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Perché i soldati italiani devono lasciare il Libano

di Massimo Introvigne (il Giornale, 23 novembre 2006)

Gli italiani devono sapere che sul Libano - come su tante altre cose - il governo Prodi li ha presi in giro. Ieri Repubblica, con l’aria di chi dà lezioni al popolo bue, spiegava che «è evidente a tutti i governi occidentali (ma non ai parlamentari del Polo)» che i soldati italiani e francesi «non hanno né i numeri né i mezzi» per evitare che gli Hezbollah, se lo decidono la Siria e l’Iran, scatenino una guerra civile in Libano. Grazie a Repubblica per avere finalmente scoperto l’acqua calda, ma in verità la Casa delle Libertà l’aveva detto fin dall’inizio della missione italiana. Lo avevano detto anche i cristiani libanesi. Da anni le bombe e il sangue hanno loro insegnato che con le parole, il «dialogo» e le truppe che non sparano non si battono né la Siria né gli Hezbollah, quasi certamente rispettivi mandanti ed esecutori dell'attentato al leader cattolico Gemayel.

Al solito, il governo non è d’accordo anzitutto con se stesso. Mentre Prodi propone la missione in Libano come «modello» per risolvere i problemi anche dell’Irak e della Palestina, D’Alema confessa più onestamente di essere deluso dal suo esito. In Libano le truppe dell’Onu svolgono sostanzialmente il ruolo di spettatori. Giacché le regole d’ingaggio esigono che non combattano, non possono che fingere di non vedere i convogli che quotidianamente portano armi agli Hezbollah dalla Siria e dall’Iran. Armi che servono per uccidere: la stagione della caccia all’oppositore del terrorismo e della Siria è ufficialmente ricominciata con l’agguato a Gemayel.

In teoria, i terroristi dovrebbero essere disarmati dal governo libanese di Siniora, sotto la vigilanza dei nostri soldati e di quelli francesi. Non un solo militante degli Hezbollah è stato disarmato, né Siniora ha mai provato a farlo. Ben lungi dal ringraziarlo, il sanguinario leader degli Hezbollah, Nasrallah, minaccia ora di dargli il benservito come a un cameriere che non serve più, a meno che metta il suo governo nelle mani dei terroristi, con un rimpasto che conceda loro almeno dieci ministri. Ancora una volta, non è in questione la professionalità dei soldati italiani, abbondantemente dimostrata a Nassirya, che rimane ancora oggi la zona dell’Irak con minore densità di terroristi e di attentati. Sono le regole dell’Onu e le istruzioni del governo che legano loro le mani. Quanto ai francesi, hanno semmai armato la contraerea minacciando di sparare sugli aerei israeliani.

E tuttavia su un punto Chirac aveva ragione. Toccato nel profondo degli affetti (e degli affari) dall’assassinio dell’amico fraterno Rafik Hariri nel febbraio 2005, il presidente francese rimane assai scettico sulla possibilità che la Siria approfitti della seconda opportunità che l’Occidente ora gli concede - dopo la prima, al momento della successione di Bashar Assad al padre nel 2000 - per trasformarsi da Stato canaglia in regime autoritario ma disposto a collaborare nella lotta al terrorismo. Gli stessi Stati Uniti avevamo manifestato, pur senza farsi troppe illusioni, una cauta apertura alla Siria. Convinto da Nasrallah che ha ora la concreta possibilità di riprendersi il Libano, il presidente siriano sembra invece aver scelto, con l’assassinio di Gemayel, di rimanere nel fronte delle canaglie. Nel frattempo i soldati italiani - sbarcati in Libano in una festa di riprese televisive da Isola dei famosi - continuano a fare da spettatori: non per colpa loro, ma con ingenti spese per i contribuenti. D’Alema trasformi la sua delusione in scelte conseguenti, e li riporti a casa.