, e dal 1932 insegna religione e filosofia dell’Estremo Oriente all’Ateneo di Roma. Nel 1932 fonda assieme a Giovanni Gentile (1875-1944) - che ne è il primo presidente, a cui dal 1947 succederà lo stesso Tucci, fino al 1978 - l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (Is.M.E.O.) - ora (dal 1995)  Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (Is.I.A.O.) -, istituito con Regio Decreto nel 1932 ed eretto in Ente Morale nel 1933, con lo scopo di «promuovere e sviluppare i rapporti culturali fra l’Italia e i paesi dell’Asia Centrale, Meridionale ed Orientale ed altresì di attendere all’esame dei problemi economici interessanti i Paesi medesimi». Nel 1957 fonda il Museo Nazionale di Arte Orientale a Roma.

Tucci compie numerosi viaggi di studio e ricerca in cui raccoglie materiale archeologico, artistico, letterario e fonti storiche, concentrandosi particolarmente sulla regione himalayana, in qualche modo crocevia delle diverse culture asiatiche. Le spedizioni in Tibet, compiute fra il 1929 e il 1948, producono risultati e scoperte eccezionali, così come le spedizioni (1950-1955) in Nepal, seguite dalle campagne archeologiche in Pakistan (1956), Afghanistan (1957) e Iran (1959).

In ambito editoriale, nel 1950, Tucci dà il via alla pubblicazione del periodico (in lingua inglese) East and West; ma è pure autore molto prolifico di saggi e studi in cui fa stato delle sue ricerche. Tra i suoi numerosi scritti: Indo-tibetica (Accademia d’Italia, 1932-1942, in 7 volumi) Tibetan Painted Scrolls (Libreria dello Stato, 1949, in 2 volumi) e - appunto - la Storia della filosofia indiana (Laterza, 1957).

Giuseppe Tucci è dunque insieme insigne studioso e divulgatore che, sulla base di un interesse personale, rappresenta una figura chiave della diffusione del buddhismo tibetano in Italia. È grazie a Tucci che arrivano in Italia – inizialmente per un lavoro di carattere accademico – Ghesce Jampel Senghe (†1981), che insegna all’Is.M.E.O., dove cura la traduzione e la catalogazione di una vasta biblioteca di testi buddhisti, soprattutto tibetani e fonda nel 1980 l’Istituto Samanthabadra di Roma; e - nel 1960 - Chogyal Namkhai Norbu (1938-), guida spirituale dal 1980 della Comunità Dzogchen, con sede ad Arcidosso (Grosseto), dopo essere stato per molti anni (1964-1992) docente di Lingua e letteratura tibetana e mongola presso l’Istituto Orientale di Napoli.

La Storia della filosofia indiana si occupa certamente di un ambito più ampio rispetto al solo contesto buddhista, abbracciando la globalità della speculazione filosofica indiana e dedicando pagine interessanti - e ancora innovative - al tema della logica nell’ambiente peculiare di interesse della sua trattazione; è tuttavia innegabile l’apporto della pubblicazione alla riscoperta delle fonti e dell’ambiente in cui nasce la tradizione buddhista, tanto più in riferimento alla delicata posizione che il buddhismo occupa nell’universo del sacro post-moderno. Comunque sia, in linea generale, l’evento editoriale è del tutto rilevante, dato che il testo di Tucci ha rappresentato un riferimento fondamentale per almeno tre generazioni di studiosi e appassionati, ma pure perché - con la parziale eccezione de Il pensiero indiano di Raffaele Torella, in Storia delle Scienze della Treccani (vol. II, cap. II, pp. 638-689), non disponibile però autonomamente - scarseggiano efficaci trattati in lingua italiana sul tema della filosofia indiana in qualche modo accessibili a un pubblico vasto.

 

Fra tradizione e confronto: Buddhayana («via del Buddha»), o la via del buddhismo occidentale

Un testo di carattere squisitamente spirituale è invece l’opera dello studioso di buddhismo e praticante zen Gianpietro Sono Fazion, Una stella a Oriente. La ricchezza dell’insegnamento del Buddha (Appunti di Viaggio, Roma), pubblicato nel maggio 2005. L’autore nasce a Cerea (Verona) nel 1936, trasferendosi lo stesso anno in Alto Adige. Studia filosofia e musicologia a Padova. È pure artista multimediale, considerato il decano della Land-Art in Italia: l’intera documentazione relativa al suo lavoro si trova presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea (Museion) di Bolzano, mentre le riproduzioni in formato digitale delle sue opere (con alcuni brevi commenti da parte dello stesso autore) sono contenute nel cd Non Azione. 1968-2004 (Monte Meru Editrice). La carriera artistica, di per sé sempre ispirata - nei simboli e nei contenuti - ai valori della ricerca spirituale dell’autore, è però abbandonata da Fazion già nel 1971 con una lettera aperta all’editore della rivista Notiziario Arti Contemporanee (NAC), anche se dopo ben trent’anni di silenzio artistico, ora si dedica alla costruzione di pietre con cui, presso luoghi montani isolati, innalza degli stupa (di cui si trova documentazione fotografica nel cd), ovvero riproduzioni dei classici monumenti semisferici nei  quali in origine sono conservate le reliquie del Buddha (nei primi secoli lo stupa si trova al centro delle comunità buddhiste ed è intorno allo stesso che nascono le scuole e i monasteri; col tempo, negli stupa sono intronizzate reliquie non più del Buddha, ma dei suoi primi discepoli, o anche tavolette che contengono i suoi insegnamenti). A seguito dei viaggi in estremo Oriente, Fazion si introduce all’approfondimento teorico e pratico del buddismo zen e, dagli anni 1980, partecipa attivamente al dialogo interreligioso, scegliendo anche per questo motivo di vivere nella frazione Sostino di Pale (Perugia), vicino ai luoghi in cui visse san Francesco d’Assisi (1181-1226).

È membro della direzione della Fondazione Maitreya di Roma, il più rilevante istituto di cultura per la promozione della conoscenza del dharma («legge» o «insegnamento») buddhista in Italia, fondato da quella che è stata certamente una delle personalità di maggiore spicco nella storia del buddhismo nel nostro paese: Vincenzo Piga (1921-1998), fra l’altro iniziatore della rivista Paramita. Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il dialogo, che continuerà la sua esistenza fino alla morte di Piga, e alle origini dell'Unione Buddista Italiana (U.B.I.). La Fondazione Maitreya non fa capo ad alcuna delle scuole buddhiste ancora oggi esistenti, e anzi promuove e sviluppa gli insegnamenti buddhisti di ogni tradizione, favorendo l’inserimento della dottrina buddhista in genere nella cultura occidentale. Un aspetto che ha rivestito sempre grande importanza nel pensiero di Vincenzo Piga è stato, appunto, la compatibilità delle religioni orientali con il mondo occidentale e la necessità di creare le condizioni per realizzare la permeabilità fra le due culture, convinto come egli era che attualmente stia prendendo forma un nuovo «veicolo», che potrebbe essere chiamato Buddhayana («via del Buddha»), ovvero il «buddhismo occidentale»: un buddhismo che sarebbe arricchito di un ulteriore spessore – la dimensione della solidarietà e della compassione – tramite l’incontro con l’esperienza cristiana. Tale veicolo si affianca ed è successivo rispetto agli storici mahayana («grande veicolo»), che fa perno su insegnamenti scoperti segretamente dopo essere stati tramandati per via esoterica; hinayana («piccolo veicolo»), ovvero il buddismo  originario dell’India, tipico delle scuole più antiche, che sopravvive soprattutto nello Sri Lanka, definito anche - in maniera per lo più inesatta - theravada («tradizione degli antichi»); e vajrayana (veicolo» o «via» della folgore adamantina, o del diamante), cioè il buddismo che arriva in Tibet dall’India e lì si fonde con elementi pre-buddisti precedenti di tipo sciamanico.

Gianpietro Sono Fazion pare perfettamente allinearsi alla prospettiva tracciata da Piga e in qualche modo divenuta «ufficiale» per la Fondazione di cui è fra i dirigenti. Ne rendono testimonianza le sue numerose opere a tema spirituale e divulgativo e i suoi studi: Viaggio nel buddhismo zen (Cittadella, Assisi 1990), Il Buddha, (Cittadella, Assisi 1993, con riedizione nel 1997); Lo zen e la luna (Appunti di Viaggio, Roma 1994), Le grandi figure del buddhismo (Cittadella, Assisi 1995), scritto in collaborazione con Michael Fuss e Jesus Lopez-Gay; Dharma e Vangelo, Assisi 1996 (in collaborazione con Enzo Bianchi e altri) - questi due ultimi testi caratterizzati da un forte accento posto sul dialogo interreligioso - ; Cento haiku zen, (Ali&No, Assisi-Perugia 1999); I canti perduti degli angeli (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2001); nonché la curatela e la prefazione dell’opera di Hugo M. Enomiya-Lassalle, Zen, via verso la luce (Appunti di Viaggio, Roma 2002).

In particolare, gli ultimi due lavori di cui Fazion è autore rispecchiano in maniera piuttosto evidente il tentativo di percorre la «via» del buddhismo occidentale, che  Vincenzo Piga chiamava Buddhayana. Si tratta di testi ancorati alla tradizione, alle fonti e alla storia buddhista - e in questo senso lontani da ogni tentativo di deriva  «modernista» -, ma che al contempo rivelano la preoccupazione di un confronto con l’Occidente, di un dialogo costruttivo con la tradizione cristiana e di una presentazione coerente del buddhismo non come orizzonte irraggiungibile per l’occidentale, ma pure lontani dal cedere alla tentazione di abbracciare idee e tematiche troppo comuni all’Occidente, che portino in qualche modo al rischio di annichilimento dello stesso messaggio buddhista.  

In Lo zen di Kodo Sawaki (Ubaldini, Roma 2003), Fazion presenta la figura di Kodo Sawaki (1880-1965), detto Yadonashi («il senza dimora»), con l’intento di mostrare ai lettori che l’idea di zen non si deve necessariamente accompagnare all’immagine di antichi patriarchi che popolavano una lontana società agreste, ma lo stesso zen trova la sua incarnazione in un maestro della nostra epoca, dallo stile sobrio e dall’insegnamento severo, che si confronta con le esperienze, le vicende storiche (partecipando alla guerra russo-giapponese) e le domande proprie dell’epoca moderna, peraltro rifuggendo dalla «paccottiglia» tipica del supermarket del «sacro fai da te», in cui l’etichetta dello zen viene indossata il più delle volte in maniera impropria, e a cui l’avvento del New Age - con i suoi prodromi e le sue conseguenze - e del believing without belonging ci hanno abituato.

Nel già citato Una stella a Oriente. La ricchezza dell’insegnamento del Buddha, l’autore, con frequenti richiami e nell’ottica che gli è particolarmente cara del  dialogo interreligioso, in qualche modo riprende tutti i temi affrontati nel corso della produzione precedente e alcune questioni chiave dell’esperienza spirituale umana, proponendo una sostanziale riscoperta del buddhismo nella prospettiva occidentale attraverso la rivisitazione della vita, delle opere e dell’insegnamento della «figura-chiave» del Buddha mediante un «viaggio» fra fatti e personaggi rilevanti della tradizione buddhista. Si passa così, in un contesto di sapore anche autobiografico, dalla riflessione sulle parabole del Sutra del Loto (fondamentale per la scuola mahayana), al messaggio del poeta giapponese Daigu Ryokan (1758-1831), all’insegmento di Milarepa (1040-1123) - un personaggio la cui vita è al centro di un’ampia letteratura, in gran parte di carattere leggendario -, al quale, con il suo maestro  Marpa (1012-1099) è attribuita l’origine del  sistema kagyu; per giungere alla lettura buddhista della figura di Gesù Cristo, sostenuta dal parallelo fra il tema della compassione sviluppato da Buddha e la carità evangelica.

 

Per non concludere...

Il mondo buddhista, anche semplicemente considerando come orizzonte di riferimento il solo contesto italiano, presenta certamente un alto grado di varietà interna (costituita da numerosissime sigle, scuole, tradizioni), la qual cosa rende fattualmente complesso e delicato qualunque tentativo di interpretarne i movimenti interni.

Tuttavia, lo stato dei fatti e - soprattutto - la recente produzione editoriale, a proposito della quale in questo contributo abbiamo cercato di tracciare qualche linea interpretativa, sembrano confermare - a prescindere dalla coscienza che il medesimo mondo buddhista ha della stessa - l’esistenza di una dinamica intra-buddhista che si caratterizza per la presenza due differenti approcci riguardanti il confronto fra buddhismo e Occidente.

Se da un lato il «modernismo» potrebbe, a lungo andare, rappresentare un rischio di snaturamento del buddhismo mediante l’eccessivo cedimento della tradizione a favore delle più popolari proposte psico-spirituali, pacifiste ed ecologiste in voga nel mondo occidentale; dall’altro rimane una via percorribile: quella di un buddhismo «occidentale» (la «via del Buddha» teorizzata da Vincenzo Piga) che, non temendo il confronto dialogico con la modernità prima e con la post-modermità ora, cerca di calare il messaggio buddhista radicandolo nella cultura occidentale in maniera integrale, ovvero senza esagerati cedimenti allo «stile» e alle mode spirituali dell’Occidente, mantenendo perciò uno stretto rapporto con le fonti e la tradizione originaria.

Quale delle due strategie avrà successo lo potrà mostrare solo il corso degli eventi, tuttavia è indubbio che in questa dinamica si gioca buona parte dell’identità che il buddhismo assumerà in Occidente nel terzo millennio.