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Chirac d'Arabia, l'antioccidentale

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 5, n. 47, 25 novembre 2006)

Nel 1980 il sindaco della capitale di un Paese europeo si reca a Roma, dal Papa da poco eletto, Giovanni Paolo II, per cercare di spiegargli dove sarebbe meglio che andasse – e non andasse – nel corso della sua prossima visita in quel Paese. Non ottenendo soddisfazione da Papa Wojtyla, che – come si scoprirà nel corso degli anni successivi – è tutto meno che quel polacco ingenuo e manipolabile che una certa stampa in quegli anni descrive, il sindaco dichiara che è venuta l’ora di “vomitare la civiltà romana che ci ha privato della nostra identità e della nostra anima celtica” (avviso ai lettori: il personaggio in questione non è italiano, né tanto meno iscritto alla Lega Nord). “Il cristianesimo – prosegue l’uomo politico, che è già stato primo ministro del suo Paese (ma all’epoca non lo è più) – non ha né l’antichità, né la tolleranza né la vera profondità mistica delle grandi religioni asiatiche. Le nostre radici non si trovano certamente qui a Roma, ed è un’impostura pretendere che noi siamo nati da Roma e da Atene”.

Il personaggio in questione si chiama Jacques Chirac, e il fatto che un uomo con idee simili abbia dominato la politica europea per oltre un quarto di secolo dice molto sull’attuale tragica condizione dell’Europa. Quanto agli Stati Uniti, divenuto presidente della Repubblica francese, Chirac dichiarerà: “Ho un principio semplice in politica estera. Guardo quello che fanno gli americani e faccio il contrario. È allora che sono sicuro di avere ragione”. Un suo collaboratore assicura che “l’anti-americanismo inteso come rifiuto dell’Occidente (…) fa parte del nocciolo duro delle sue convinzioni”.

Sono alcune perle di Chirac d’Arabie, un libro assai atteso in Francia e appena pubblicato dalle edizioni Grasset, dove due giornalisti del quotidiano Libération (con un passato trotzskista e un presente socialista), Christophe Boltanski ed Eric Aeschimann, raccontano la lunga storia dei rapporti fra il presidente e i Paesi islamici. Pur tenendo conto dei pregiudizi politici degli autori, il libro è di grande interesse. Ne emerge il ritratto di un uomo definito dal suo rifiuto dell’Occidente. Sotto l’influsso di una certa cultura “tradizionalista” – che peraltro gli autori del libro conoscono poco, così che ci privano di riferimenti più precisi, che sarebbe stato invece di estremo interesse conoscere –, a quattordici anni il liceale Chirac studia il sanscrito e proclama che la vera Tradizione sopravvive soltanto in Oriente e in particolare nelle dottrine dell’India. 

Hussein, Hitler & dintorni

Militare in Algeria – dove, secondo quanto egli stesso riferisce, tiene ad avere la sua prima esperienza sessuale in modo anch’esso “non occidentale”, in un bordello della casbah di Algeri –,  si convince che la Tradizione non vive solo in India, ma anche e soprattutto nell’islam. Il filo-islamismo di Chirac viene dunque da un confuso accostamento a un certo tradizionalismo non cattolico, ed è diverso dal tradizionale filoislamismo della diplomazia francese influenzata dallo studioso cattolico dell’islam Louis Massignon. Quest’ultimo era infatti filosciita, mentre Chirac ha sempre diffidato degli sciiti preferendo i sunniti, da cui la pluriennale amicizia (e gli affari) con il libanese Rafic Hariri e gli anatemi dopo l’assassinio di Hariri nel 2005 contro il regime alauita (cioè aderente a uno scisma sciita) siriano, un regime a suo tempo sostanzialmente inventato da una diplomazia francese ampiamente ispirata da Massignon.

Ma per Boltanski ed Aeschimann si tratta di un “esotismo” da dilettante, che non approfondisce le tradizioni che dice di amare e che – trasformatosi in politica – si traduce in una preferenza per “l’islam dei capi” (di preferenza despoti) rispetto all’“islam dei popoli”. Di qui gli aspetti più imbarazzanti per Chirac del volume, tra cui spicca il cordiale rapporto con Saddam Hussein, nato quando Saddam era il capo dei servizi segreti irakeni e alimentato dal comune amore per il lusso (che ha unito in passato Chirac anche a tanti despoti africani). Aerei speciali irakeni portavano a Chirac a Parigi le prelibate carpe del Tigri, appena pescate, mentre Saddam arrivava in incognito in Provenza per assistere a false corride organizzate dall’amico presidente. Dal momento che gli autori appartengono a una Sinistra francese antiamericana, per loro Chirac sull’ultima guerra in Iraq ha detto le cose giuste, ma per il motivo sbagliato: la difesa del regime di Saddam, che a suo tempo aveva soprannominato nientemeno che “il De Gaulle del Medio Oriente” e con cui, secondo l’ex ambasciatore dell’Iraq all’ONU Amir Alanbari, il presidente francese, almeno fino all’invasione del Kuwait, manteneva “una relazione cordiale che andava ben al di là di quella che esiste normalmente fra dirigenti politici di Paesi diversi”.

Né si tratta solo di simpatia umana – già di per sé inspiegabile nei confronti di un criminale abitualmente descritto come arrogante e maleducato quale Saddam – giacché non manca un elemento ideologico. Di fronte all’ideologia baathista del partito di Saddam, Chirac si entusiasma e commenta che essa coniuga “il nazionalismo nel miglior senso del termine e il socialismo come modo di mobilitare le energie e di organizzare la società di domani, entrambi sentimenti molto vicini al cuore dei francesi”. Nazionalismo più socialismo danno come risultato nazional-socialismo, ma Chirac non se ne accorge. O forse sì? Tra i suoi collaboratori, sostengono gli autori di Chirac d’Arabie, “quando Saddam usa il gas contro la popolazione curda del suo Paese, alcuni non esitano a sostenere che dopo tutto è qualcosa che si può paragonare alla lotta dei Bleus [che qui non sono i giocatori della nazionale francese di calcio, ma i più feroci soldati della repressione giacobina durante il Terrore] contro i Vandeani”. Dove, è chiaro, le simpatie di Chirac non vanno certo ai Vandeani.

Il bilancio finale di un libro che, benché  fin troppo incentrato sugli affari sospetti, sulle valigie di euro e di dollari che arrivano dai despoti arabi a Parigi, come è tipico degli autori di una certa scuola giornalistica di sinistra francese, offre nondimeno anche importanti elementi ideologici, e in questo senso andrebbe letto anche da molti politici italiani, è che sull’islam Chirac pecca di “arcaismo”.

Mantenere l’ordine pubblico nei Paesi islamici sostenendo despoti di preferenza laicisti e maneschi, contrastando ogni evoluzione democratica giudicata “una cosa da americani”, e ignorando la società civile ormai non funziona più. Uno dopo l’altro, i despoti cadono, e i popoli non perdonano chi li aveva sostenuti. Il sostanziale fallimento di Chirac potrebbe insegnare molto a Romano Prodi e a Massimo D’Alema: ma anche a una certa Destra italiana, che s’illude che le dittature militari nei Paesi islamici possano ancora a lungo costituire un’alternativa al terrorismo. In realtà, sono i nemici dell’Occidente come Chirac che rimangono ancora oggi i migliori amici dei despoti.