CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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Al Qaeda vuole un Occidente indifferente e isolazionista. Le strategie del terrorismo islamico

Massimo Introvigne intervistato da Caterina Danese (Quaderni Radicali, anno 28, n. 92, luglio-agosto 2005)

All’indomani degli attentati di Londra, abbiamo contattato il dr. Massimo Introvigne, direttore del Centro Studi Nuove Religioni (CESNUR) di Torino, che ha gentilmente risposto alle nostre domande.

Il terrorismo islamico colpisce ancora e sceglie Londra, capitale della tolleranza e del multiculturalismo (per giunta nel suo punto più sensibile: la Metropolitana). Secondo lei, si è trattato di un gesto possibilmente prevedibile nel giorno in cui si aprivano ufficialmente i lavori del G8? Tanto più che già a partire dall’11 settembre 2001 l’Inghilterra si aspettava di dover, prima o poi, subire un gesto estremo di questo tipo...

Io credo che l’attentato non potesse essere previsto nello specifico perché tutti i giorni sono buoni e tutti i luoghi sono potenziali obiettivi. La previsione generica, come oggi si cerca di fare per l’Italia, è sempre possibile ma quella specifica no. Non è possibile prevedere il numero di date che nella mente del terrorista possono essere significative o, al contempo, il numero di luoghi possibilmente attaccabili, poiché essi sono tendenzialmente infiniti. D’altro canto i terroristi, al contrario dei no global o degli anarchici, non si sono mai interessati del G8, per cui credo che la previsione dell’evento fosse effettivamente impossibile. Avrebbe potuto essere il giorno delle elezioni o magari quello prima, o addirittura il giorno dell’assegnazione delle olimpiadi a Londra, qualche anniversario nella storia delle battaglie dell’Islam… Detto in breve, quasi qualunque giorno può avere un riferimento significativo.

 

In quel giorno gli occhi erano tuttavia già puntati sulla Gran Bretagna…

Senz’altro. Lo ripeto, lo specifico di questo terrorismo, lo si dice in qualunque riunione internazionale in cui si cerchi di fare prevenzione sul tema, è che la previsione specifica è assolutamente impossibile. Quello che abbiamo dinnanzi è un terrorismo diverso da quello delle Brigate Rosse, nel senso che, nei confronti di queste ultime ci si poteva difendere o, almeno, proteggere un certo numero di obiettivi sensibili. Le Brigate Rosse volevano, infatti, colpire determinate persone e specifici obiettivi istituzionali che erano già molti… non era facile già allora difendersi, ma era relativamente più possibile! Per il terrorismo di al-Qaeda invece, qualunque scuola, qualunque autobus, ristorante, mercato o vagone della metropolitana rappresenta un potenziale obiettivo. D’altro canto, non è possibile difendersi neppure trasformando i nostri Paesi in Stati di polizia. Ci sono, infatti, Paesi che vivono in questa condizione, come l’Arabia Saudita, il Pakistan o l’Algeria dove, comunque, nonostante ciò, il terrorismo riesce a colpire lo stesso. Non si può certo immaginare di proteggere tutti i ristoranti, i mercati, gli autobus o i vagoni della metropolitana!

 

Lei ha citato il caso dell’Arabia Saudita e del Pakistan nello stesso modo in cui, recentemente, ha fatto lo studioso Victor Davis Hanson in un intervento pubblicato sul “National Review Online”. A tale proposito le sue parole sono assolutamente esplicite: “(…) il più delle volte si tratta di dittature (…) che, invece di riformarsi, scendono a compromessi con i terroristi (…) per deviare la rabbia delle loro opinioni pubbliche contro l’Occidente e gli Ebrei”. Concorda con questa impostazione?

Nell’articolo di Hanson ci sono elementi sicuramente condivisibili. Altre tematiche sono invece trattate in modo meno articolato, sicuramente a causa di limitazioni redazionali. In ogni modo, credo che si debba fare una ricostruzione più complessa del fenomeno e cioè, partire dall’idea che non tutti i musulmani sono fondamentalisti e non tutti i fondamentalisti sono terroristi. Quanto ai fondamentalisti, non si tratta di una maggioranza tra gli oltre un miliardo di musulmani, ma di una minoranza ugualmente consistente. La dimensione poi che io chiamo “ultra-fondamentalista”, e distinguo dal fondamentalismo in genere, cioè quella disponibile a ricorrere ad atti di terrorismo, è un mondo che può contare su qualche decina di migliaia di persone. Certamente, tra il fondamentalismo e l’ultra-fondamentalismo esistono delle specifiche relazioni, un po’ come avveniva in Italia negli “anni di piombo”, quando la sinistra extraparlamentare era composta da centinaia di migliaia d’individui ed i terroristi erano semplicemente migliaia. Tra i due vi era però un legame: per i primi i secondi erano compagni che sbagliavano ma che, allo stesso tempo, non venivano ugualmente mai denunciati.

La medesima considerazione vale, oggigiorno, per il mondo islamico dove, però, questa distinzione è molto più importante. All’interno del fondamentalismo, la corrente ultra-fondamentalista, pur essendo molto più consistente delle vecchie Br, è comunque una minoranza. Con questo, anche il fondamentalismo può essere considerato “corresponsabile” di gesti violenti attuati dalla sua corrente estrema, poiché ha delle grandi difficoltà a prendere le distanze da questi gruppi che, seppur criticati, non sono mai denunciati. Insomma, si attua un comportamento omertoso.

Circa il secondo punto cui lei accennava, l’ultra-fondamentalismo, che ha trovato un teorico sistematico in al-Zawahiri, più che in Bin Laden (che al contrario non scrive libri) in realtà non è un movimento puramente utopistico. Direi che da un certo punto di vista è assai meno utopistico delle vecchie Br ed ha degli obiettivi molto concreti che sono: prendere il potere o, almeno far prendere il potere ai suoi cugini ideologici, i fondamentalisti. Ma non certamente a Palazzo Chigi o alla casa Bianca o a Downing Street, ma appropriarsi del potere nei Paesi chiave del mondo islamico: l’Arabia Saudita e l’Egitto anzitutto. E poi, eventualmente, anche in altri Stati, tra cui la Turchia, la Giordania, il Marocco, la Tunisia ed il Pakistan. Zawahiri, che si forma all’interno dei Fratelli Musulmani (tipico movimento fondamentalista ma non ultra-fondamentalista) da cui, successivamente si allontana, insiste su una specifica questione (ben chiarita anche all’interno del suo libro Cavalieri sotto la bandiera del Profeta) e lo dimostra portando il “caso Sadat”. Da una costola dei Fratelli Musulmani nacque l’attentato a Sadat, che – ci dice Zawahiri – rappresentò una grande vittoria militare per il fondamentalismo. Si trattava, infatti, di un personaggio molto protetto e, nonostante ciò, brutalmente assassinato. I Fratelli Musulmani immaginavano, però, che dopo l’attentato a Sadat l’opinione pubblica si sarebbe schierata a loro favore verso un’insurrezione islamica ed, invece, avvenne tutto il contrario. L’opinione pubblica manifestò in massa contro il fondamentalismo islamico ed applaudì l’impiccagione dei loro principali capi. Dunque vittoria militare ma sconfitta politica.

L’evento portò Zawahiri, che tra l’altro se la cavò con una sentenza piuttosto mite, ad uscire dalla Fratellanza con questa riflessione: “in realtà i Sadat di questo mondo sono semplicemente dei manichini che stanno su perché li sostiene l’Occidente per cui, abbattuto un manichino l’Occidente ne mette subito su un altro”. Da qui nasce l’idea di dover “alzare il tiro” e portare direttamente il terrorismo in Occidente, perché quest’ultimo, ripetutamente colpito, finirà per stufarsi e smetterà di sostenere i manichini. Conseguentemente, l’opinione pubblica di questi Paesi democratici occidentali finirà per favorire la forma di “Stati isolazionisti” che diranno: “perché morire per il Cairo?” e finiranno per disinteressarsi dell’area. Senza la protezione dello scudo occidentale anche i governi fantoccio cadranno.

In conclusione, sostiene il teologo ultra-fondamentalista: meno terrorismo in Paesi come l’Arabia Saudita, senza però, “per carità” – si precisa – “abbandonarlo del tutto”, e più terrore a Londra, a Madrid, a Roma o, appunto, a New York. Questa strategia è, probabilmente, destinata a fallire, poiché non considera gli umori di alcuni elettorati ed in particolare di quello americano, che non reagisce come quello spagnolo ma, anzi, risponde agli attentati con maggiore attivismo.

 

Tornando alla definizione di ultra-fondamentalismo, in questa dimensione, al di là d’interessi specifici, calcoli razionali e legami causa-effetto, quanto c’entra l’elemento religioso?

Questa è una domanda tipicamente occidentale. Qualche anno fa ero in Marocco, quindi uno dei Paesi più moderati (anche se poi questa parola non piace a nessuno del mondo islamico fuori dall’Europa), e sfogliavo i libri di testo dei bambini delle scuole medie. Per spiegargli come sono fatti gli europei, che pure si trovano a due ore di volo da loro, si raccontava che sono “strani”, ma così strani perché pensano che esista una differenza tra la religione e la politica. Per cui, per un musulmano la domanda non ha senso poiché la religione è integralmente politica e la politica può essere solo se religiosa. La distinzione la imponiamo noi dall’esterno, con lo sguardo un po’ “orientalista” dell’occidentale, ma in realtà questa non sussiste affatto. Se c’è qualche cosa che connota profondamente la tradizione musulmana, è che tracciare un confine preciso tra religione e politica è praticamente impossibile.

 

Ma la religione non viene vissuta differentemente tra le fila del fondamentalismo e quelle dell’ultra-fondamentalismo? Questo proprio perché esiste una sostanziale differenza tra i due gruppi. In caso contrario sarebbero tutti, potenzialmente, ultrafondamentalisti e, dunque, terroristi…

L’Islam non è un monolito e non ci sono solo i fondamentalisti e gli ultra-fondamentalisti. Io credo che entrambi siano, in ogni modo, minoritari nell’Islam, poiché, la grande maggioranza della popolazione musulmana si riconosce in una religione definita sempre di più in molti Paesi “centrista” e che, erroneamente, noi traduciamo con il termine “moderata”. Questa dimensione, che io chiamo “Islam conservatore”, che probabilmente rappresenta l’opinione della grande maggioranza dei musulmani nel mondo, non è, in ogni modo, l’Islam laico che favoleggia qualche autore che scrive in Occidente. Si tratta di una dimensione che rifiuta duramente il principio di laicità e quello di separazione dei poteri (religione e politica) e, ancora, rifiuta profondamente l’idea che il Corano possa essere soggetto di una lettura storico-critica come i cristiani fanno con la Bibbia.

Nello stesso tempo, però, si dimostra anche aperto all’idea che l’unione di religione e politica possa essere declinata diversamente a seconda delle epoche storiche. Ci diranno che il Profeta stesso si comportò diversamente nel periodo meccano ed in quello medinese; che i primi Califfi si comportavano diversamente quando le cose andavano bene o quando invece andavano male e che quindi, oggi, l’Islam pur rimanendo fermo sui due pilastri del rifiuto del principio di laicità e su quello relativo all’intangibilità del Corano li può interpretare in un modo che tenga conto del contesto moderno. Entro certi limiti, questi credenti sono disposti ad aprirsi alla democrazia e a tutto ciò che essa può comportare. Partendo dal presupposto che è il contesto che cambia e non la parola di Dio, i “conservatori” credono che oggi si possa arrivare a soluzioni pratiche differenti.

Questa è, per esempio la posizione del primo ministro turco Erdogan o quella dell’attuale primo ministro malese che fa riferimento a quello che chiama un “Islam di civiltà”. E, ancora, è 0,la posizione dei due re del Marocco e della Giordania. Credo che questa sia oggi anche la posizione maggioritaria nel mondo islamico. Un errore che si fa spesso in Occidente è quello di andare a cercare di dialogare solo con le frange “progressiste” o “ultra-progressiste” che esistono ma che sono sicuramente minoritarie. Queste frange sono invece disponibili a mettere in discussione i due pilastri di cui parlavamo prima e cioè, accetterebbero sia il principio di laicità che la possibilità di leggere il Corano in modo storico-critico. I rappresentati di queste correnti li troviamo principalmente fra generali come il presidente tunisino, un miscredente che si dichiara musulmano senza, però, troppo crederci. Oppure li troviamo fra gli intellettuali, che vanno benissimo per fare convegni nelle nostre Università ma che si scopre poi avere un seguito molto molto modesto nei Paesi musulmani.

L’Islam progressista ed ultra-progressista è un Islam che se avrà un futuro lo avrà forse tra qualche generazione, lo vedranno i nostri figli nella diaspora in Italia, in Francia ed in Germania, ma per il momento non bisogna farsi illusioni e bisogna invece tener presente che nei Paesi islamici se va alle elezioni marcia a percentuali dello zero virgola…

 

Tornando al “caso Londra”, il premier inglese ha operato una precisazione “tra musulmani e terroristi”. Blair si riferiva ad un potenziamento della comunità esistente nel suo Paese per combattere la piaga dell’ultra-fondamentalismo. Cosa ne pensa?

Credo che gli uomini politici si esprimano in modo accademico e, di conseguenza, in termini necessariamente semplificati. Io ho sempre parlato di cinque o sei correnti dell’Islam, a cominciare da un ultra-progressismo completamente integrato nella società Occidentale e che fa capo ad intellettuali come Kaled Fouad Allam ma che, ripeto, come dimostrano indagini sociologiche, anche in Paesi come l’Italia, con la diaspora musulmana, hanno un numero di seguaci abbastanza minoritario e lo stesso vale per l’Inghilterra.

Poi c’è un progressismo alla vecchia maniera, quello che vuole importare dall’Occidente il modello della nazione e dello Stato nazionale, ovvero un modello che non c’è nel Corano e quindi tende ad esportare tutta una serie di principi occidentali tra cui, molto raramente, la democrazia. Questo è il sistema degli Ataturk, dei Nasser, degli Arafat, dei Saddam Hussein che oggi appare in declino poiché non ha risolto i problemi economico-politici dei Paesi in cui è andato al potere. Poi c’è quella parte maggioritaria, che seguendo anche le loro preferenze preferisco chiamare di “conservatorismo democratico” e, per finire, ci sono i fondamentalisti e gli ultra-fondamentalisti. I fondamentalisti vanno poi distinti in tradizionalisti, di obbedienza saudita, che sono molto più interessati alla morale individuale e quelli che invece si rifanno al pensiero dei Fratelli Musulmani egiziani o alla Associazione islamica pakistana e che sono, invece, più interessati alla politica ed un po’ meno alla morale sessuale.

L’Inghilterra è un Paese dove ci sono molti musulmani e tutte queste posizioni sono rappresentate. Il problema politico è quello di non commettere l’errore, che a mio avviso è stato commesso in Francia, di cercare d’imporre ai musulmani una dirigenza ultra-progressista. È questo un rischio che si corre, poiché gli intellettuali di questa corrente, ovvero quelli perfettamente integrati e che accettano anche il principio di laicità, sono quelli che parlano bene, magari sono professori universitari, magari sono quelli con cui è facile dialogare ma che, però, poi si scopre non avere rappresentatività presso la comunità. Lo Stato li può anche chiamare a presiedere organizzazioni islamiche ufficialmente riconosciute, ma sono poi oggetto di sberleffi da parte della maggioranza dei musulmani che non li seguono in nessun modo. Questo è il primo errore da evitare.

Il secondo problema è che cosa fare dei fondamentalisti che non sono “ultra-fondamentalisti”. Credo che questa parte, in qualche modo, si debba pur riconoscere senza, però, conferirgli una rappresentanza esclusiva nel mondo islamico. Riassumendo, due sono gli errori da evitare: né privilegiare i progressisti che non hanno seguaci, né i fondamentalisti che invece ne hanno molti ma sono inaffidabili dal punto di vista del rispetto dei nostri principi. Una soluzione potrebbe essere quella di trattare con la società islamica tenendo presente tutte le sue componenti e, laddove ci siano (perché non sempre ci sono), privilegiare le forze di tipo centrista e conservatore.

 

Blair parla anche di lotta al terrorismo per difendere i valori occidentali. In riferimento ai due tipi di errori che si dovrebbero evitare, come si fa a conciliare i valori occidentali con quelli musulmani “centristi o conservatori”? Ma soprattutto quali sono questi valori?

Il problema dell’Occidente quando deve andare a stringere le mani altrui è quello che spesso non possiede proprio le mani, o meglio, non sa bene quali siano le sue mani! Oggi ci si può riempire la bocca con la nozione di “Occidente” ma poi, su quali siano questi valori che lo stesso Occidente mira a proteggere e diffondere ci sono dei fortissimi contrasti.

 

Di questa debolezza dell’Occidente approfitta il fondamentalismo…

Certo. Quando il Papa parla di “Occidente” nel suo bellissimo dialogo con Habermas, pubblicato recentemente anche in lingua italiana, entrambi concordano nel dover rimanere stretti ai valori occidentali nei confronti della sfida dell’Islam, questo però, fino a quando se ne parla come di un legato storico. Non appena si va, infatti, a precisare in merito a specifiche tematiche come la famiglia, l’aborto o la scuola privata, cominciano a non essere più d’accordo quasi su nulla. Da qui ben si comprende come il vero problema sia la profonda crisi d’identità vissuta proprio dall’Occidente.

La medesima incertezza emerge anche a proposito del dibattito sulla democrazia: il Papa ed Habermas discutono in merito alla nozione “procedurale” della stessa, non concordando se questa possa rappresentare un semplice metodo per decidere “che cosa fare” o invece, come pensa il Papa, comporti dei valori fondamentali che neppure la maggioranza può cambiare.

 

Il principale nemico del terrorismo non è proprio la democrazia?

Assolutamente, il terrorismo colpisce gli sviluppi democratici. Uno studioso del mondo arabo come Renzo Guolo ci invita a distinguere tra democrazie formali e sostanziali presenti nel mondo arabo. Esistono, infatti, democrazie di diverso grado, alcune quasi complete ed altre un po’ fasulle. Prendiamo come esempio l’Algeria, Stato nel quale si sono tenute le elezioni lo scorso 2004. Nessuna accusa di “brogli elettorali” ma il partito fondamentalista “Fis” (Fronte islamico di salvezza), che secondo i sondaggi avrebbe probabilmente raccolto la maggioranza relativa, ha finito anche stavolta con l’essere escluso dalle elezioni. Tipico esempio di democrazia meramente formale. Anche in Turchia le cose sono spesso state così. Nella stessa Arabia Saudita, seppur con estrema lentezza (da molti definita “ritardo”), si sono attualmente verificati dei tentativi democratici, almeno a livello di una parte dei consigli comunali.

Da non trascurare che, proprio in risposta a questo tentativo, ultimamente si è registrato un exploit di attentati terroristici di al-Qaeda. La verità è che gli ultra-fondamentalisti non vogliono la democrazia! Non vogliono che in questi Paesi ci si possa contare, perché laddove questo sia possibile si scopre che le loro posizioni non sono assolutamente quelle maggioritarie ma che la stessa azione fondamentalista, laddove sia contrastata da forze non solo laiche ma anche musulmane centriste, di rado riesce a raggiungere la maggioranza.

 

Proprio in relazione ai recenti fatti di cronaca, lei pensa che l’ultra-fondamentalismo possa essere considerato un fenomeno sostanzialmente debole?

Sono sempre stato contrario, in tempi non sospetti, al testo di Gilles Kepel, il quale, poco prima della crisi provocata dagli attentati dell’11 settembre 2001, aveva parlato della decadenza del fondamentalismo Islamico e che, ancora poco prima di quella data, aveva invece sostenuto che l’organizzazione ultra-fondamentalista di al-Qaeda non rappresentasse più un pericolo. Qui si tratta di intendersi sul concetto di forza e di debolezza dell’ultra-fondamentalismo islamico. Esso non è mai stato un movimento maggioritario, seppur consistente ed importante. Si tratta di un gruppo minoritario e che, indubbiamente, negli anni che vanno dal 1999 al 2001 ha avuto il suo apogeo in quanto a numero di militanti e capacità militare.

Questo apice di potere derivava dall’esistenza di una sorta di “portarerei” da cui far partire i suoi attacchi, in Afghanistan, creata a seguito degli accordi tra Osama Bin Laden ed i talebani, dalla quale far partire i terroristi. Con lo smantellamento delle basi in Afghanistan (anche se altre ne rimangono in zone più remote), dopo il 2001, l’ultra-fondamentalismo è da considerarsi sostanzialmente indebolito, almeno sul piano militare.

 

Riesce comunque a farsi sentire…

“Un po’ più debole” non vuol dire che sia stato smantellato, stiamo comunque parlando di movimenti che, nel loro complesso, possono vantare decine di migliaia di persone pronte ad attivarsi.

 

La cosa più sconvolgente è che si tratta di persone non assolutamente identificabili in modo preciso. Adepti conformati da medesimi atteggiamenti, addirittura compiutamente organizzati all’interno di specifici documenti. Esiste, infatti, una sorta di vademecum per l’attentatore...

È una riflessione che fu fatta a suo tempo tra Bin Laden e Zawahiri ed altri personaggi (alcuni morti o arrestati) subito dopo il fallimento dell’attentato all’aeroporto di Los Angeles nel 2000, a capodanno. Nella sostanza i terroristi vennero scoperti perché, come sostiene al-Qaeda, avevano la faccia da terroristi: lunghe barbe e Corano sotto il braccio. Da allora questo manuale, che è stato ritrovato nel 2001 in Afghanistan, ci dice che il terrorista non deve sembrare tale; non deve frequentare la moschea, si deve vestire all’occidentale e questo è permesso poiché si tratta di un’astuzia di guerra. Al limite è anche accettato che questi uomini vadano con le prostitute! Ma questa è lezione del fallimento del 2000.

 

La strategia del “mordi e fuggi” descritta da Hanson, volta a esasperare l’Occidente e, nel caso specifico, gli Stati Uniti, senza provocare mai una reazione forte prefigura la possibilità di continuare ad operare “quasi” liberamente. Non è così?

L’ultra-fondamentalismo ha recentemente un po’ aggiustato la sua strategia: lo schema d’azione utilizzato prima dell’11 settembre era quello pubblicato nel libro di Zawahiri, Cavalieri sotto la bandiera del Profeta. In questo scritto si sosteneva l’idea che, attraverso colpi messi a segno contro l’Occidente (Stati Uniti compresi), si sarebbe riusciti a determinare una posizione di tipo isolazionistica. Di conseguenza, con un minore sostegno dell’Occidente agli alleati nei Paesi a maggioranza islamica, si sarebbe favorito il crollo di regimi non popolari. Il tiro è stato oggi un po’ corretto:

pochi veramente credono che sia possibile far diventare arrendevole l’opinione pubblica degli USA ma, soprattutto, si parla molto di più di isolare gli USA dall’Europa. Questa è la strategia che va da Madrid a Londra. Non può escludersi che sussista una qualche forma di consapevolezza, da parte della dirigenza di al-Qaeda, in merito alla difficoltà di provocare negli Stati Uniti la reazione isolazionista che ci si aspettava e che, invece, si voglia conseguire un obiettivo apparentemente più modesto, o forse preliminare all’obiettivo finale, identificato nell’obiettivo di isolare gli USA dai loro alleati.

Il loro scopo non è quello di arrivare al potere in Italia o negli Stati Uniti (anche se nei loro testi si legge che per questioni demografiche, nel giro di cinquant’anni, in Europa i musulmani saranno la maggioranza) il loro scopo è quello d’impadronirsi del potere nei Paesi considerati a portata di mano: come l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Pakistan. La Turchia è già più difficile.

Semplificando, la strategia antica era: facciamo uno, due, tre attentati negli USA e mettiamo al potere degli individui forse conservatori ma isolazionisti e che, soprattutto affermino “occupiamoci dei fatti nostri, in fondo riserve di petrolio ci sono altrove, negli stessi USA, in Venezuela…”. Questa strategia, però, non ha funzionato, nel senso che l’11 settembre 2001 ha provocato negli Stati Uniti tutto il contrario di quello che gli ultra-fondamentalisti si auguravano: hanno distrutto la loro portaerei afgana e, per il momento, la strategia (che era una strategia con una sua logica e non assolutamente folle) ha fallito. Naturalmente Zawahiri non imputa a sé questo fallimento, ma, semplicemente, ritiene che nessun albero vada giù al primo colpo di scure… dunque l’11 settembre ha rappresentato solo il primo colpo. Tecnicamente però, questo tipo di operazioni in America sono molto difficili da organizzare a causa di un apparato di sicurezza che, insieme a quello israeliano, è il migliore del mondo. Anche gli attentatori lo sanno.

Ecco allora giustificato questo aggiustamento di rotta, come constatiamo consultando alcuni documenti del 2002/03 nei quali si legge: “la prima mossa per convincere gli USA a diventare isolazionisti è farli diventare isolati e cioè aprire un varco, una spaccatura insuperabile tra gli USA ed i loro alleati europei”.

Vi erano documenti che sostenevano l’imprescindibile necessità di un attentato alla vigilia delle elezioni spagnole, necessario a far crollare il governo Aznar. Proprio in riferimento a questo fatto dobbiamo essere consapevoli che la letteratura jihadista presenta l’11 marzo 2004 come una vittoria. In altre parole, lo scopo di far perdere le elezioni ad Aznar e mandare al potere un leader isolazionista come Zapatero, è presentato all’opinione pubblica araba come un trionfo. Questo è molto pericoloso perché quello che si ritiene abbia funzionato una volta potrebbe anche essere ritentato una seconda, per esempio in Italia.