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Chiede clemenza a Gheddafi. E Prodi fa un altro passo falso

di Massimo Introvigne (il Giornale, 22 dicembre 2006)

Romano Prodi è partito con il piede sinistro sulla questione dell'infame condanna a morte in Libia delle infermiere bulgare e del medico palestinese accusati di avere volontariamente inoculato il virus dell'Aids a 426 bambini dell'ospedale di Bengasi. Ha chiesto a Gheddafi «un atto di clemenza». Ma la clemenza si chiede per i colpevoli, non per gli innocenti. Lasciar passare la tesi che le infermiere bulgare sono colpevoli non è solo un'offesa alla verità e alla giustizia. Conferma la piazza araba nella convinzione che la Cia, il Mossad, l'Occidente e «gli ebrei» hanno volutamente infettato centinaia di bambini: che gli americani, gli europei e gli israeliani sono mostri contro i quali gli attentati di Al Qaida sono pienamente giustificati. Al dittatore libico si deve dunque chiedere giustizia, non clemenza.

Dopo l'11 settembre Gheddafi ha smesso di sostenere il terrorismo e ha persino promesso all'Italia e all'Europa - anche se non mantenuto, tanto meno negli ultimi mesi - di limitare le partenze dei barconi di emigrati clandestini diretti in Sicilia. Si tratta indubbiamente di vittorie dell'Occidente, dovute anche al buon lavoro del governo Berlusconi. A riprova, ora che non c'è più il gatto in Italia i topi in Libia ricominciano a ballare. La condanna a morte delle infermiere bulgare era già stata pronunciata nel 2005. Ma era stata annullata: formalmente per vizio di procedura, in realtà per le pressioni internazionali, fra cui quelle italiane.

Ripetuto il processo, la nuova condanna a morte è giunta a tempo di record. Le parole non bastano. Nessun desiderio dell'attuale esecutivo italiano di non fare arrabbiare Gheddafi - che potrebbe reagire, turbando i nostri mercati con i pacchetti di azioni di grandi aziende italiane che detiene e moltiplicando le partenze dei barconi - dovrà impedire un'azione durissima che costringa la Libia a cassare la sentenza, analoga a quella già dispiegata un anno fa dal governo di centrodestra e, si spera, ugualmente efficace. Non c'è infatti nella comunità scientifica internazionale il minimo dubbio sul fatto che il virus dell'Aids si sia diffuso a Bengasi non per un complotto occidentale ma per le pessime condizioni igieniche dell'ospedale, di cui è responsabile lo stesso governo libico. Gheddafi sostiene che alcune delle infermiere avrebbero confessato. Ma al primo processo del 2001 una delle accusate, Nasya Nenova, è riuscita a gridare di aver tentato di suicidarsi non potendo più sopportare le scosse elettriche che i torturatori le infliggevano per costringerla a confessare. E un rapporto del Consiglio d'Europa documenta altre torture agghiaccianti cui le poverette sono state sottoposte.

Gheddafi, come sempre, non è pazzo. Sfida la comunità occidentale perché i cedimenti - obbligati - in materia di terrorismo gli hanno alienato i favori di una parte della popolazione, che lo accusa di essersi venduto agli Stati Uniti. Nello stesso tempo, il furbo colonnello si crea un'altra moneta di scambio con l'Occidente. Potrà sempre barattare la grazia delle infermiere - magari riducendo la pena a parecchi anni di detenzione - con l'ulteriore tolleranza occidentale sulle sue sistematiche violazioni dei diritti umani e avventure espansionistiche nei Paesi dell'Africa sub-sahariana. Al governo italiano, in particolare, va chiesto di non accettare nessun inconfessabile mercato. Si faccia capire a Gheddafi che le infermiere vanno prosciolte, o le sanzioni economiche sono dietro l'angolo.