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Tutti i rischi del ‘regime change’ nel dispotico Uzbekistan. Con i guai dell’economia italiana che passano anche da lì

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 4, no. 29, 16 luglio 2005)

A proposito di Uzbekistan, molti studiosi accusano la stampa europea e statunitense di analisi superficiali e di lasciarsi manipolare ora dal governo del presidente Islam Karimov, ora dalla opposizione. Anche il convegno Uzbekistan: la solita strada, svoltosi a Mosca per iniziativa della Fondazione per i Diritti Umani, collegata all’Università di Mosca, a cui chi scrive è stato invitato assieme a diversi esperti russi, ucraini e turchi, ha confermato la drammaticità della situazione del Paese centroasiatico.

I dati certi sono che tra il 13 e il 14 maggio una rivolta è scoppiata nella città uzbeka di Andijon e che l’esercito l’ha repressa nel sangue mietendo un migliaio di vittime. Ne è seguita un’ondata di repressione in tutto il Paese, con centinaia di arresti. Il presidente USA George W. Bush jr. ha quindi chiesto una commissione internazionale d’inchiesta, subito però rifiutata dal premier russo Vladimir Putin.

Ora, la Cina sostiene Karimov. L’Europa esita. Negli stessi Stati Uniti vi è un’evidente divergenza di opinioni fra il Pentagono, che si oppone a qualunque condanna troppo esplicita di Karimov che metterebbe in pericolo le basi militari USA in Uzbekistan, e il Dipartimento di Stato, Condoleezza Rice, con l’appoggio del Partito Repubblicano che ha inviato in Uzbekistan una delegazione per incontrare esponenti dell’opposizione, attacca senza mezzi termini il presidente uzbeko.

“La solita strada” cui si è riferito il titolo del convegno moscovita è dunque quella battuta da Karimov seguendo l’esempio di un buon numero di despoti arabi. Il presidente uzbeko cerca infatti di convincere il mondo che, nel suo Paese, la scelta è fra l’attuale tirannia e una democrazia dove le elezioni sarebbero vinte da fondamentalisti islamici “amici di Al Qaida”, e così cerca di indurre gli occidentali a concludere che conviene allora tenersi il regime. Allo scopo, Karimov ha accusato dell’organizzazione della rivolta di Andijon una sinistra organizzazione islamica chiamata Akromiya, il cui leader Akrom Yuldoshev, è comunque in carcere da sei anni. Secondo i critici di Karimov, l’Akromiya non esiste. Vi è solo il successo di un libro che propugna una forma di credito cooperativo islamico per il rilancio dell’economia uzbeka (scritto da Yuldoshev nel 1992) presso un certo numero di giovani imprenditori musulmani di successo, i quali sono entrati in conflitto con Karimov perché rifiutano i continui taglieggiamenti praticati da un governo fra i più corrotti del mondo. E proprio le estorsioni, “legali” e illegali, sono alle origini dei fatti di Andijon. Yuldoshev era un membro di Hizb ut-Tahrir, un movimento fondamentalista – ma non terrorista, né legato ad Al Qaida – da cui è però uscito quasi quindici anni fa.

Se dunque Karimov mente quando descrive tutti i rivoltosi come terroristi, gli occidentali – si è detto a Mosca – non debbono neppure credere che gli oppositori uzbeki siano tutti pacifici. Fra loro vi sono amici di Al Qaida – benché molto minoritari -, ma ci sono soprattutto esponenti di cosche della malavita organizzata in lotta con altre bande filo-Karimov. Nel vicino Kirghizistan, la “rivoluzione dei narcisi” ha cacciato il despota Askar Akayev e promesso elezioni libere, ma non sembra avere risolto il problema delle infiltrazioni malavitose nel governo e nella burocrazia.

Difendere Karimov è un errore. Ma bisogna scegliere bene gli oppositori da sostenere e vigilare attentamente su quanto potrebbe succedere dopo rivoluzioni che si dichiarano democratiche, ma in cui potenti mafie russe e locali continuano a cercare d’infiltrarsi. E il problema non è di poco interesse per l’Italia: attraverso Uzbekistan e Kirghizistan passano infatti ingenti quantitativi di merce cinese di contrabbando che proseguono verso i Paesi dell’Unione Europea, con la complicità dei governi. Questo traffico, gestito dalla malavita locale e che non spiace troppo agli stessi cinesi, sfugge a qualunque discorso su dazi, limitazioni e quote, ma aumenta i problemi della nostra economia.