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La malattia dell'Occidente. L'11 Settembre e le teorie del complotto

di Massimo Introvigne (Cristianità, anno XXV, n. 339, gennaio- febbraio 2007)

torri gemelleI. Il ritorno delle teorie del complotto

Le teorie del complotto e la visione «complottista» della storia sono oggetto di una vastissima letteratura (1), e hanno trovato negli ultimi anni il loro principale studioso nel sociologo americano Michael Barkun (2). La sociologia maggioritaria definisce il «complottismo» come il tentativo, per definizione minoritario, di conservare in diversi campi del sapere umano — ma principalmente nella storia e nella scienza — elementi del rejected knowledge, della «conoscenza scartata», cioè le ipotesi che la comunità scientifica nella sua vasta maggioranza — mai nella totalità, perché l’espansione del numero delle cattedre e dei docenti fa sì che se ne trovi sempre anche qualcuno a sua volta complottista —, dopo averle esaminate, ha respinto come spiegazioni false o inadeguate della realtà. Il complottista immagina che il rigetto della teoria cui è affezionato non sia avvenuto perché, seguendo i suoi normali e consueti modi di funzionamento, la comunità scientifica è riuscita a «falsificarla», nel senso di provarla come falsa, ma perché la maggioranza degli studiosi — nonché dei mediache riportano le loro conclusioni, e delle istituzioni politiche, professionali e religiose che ne tengono conto — partecipa a un vasto complotto dietro cui si celano «sette» misteriose ma potentissime, interessi inconfessabili o poteri capaci di punire con la morte chiunque non obbedisca.

Mentre «microcomplotti», che coinvolgono un numero relativamente limitato di persone, si verificano quotidianamente in molteplici ambiti — è possibile ed è avvenuto, per esempio, che una decina di colleghi gelosi si mettano d’accordo per impedire a un docente di farsi strada pubblicando un suo articolo su una rivista prestigiosa — i «macrocomplotti» di cui propriamente postula l’esistenza il complottista e che dovrebbero coinvolgere migliaia o anche milioni di persone sono tecnicamente impossibili. Come già metteva in luce la «sociologia del segreto» del sociologo tedesco Georg Simmel (1858-1918), un segreto può essere davvero mantenuto solo da un numero ristretto di persone, al più, qualche centinaio: un segreto noto a migliaia di persone non è più tale, perché è statisticamente certo che qualcuno lo svelerà (3). Il complottismo non ha dunque alcuna plausibilità scientifica: ma ha un grande interesse sociologico, perché è sempre il sintomo di profondi disagi — personali quando si tratta di manie individuali, sociali quando le teorie del complotto sono condivise da migliaia di persone — che vanno studiati e affrontati come tali.

Un esempio clamoroso di come il «complottismo» — come sostiene precisamente Barkun — non sia affatto scomparso, ma anzi cresca, in una società che pure è caratterizzata da una sempre maggiore divulgazione dei risultati delle scienze sia naturali sia umane, storia compresa, è costituito dai sessanta milioni di copie vendute del romanzo dello scrittore americano Dan Brown Il Codice da Vinci (4), che sia l’autore presenta, sia — volendo credere a indagini demoscopiche svolte in vari paesi — una parte importante dei lettori percepisce non come una semplice opera di fiction ma come il disvelamento di un grande complotto che avrebbe occultato la verità sulle origini del cristianesimo e della Chiesa Cattolica. La tesi centrale di Brown è che Gesù Cristo non avrebbe mai preteso di essere Dio, avrebbe sposato Maria Maddalena da cui avrebbe avuto una figlia, e ai suoi discendenti carnali, gli ultimi dei quali sopravviverebbero ancora oggi — non agli apostoli e ai loro successori — avrebbe voluto lasciare la guida della Chiesa. Questa verità sulle origini del cristianesimo sarebbe stata nascosta da un complotto sia delle Chiese cristiane sia della comunità scientifica, dove peraltro, fin dal secolo XIX, le cattedre di Storia del Cristianesimo sono spesso occupate da laicisti o da marxisti, non da cristiani.

Si ha qui un eloquente esempio di come funziona il complottismo. Brown non ha inventato nulla, né — come afferma — rivela al mondo documenti che la comunità scientifica si sarebbe rifiutata di esaminare. Il primo nucleo delle sue affermazioni si trova nei cosiddetti Dossiers Secrets, depositati alla Biblioteca Nazionale di Parigi nel 1967 dall’avventuriero Pierre Plantard (1920-2000) e pubblicati nello stesso anno dal giornalista Gérard de Sède (1921-2004) (5); il secondo nell’opera dei giornalisti inglesi Michael Baigent, Richard Leigh ed Henry Lincoln — pseudonimo di Henry Soskin — Il Santo Graal del 1982 (6). Queste opere non sono state affatto ignorate dagli studiosi accademici: sono state esaminate e dichiarate irrilevanti in quanto basate su documenti falsi, non testi antichi ma grossolane mistificazioni del secolo XX; un fatto che gli stessi «confezionatori» dei Dossiers Secrets avrebbero confermato negli anni 1980 (7). Si tratta dunque di rejected knowledge: di presunte «conoscenze» non «ignorate» perché «il Vaticano» o chiunque altro fosse in grado di controllare migliaia di studiosi interessati alle origini del cristianesimo e di diversissimo orientamento — il che è evidentemente impossibile —, ma rifiutate perché provate come false e, in questo caso, anche fondate su falsi materiali, cioè documenti «antichi» fabbricati negli anni 1960 con le tecniche tipiche dei falsari di professione. Chi, come Brown, si ostina a considerare veri — e censurati da un complotto — documenti la cui falsità è stata provata da decenni, e le relative teorie, è precisamente un complottista. E il fatto che il complottista persuada milioni di persone è il sintomo di un malessere sociale, in questo caso delle difficoltà di comunicazione — talora semplicemente tecniche, più spesso dovute alla malizia di media che manifestano evidenti pregiudizi anticristiani — che rendono problematico per le Chiese e per la stessa comunità scientifica che studia le origini cristiane fare conoscere i risultati delle ricerche più serie al grande pubblico.

Fra le ragioni del successo de Il Codice da Vinci — a fronte dell’insuccesso di precedenti opere complottiste dello stesso Brown —ipotizzo che abbia giocato un ruolo la tragedia dell’11 settembre 2001 (8). Dopo che questa tragedia ha mostrato anche all’osservatore più distratto che la storia — lungi dall’essere «finita» con la fine della Guerra Fredda (1946-1991) — si era fatta semmai più tortuosa e complicata, le «teorie del complotto» sono tornate di moda grazie alla loro capacità di spiegare fenomeni complessi attraverso il ricorso all’azione di pochi attori: i massoni, gli ebrei, il Vaticano, o magari il Priorato di Sion, che ne Il Codice da Vinci è l’organizzazione segreta che protegge i discendenti carnali di Gesù e della Maddalena, oppure l’Opus Dei, che nello stesso romanzo cerca di strappare al Priorato i suoi segreti e di utilizzarli per ricattare la Santa Sede.

Dopo l’attentato che ha colpito le città di New York e di Washington è emerso però un altro massiccio fenomeno di complottismo che non solo nasce nel clima del dopo-11 Settembre, ma riguarda gli stessi avvenimenti dell’11 settembre 2001. Su come questi si siano svolti — anche se non mancano, come sempre avviene e tanto più a pochi anni di distanza dai fatti, aspetti ancora oggetto di discussione — vi è un consenso che non è solo, come i complottisti talora sostengono, delle autorità di governo americane, ma coinvolge la stragrande maggioranza — con le solite eccezioni che, come si dice, confermano la regola — della comunità scientifica, dove pure predominano posizioni non certo favorevoli all’attuale amministrazione americana. Si tratta di attentati pianificati e compiuti dal terrorismo ultra-fondamentalista islamico e in particolare da un’organizzazione terroristica di questo ambiente, Al-Qa‘ida,«La Base», guidata dal terrorista di origine saudita Osama bin Laden. Altre ipotesi sono state considerate e scartate, non frettolosamente ma dopo ampi studi, condotti non soltanto dal governo americano, ma anche — se non principalmente — da agenzie e da commissioni scientifiche e accademiche indipendenti, e devono quindi essere considerate parte del rejected knowledge.

Questo rejected knowledge è ripreso da oltre un milione di pagine Internet (9), da un buon centinaio di libri e da una ventina di documentari disponibili in DVD. Non si tratta ancora di cifre paragonabili al Codice da Vinci — oltre cinque milioni di riferimenti su Internet —, ma anche intorno all’11 Settembre è nato un cosiddetto Truth Movement, un «Movimento della Verità», che presenta molti aspetti sociologicamente simili ai nuovi movimenti religiosi più controversi: i suoi sostenitori celebrano veri e propri rituali che li confortano in convinzioni che la maggioranza dei cittadini e la comunità scientifica non condividono. È vero che nel Truth Movement vi sono talora docenti universitari, ma — a prescindere dal fatto che il numero di tali docenti è oggi così alto che se ne trovano anche, per esempio, in culti dei dischi volanti e in altri movimenti non meno controversi — sono quasi completamente assenti i docenti con competenze specifiche in materia d’ingegneria o di fondamentalismo islamico contemporaneo (10), mentre non mancano teologi, filosofi, specialisti di letteratura o storici del Medioevo.

Il movimento cita spesso come fiore all’occhiello l’attiva partecipazione di Steven Earl Jones, presentato come professore di fisica alla Brigham Young University, l’università della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, popolarmente nota come Chiesa mormone, che è fra i maggiori atenei degli Stati Uniti d’America gestiti da un’organizzazione religiosa. Tuttavia un fisico teorico non è un ingegnere, la Facoltà d’Ingegneria della stessa Brigham Young University ha preso posizione contro le sue tesi in modo così duro da costringere il docente a dimettersi il 20 ottobre 2006, e il professor Jones ha comunque la tendenza a vedere complotti un po’ dovunque, anzitutto contro di lui, dopo che le ricerche sue e di colleghi dell’University of Utah sulla cosiddetta «fusione fredda», pubblicate nel 1985, sono state criticate e sono a loro volta sprofondate nel rejected knowledge (11).

Dal momento che l’11 Settembre è stato uno degli avvenimenti fondamentali della nostra epoca e ha avuto conseguenze decisive in campo politico, religioso e culturale, il fatto che qualcuno neghi che un attacco dell’ultra-fondamentalismo islamico — che, com’è bene ribadire costantemente contro ogni impropria generalizzazione, non rappresenta certo tutto l’islam, e neppure tutto l’islam fondamentalista (12), ancorché possa trovare nell’interpretazione maggioritaria della religione islamica, in particolare quanto al rapporto fra fede e ragione, elementi di sostegno e di giustificazione (13) — sia veramente avvenuto in quella data rischia d’indebolire in modo radicale la reazione dell’Occidente alla nuova guerra mondiale che l’islam ultra-fondamentalista ha a esso dichiarato e continua a condurre (14). Di qui l’interesse di occuparsi delle tesi del Truth Movement da due punti di vista: quello tecnico e quello — a mio avviso assai più importante, e sistematicamente trascurato nel dibattito mediatico sul tema — dell’ultra-fondamentalismo islamico. Preciso che intendo prendere in esame la sostanza delle tesi complottiste dell’11 Settembre. Mentre gli esponenti del Truth Movement ricorrono sistematicamente all’attacco ad hominem, per cui chiunque dubiti delle loro teorie è o «un ebreo» (15) oppure «pagato dal governo americano», in questa sede non perseguirò la facile strada che consisterebbe nel mostrare come non tutti, ma moltissimi sostenitori del «complotto dell’11 Settembre» credono anche ad altri complotti, alcuni dei quali del tutto ridicoli, in materia di UFO, di extraterrestri, di pretesa sopravvivenza fino ai giorni nostri del cantante Elvis Presley (1935-1977), la cui morte sarebbe stata inscenata come parte di un complotto governativo, e di assassinio del presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy (1917-1963).

Benché lo studio di queste tesi non sia irrilevante per comprendere meglio lo scenario complottista contemporaneo, mi limito a due esempi. Il primo riguarda David Icke, ex portiere della squadra di calcio del Coventry City, che all’epoca giocava nella Premier League, l’equivalente inglese della Serie A in Italia, e che si è trasformato nel più letto autore complottista dei nostri giorni, da cui i suoi omologhi italiani cercano talora di prendere le distanze, misconoscendo però il fatto che i suoi libri si vendono nel mondo dieci o cento volte di più dei loro. Icke sostiene che l’11 Settembre è un complotto ordito da vampiri «rettiliani», extraterrestri capaci di assumere sembianze umane che mirano a impadronirsi del nostro pianeta: di questa razza aliena farebbero parte, fra gli altri, il presidente degli Stati Uniti d’America George Walker Bush, il suo predecessore William Jefferson «Bill» Clinton e il primo ministro britannico Anthony Charles Lynton «Tony» Blair (16). Piaccia o no ai complottisti di casa nostra, Icke è il personaggio più seguito nel mondo complottista internazionale (17), e senza il suo sostegno il Truth Movement non avrebbe le dimensioni che ha.

Non resisto, poi, alla tentazione di segnalare che secondo un altro pilastro del Truth Movement, il sito Internet conspiracyplanet.com, un ex adepto dell’Ordine degli Illuminati (18) avrebbe rivelato al giornalista Greg Szymanski che il complotto per scatenare una guerra fra l’Occidente e l’islam, che passa per l’organizzazione degli attentati dell’11 Settembre e per il discorso tenuto a Ratisbona, in Germania, da Papa Benedetto XVI il 12 settembre 2006, è stato ordito nel maggio del 2000 nel corso di una «Messa nera» (19) celebrata in Vaticano da padre Peter Hans Kolvenbach S.J., preposito generale della Compagnia di Gesù — un ordine religioso che è del resto obiettivo prediletto delle teorie del complotto dal secolo XVII ai nostri giorni —, che sarebbe segretamente il «leader del satanismo mondiale» (20), alla presenza dell’allora cardinale Joseph Ratzinger e del suo «amante gay che ha oggi [2006] 24 anni» (21), entrambi descritti come abituali frequentatori di «Messe nere» (22), nonché «dei satanisti Alberto Moscato [1963-2006 e che non ho mai personalmente incontrato, né in Vaticano né altrove, dirigente della maggiore fra le organizzazioni italiane che s’ispirano alle idee del magista inglese Aleister Crowley (1875-1947)] e Massimo Introvigne, entrambi agenti dei gesuiti» (23). Naturalmente non tutti gli esponenti del Truth Movement condividono le tesi deliranti di Greg Szymanski, il quale tuttavia — secondo una ricerca Google condotta il 15 dicembre 2006 — vanta oltre 58.000 riferimenti su Internet e un programma radiofonico principalmente dedicato a propagandare le tesi complottiste sull’11 Settembre, ripreso da una trentina di stazioni radiofoniche nazionali e locali negli Stati Uniti d’America.

Non potendo confessare di aver organizzato io l’11 Settembre — certo con un piccolo aiuto da parte del regnante Pontefice, ma Szymanski mi chiederebbe anche di far saltare fuori Elvis Presley vivo e vegeto, e al momento non saprei onestamente dove trovarlo —, passo a esaminare dapprima le tesi per così dire tecniche del Truth Movement e quindi quello che è l’aspetto essenziale della vicenda, rispetto al quale gli aspetti tecnici svolgono la classica funzione di alberi che nascondono la foresta.

 

II. L’Ombra delle Torri: le questioni tecniche

a. La questione delle fonti

L’Ombra delle Torri è il titolo della traduzione italiana dell’opera di culto di un geniale creatore di fumetti, Art Spiegelman (24), nemico giurato dell’amministrazione Bush ma non complottista. Rende male il titolo originale, In the Shadow of No Towers, «All’ombra di nessuna torre», che fa riferimento al senso di vuoto di un newyorchese, da cui comunque si deve partire: prima le Torri Gemelle c’erano, ora non vi sono più. E questo lo riconoscono perfino i complottisti.

La più consueta tattica complottista consiste in quello che in inglese si chiama shooting the messenger, «sparare sul messaggero» e non prendere in esame il messaggio. Si può rispondere, con Antonio Gramsci (1891-1937), che questo «[...] non significa che abolendo il barometro si abolisca il cattivo tempo» (25). Tuttavia, vale la pena di spendere qualche parola sulle aggressioni complottiste alla risposta più facilmente accessibile e più nota alle tesi tecniche del Truth Movement: il numero speciale del marzo 2005 della più conosciuta rivista di divulgazione scientifica americana, Popular Mechanics — il più venduto nella storia centenaria della pubblicazione statunitense — rielaborato sotto forma di volume nel 2006 con il titolo Debunking 9/11 Myths. Why Conspiracy Theories Can’t Stand Up to the Facts, «Smontare i miti dell’11 Settembre. Perché le teorie complottiste non possono reggere alla prova dei fatti» (26).

Dopo che l’inchiesta di Popular Mechanics era stata riassunta anche da fonti di stampa italiane, due fra i più noti sostenitori delle teorie del Truth Movement in Italia, il professor Franco Cardini, noto studioso di Storia Medioevale, e il giornalista ed eurodeputato Giulietto Chiesa hanno pubblicato un breve scritto in cui sostengono che il testo della rivista americana sarebbe stato «redatto non da "trenta giornalisti" bensì da uno solo, Benjamin Chertoff» (27), «[...] nipote di Michael Chertoff, un signore che il Presidente Bush ha nominato a capo del Dipartimento "Homeland Security". Un ministro, quindi: il quale ben conosce le questioni dell’11 Settembre, in quanto era a quel tempo assistant attorney a New York (e in tale veste è stato anche sospettato di aver occultato alcune prove che sarebbero state utili all’inchiesta). La parentela è stata confermata dal giornalista Christopher Bollyn su American Free Press del 7 marzo 2005 (al quale il Chertoff aveva cercato di mentire, negando il fatto). Naturalmente, dopo che negli States la cosa è stata smascherata, il dossier di Popular Mechanics è rapidamente scomparso dalla circolazione: oggi più nessuno lo citerebbe senza coprirsi di ridicolo. Ma, come accade sovente, lo si è ripresentato sotto altra forma (il libro Debunking 9/11 myths [sic] a cura di David Dunbar e Brad Reagan [sic], Hearst Books, nato già vecchio) e intanto, secondo una buona regola commerciale di stampo liberista, si è cercato di riciclarlo alla periferia dell’impero. Non fanno così le multinazionali, quando "regalano" ai bambini africani derrate e medicinali scaduti, deducibili dalle imposte?» (28). Quanto ai trecento esperti intervistati da Popular Mechanics, lo stesso documento sostiene che sarebbe «[...] stato altresì accertato che i molti pretesi intervistati dal Chertoff si riducevano da intervistati a ripetitori delle tesi avallate e fatte proprie dall’amministrazione Bush, quando non addirittura a persone in un modo o nell’altro legate agli organi governativi» (29).

A prescindere dalla strana logica per cui un intervistato che sia favorevole alle tesi «dell’amministrazione Bush» sia un «preteso intervistato» — solo chi fa parte della minoranza che non ha votato per Bush nelle elezioni presidenziali del 2004 ha titolo a essere definito «vero intervistato»? —, noto subito una caratteristica essenziale del complottismo: la credenza secondo cui sarebbero possibili complotti ai quali partecipano milioni di persone. Gl’impiegati dello Stato americano — esclusi quelli degli uffici postali — sono oltre un milione e novecentomila. Se si aggiungono quelli delle aziende «in un modo o nell’altro legate agli organi governativi», o che lavorano per l’amministrazione pubblica, si arriva a parecchi milioni di persone. Tutti inattendibili e tutti coinvolti nel complotto? Se si escludono dal novero dei possibili esperti intervistati gli elettori che hanno votato per Bush, gl’impiegati dello Stato e quelli di aziende che ricevono sovvenzioni o lavorano per lo Stato, il campo si restringe notevolmente. Tuttavia, fra gli esperti definiti «testimoni privilegiati» dall’inchiesta di Popular Mechanics — cioè fra coloro dei trecento intervistati che hanno riletto e approvato le conclusioni dell’inchiesta per le parti di loro pertinenza — vi sono i presidenti o i direttori generali delle principali aziende private specializzate che si sono occupate di ricerche e di lavori sulle scene degli attentati dell’11 Settembre — che evidentemente, se hanno indagato, lo hanno fatto per conto di «organi governativi», ma che rimangono indipendenti —, e undici docenti d’ingegneria e materie affini presso i più prestigiosi atenei americani. Le università americane, a differenza di quelle italiane, non dipendono dal governo federale, anche se possono ricevere sovvenzioni per specifici progetti, ed è noto come i professori universitari siano una categoria particolarmente ostile all’attuale amministrazione degli Stati Uniti d’America.

Se «il dossier di Popular Mechanics è rapidamente scomparso dalla circolazione», questo è avvenuto per il suo straordinario successo — diverse ristampe sono andate esaurite in pochi giorni —; ma il libro Debunking 9/11 Myths è, nella sostanza, il testo del numero di Popular Mechanics, arricchito da una divertente appendice sulle reazioni dei complottisti all’inchiesta della rivista statunitense. Ben lungi dal non citarlo per paura di «coprirsi di ridicolo», il testo non solo è citato praticamente da qualunque fonte si occupi dell’11 Settembre, ma nella forma di libro è uscito con una prefazione del sen. John McCain, repubblicano dell’Arizona, non certo una figura di secondo piano della politica statunitense e, secondo i sondaggi di diversi istituti demoscopici, uno dei candidati più popolari fra quanti hanno annunciato o ipotizzato una loro candidatura alle elezioni presidenziali del 2008.

Sulla questione se Benjamin Chertoff sia l’unico autore dell’inchiesta di Popular Mechanics o un membro di un’équipe di trenta giornalisti, la rivista americana mantiene la seconda versione, e non è chiaro da dove il Truth Movement abbia dedotto la prima. La notizia della sua parentela con Michael Chertoff ha avuto negli Stati Uniti d’America il peso che merita, sia perché l’American Free Press è un settimanale scandalistico e antisemita fondato nel 2001 da redattori di The Spotlight dopo il fallimento di quest’ultima pubblicazione — animata da Willis Carto, spesso definito come il padre del moderno antisemitismo americano, il quale continua del resto a collaborare all’American Free Press —,sia perché, in una dichiarazione resa dopo l’articolo incriminato, la madre di Benjamin Chertoff ha precisato di aver parlato una volta sola, per pochi minuti al telefono, con Christopher Bollyn, giornalista del discusso settimanale, riferendogli che Michael Chertoff era «forse un lontano cugino» (30) di suo marito; del resto, secondo James B. Meigs, direttore di Popular Mechanics, Benjamin Chertoff, per quanto ne sapeva, «[...] non ha mai parlato» (31) in vita sua con Michael Chertoff. Per quanto la parola «nipote» possa avere diversi significati in lingua italiana, quanti di noi chiamerebbero «nipote» qualcuno che è «forse» il figlio di «un lontano cugino»?

Il dato più importante è però un altro: l’inchiesta di Popular Mechanics non ha nessun carattere particolarmente innovativo. È stata recensita in modo estremamente favorevole anche da riviste notoriamente ostili all’amministrazione Bush — come Skeptic, l’organo assai letto, e ancor più spesso citato negli Stati Uniti d’America, della Skeptic Society, che ha fra i suoi dirigenti professori universitari che ritengono la religione una forma di superstizione nemica della scienza, e detestano il presidente Bush per i suoi legami con il mondo protestante conservatore (32) — perché fornisce al grande pubblico, in una forma accessibile anche a chi non sia un ingegnere, un riassunto di cento pagine, note escluse, del Final Report of the National Construction Safety Team on the Collapses of the World Trade Center, un documento di circa diecimila pagine pubblicato nel 2005 e firmato da duecento esperti del NIST, il National Institute of Standard and Technology (33), l’agenzia federale che si occupa, fra l’altro, di sicurezza nel settore delle costruzioni, corredato da oltre mille interviste e oltre settemila fotografie, e del più breve — ma non meno denso — rapporto sull’attacco al Pentagono The Pentagon Building Performance Report, pubblicato nel 2003 dall’American Society of Civil Engineers (34) che è quanto di più vicino esista negli Stati Uniti d’America — che pure non conoscono la disciplina ordinistica obbligatoria delle professioni liberali tipica dell’Europa Continentale — al nostro Ordine degli Ingegneri. Il lavoro di Popular Mechanics segue passo passo questi due documenti — oltre a fare riferimento ad altre indagini pubbliche e private — che la maggioranza dei lettori non ha né il tempo né le capacità tecniche per leggere. Quando i critici italiani di Popular Mechanics invitano un po’ ingenuamente i suoi estimatori a leggersi le «oltre mille pagine» (35) di opere complottiste a loro note, dimenticano che il lavoro in questione non intende fare nulla di più — ma neanche nulla di meno — che riassumerne circa quindicimila di rapporti ufficiali che hanno già implicitamente, e talora esplicitamente, risposto alle obiezioni tecniche del Truth Movement.

b. Le principali obiezioni tecniche

Dal momento che le obiezioni tecniche sollevate dal milione di pagine Internet e dalle centinaia di pubblicazioni a stampa e di DVD del Truth Movement sono numerosissime, mi limito a esaminare quelle più correnti. Personalmente, pur avendo letto ben più di «oltre mille pagine» sul tema, non conosco obiezioni cui le fonti indicate nel paragrafo precedente non rispondano, e a queste si potrà comunque fare riferimento per ulteriori e ben più approfondite informazioni.

1. «Non è possibile che quattro piloti dilettanti siano stati capaci di guidare aerei così sofisticati». Risposta: Hani Hanjour (1972-2001), il terrorista che guidava l’aereo del volo American Airlines 77, che colpì il Pentagono, Mohammed Atta (1968-2001) e Marwan al-Shehhi (1978-2001), piloti dei voli American Airlines 11 e United Airlines 175, che si schiantarono contro le Torri Gemelle, e Ziad Jarrah (1975-2001), ai comandi del volo United Airlines 93, che cadde in Pennsylvania grazie all’eroica resistenza dei passeggeri, avevano conseguito i loro brevetti di piloti per aerei sia privati sia commerciali. Certamente nessuno di loro era autorizzato a pilotare i Boeing dell’11 Settembre, né li aveva mai pilotati. Ma, con l’ausilio degli strumenti tecnici di bordo di cui avevano studiato il funzionamento e delle sessioni di addestramento al simulatore di linea professionale alle quali si erano sottoposti, erano in grado di pilotare e di dirigere in aria anche aerei più grandi di quelli per cui avevano conseguito i brevetti. Probabilmente non erano in grado di gestire le due fasi più difficili: il decollo e l’atterraggio. Ma di queste non avevano intenzione di preoccuparsi.

2. «Come dichiarò l’11 settembre il giornalista della rete televisiva conservatrice Fox Marc Birnbach, testimone oculare, quello che avrebbe dovuto essere il volo United Airlines 175 diretto verso la Torre Sud del World Trade Center, non aveva oblò. Dunque non era un aereo di linea, ma un aereo militare o un missile». Risposta: Marc Birnbach è stato intervistato più volte negli ultimi cinque anni, e ha sempre dichiarato di non avere visto personalmente oblò — il che lo aveva colpito — ma di non aver mai dubitato che si trattasse in effetti di un aereo di linea. Le questioni sull’angolo di visuale di Marc Birnbach sono comunque irrilevanti, dal momento che frammenti di oblò usati dalla United Airlines sono stati trovati fra le rovine della Torre Sud.

3. «Non è credibile che gli aerei della potentissima aviazione americana non siano stati capaci di abbattere tre aerei di linea, tanto più che hanno avuto ore di tempo per farlo e che in passato sono stati intercettati e abbattuti 67 aerei privati. Dunque qualcuno ha ordinato loro di non farlo». Risposta: per cominciare, dei 67 aerei intercettati, 66 lo sono stati fuori dello spazio aereo degli Stati Uniti d’America, in relazione a traffico di droga e a contrabbando; uno solo — l’aereo privato del campione di golf Payne Stewart (1957-1999), svenuto mentre era ai comandi, seguito nel 1999 prima che si schiantasse nel South Dakota su un terreno agricolo, senza causare danni a persone diverse da quelle che viaggiavano sull’aereo — è stato intercettato all’interno degli Stati Uniti d’America. Il tempo dal primo allarme relativo a un dirottamento — 8.24 ora di New York — alla caduta del volo United 93 —10.08 ora di New York — è stato di 104 minuti; altri calcoli diffusi dal Truth Movement semplicemente «dimenticano» il fatto che gli Stati Uniti d’America sono divisi dal fuso orario in zone diverse e confondono ora centrale e ora orientale. Nel frattempo le Torri Gemelle erano state colpite rispettivamente alle 8.46 e alle 9.03 e il Pentagono alle 9.37. Alle 8.53, cioè ventinove minuti dopo il primo allarme su un dirottamento, gli aerei militari si sono levati in volo. Che qualcuno pensasse di dirigere aerei civili contro edifici pubblici — un evento mai verificatosi nella storia dei dirottamenti — è apparso evidente solo dalla telefonata dal cellulare di una hostess del volo American Airlines 11 alle 8.44. Alle 10.20 è stato comunicato alla stampa che il presidente Bush aveva firmato l’ordine che autorizzava l’aviazione militare ad abbattere aerei civili con passeggeri a bordo diretti contro edifici pubblici: non ve n’erano più, ma in quel momento non si poteva saperlo. Il tempo fra la notizia dell’evento e la comunicazione alla stampa dell’avvenuta firma dell’ordine presidenziale è stato di un’ora e trentasei minuti. Si tratta di un lasso di tempo del tutto congruo con le leggi in vigore l’11 settembre 2001, che riservavano al solo presidente degli Stati Uniti d’America la possibilità di ordinare l’abbattimento di un aereo civile con passeggeri a bordo — quindi l’uccisione di diverse centinaia di persone — e che esigevano che la richiesta passasse dall’amministrazione locale dell’Aviazione Civile a quella nazionale, da questa all’Aviazione Militare, allo Stato Maggiore, al segretario di Stato e al presidente. Dal momento che l’Aviazione Militare si prese la responsabilità di saltare un passaggio, l’ordine presidenziale fu firmato dopo solo un’ora e trentasei minuti, o meglio qualche minuto prima, perché alle 10.20 fu data notizia alla stampa dell’avvenuta firma. Poiché la maggioranza dei dirottamenti nel mondo si era conclusa prima dell’11 Settembre con una trattativa che aveva permesso di salvare la vita della maggioranza delle persone coinvolte, era perfettamente comprensibile che la legge si preoccupasse di dettare cautele prima che un aereo pieno di passeggeri fosse abbattuto, e che riservasse la decisione al solo presidente. Dopo l’11 Settembre le norme sono state cambiate e oggi l’Aviazione Militare, quando un aereo passeggeri dirottato minaccia di causare una strage, può decidere autonomamente di abbatterlo. Ma la decisione non è stata presa a cuor leggero e non è difficile capire che la scelta implica delicatissimi problemi morali. Peraltro, anche con le attuali norme, e con le procedure di oggi che prevedono che aerei militari capaci di abbattere un aereo civile di grandi dimensioni siano costantemente in volo sulle principali città americane e non abbiano bisogno di decollare dopo un allarme — anche l’11 settembre l’Aviazione Militare non era «a terra», come vogliono i complottisti: vi erano pattuglie in volo, ma erano dislocate lontano dalle città, principalmente sopra il mare aperto, perché da lì ci si poteva attendere un attacco, o più realisticamente un volo a bassa quota di trafficanti di droga —, non è certo che sarebbe stato possibile intervenire nei 53 minuti fra la prima indicazione della hostess del volo American Airlines 11 e l’attacco al Pentagono, per non parlare dei due minuti fra l’allarme della stessa hostess e il primo schianto sulle Torri Gemelle.

4. «Non è possibile che l’impatto di un aereo abbia fatto crollare un edificio di centodieci piani come la Torre Nord del World Trade Center. Pertanto la torre — e la sua gemella — sono crollate a causa di esplosivi fatti detonare da "qualcuno" in corrispondenza dell’urto degli aerei». Risposta: le due maggiori società di demolizioni del mondo, e un buon numero di professori universitari d’ingegneria esperti in demolizioni, hanno dichiarato — spiegando perché, in diverse centinaia di pagine del rapporto del NIST — che il modo di crollare delle Torri Gemelle è tipico di un impatto e non è tipico di una demolizione attuata tramite bombe. Nel secondo caso, comincerebbero a crollare i piani più bassi, non i piani alti, come invece è successo al World Trade Center. Per sostenere il contrario, si obietta che nel 1945 l’impatto di un bombardiere B-25 su un altro grattacielo di New York, l’Empire State Building, non lo ha fatto crollare. Ma bisogna considerare la notevole diversità tra i due edifici. Nel caso dell’Empire State Building si trattava di una struttura tradizionale reticolare e non di una struttura tubolare in vetro e acciaio, ultra-moderna, con facciate portanti, assai più conveniente quanto allo spazio per uffici che è possibile ricavare in ogni piano ma anche più critica in caso d’impatto. Si sostiene pure che un pompiere sfuggito al crollo della Torre Nord dopo esservi entrato, Louis «Louie» Cacchioli, avrebbe dichiarato al settimanale People, specializzato nella vita sentimentale dei personaggi pubblici, che l’11 settembre «[...] era esplosa una bomba. [...] Pensiamo che ci fossero bombe nell’edificio» (36). Ma Cacchioli, ripetutamente intervistato, ha detto di avere in effetti dichiarato: «Il rumore era come quello di una bomba» (37), che è una cosa ben diversa, e di non avere dubbi che sia stato l’impatto di un aereo a causare il crollo della Torre Nord.

5. «Il carburante di un aereo brucia a una temperatura fra 1.100 e 1.200 gradi [Celsius: i complottisti che forniscono numeri diversi semplicemente sbagliano]. L’acciaio si scioglie a 1.510 gradi [Celsius]. Questo prova che non è stato l’incendio sviluppato dall’impatto dell’aereo a fare crollare le Torri, ma dev’essere stata una serie di bombe, tanto più che diversi testimoni affermano di avere visto dell’acciaio fuso l’11 settembre». Risposta: due professori di Scienze metallurgiche hanno testimoniato di fronte al NIST che, a meno di essere specialisti, è molto difficile distinguere fra acciaio fuso e altri metalli certamente presenti — per esempio nell’arredamento — negli uffici del World Trade Center e che fondono a una temperatura molto più bassa dell’acciaio. Una delle fotografie che compaiono sui siti complottisti, mostrata a uno dei docenti, è stata identificata come una pozza di vetro fuso con frammenti di acciaio, non fuso, all’interno. Ma tutta la questione della fusione è fuorviante: infatti, ben prima di fondersi, l’acciaio — nel gergo degli specialisti — «perde forza» e non è più capace di sostenere strutture complesse. A 400 gradi Celsius perde il 50% della sua forza; e a 980 gradi Celsius — meno degli oltre mille sviluppati dal carburante per aerei che brucia — la forza dell’acciaio si riduce al 10%.

6. «I sismografi della Columbia University — siti trenta chilometri a Nord del World Trade Center — hanno registrato l’11 settembre una attività sismica compatibile con l’esplosione di bombe e non con l’impatto fra aerei e un edificio». Risposta: nel novembre del 2001 la Columbia University ha pubblicato un rapporto, in cui sostiene che quanto hanno rilevato i suoi sismografi è perfettamente compatibile con l’impatto di aerei e che ogni altra interpretazione dimostra semplicemente che chi la propone non è un esperto di sismologia (38).

7. «Sette ore dopo la Torre Sud, è crollato anche l’edificio numero 7 del World Trade Center, e per questo non vi sono spiegazioni. È stato fatto crollare perché da lì la CIA ha diretto l’intera operazione, e/o perché il suo proprietario, il magnate ebreo Larry Silverstein, che intendeva intascare il risarcimento delle assicurazioni, ha ordinato ai pompieri di pull it, espressione che nel gergo dei pompieri significa: "Fatelo crollare"». Risposta: a prescindere dal fatto che la seconda ipotesi — relativa a un proprietario che intende truffare le società di assicurazioni — non ha molto a che fare con un complotto sull’11 Settembre in generale — a meno di sostenere che tutti gli ebrei, e in particolare i capitalisti ebrei, sono in combutta fra loro, con il governo americano e con quello israeliano, il che è precisamente quanto una parte del Truth Movement afferma —, sia Larry Silverstein sia i pompieri con cui ha interagito l’11 settembre — ma ai quali certo non ha potuto dare ordini — hanno dichiarato che pull it non significa affatto «fatelo crollare» nel gergo dei pompieri ma «abbandonatelo» e si riferiva al fatto che ormai tutte le persone erano uscite dall’edificio e che i pompieri rimasti all’interno rischiavano la vita per salvare soltanto beni materiali. I pompieri, in effetti, uscirono e il crollo dell’edificio numero 7 non comportò perdite di vite umane. In realtà, i complottisti cercano di utilizzare a loro favore la circostanza secondo cui tutti i rapporti tecnici sull’11 Settembre dichiarano che il crollo dell’edificio 7 è difficile da spiegare. Si avanzano varie ipotesi — urto di enormi detriti caduti dalle Torri Gemelle, effetti dell’onda sismica, modesta quando rilevata dalla Columbia University a trenta chilometri di distanza, ma assai più rilevante vicino all’epicentro, incendi, e forse anche difetti nella costruzione dell’edificio — e probabilmente solo la loro combinazione spiega il crollo. Il fatto che i rapporti esprimano difficoltà e perplessità sull’episodio — tutto sommato minore — dell’edificio 7 non smentisce, ma conferma la loro serietà. Un rapporto scientifico quando ha difficoltà a spiegare un fenomeno lo afferma chiaramente. Per il complottista, invece, o la scienza «ufficiale» è capace di spiegare tutto e subito, oppure si ha la prova che è in combutta con i cospiratori e in malafede.

8. «Nessun aereo ha colpito il Pentagono l’11 settembre. I guasti riguardano un’area troppo piccola rispetto alle dimensioni di un Boeing 757, l’"impronta" sulla parete demolita non è quella di un aereo, nessuno ha visto un aereo di linea e le finestre del Pentagono non si sono neppure rotte. Dunque si trattava di un missile militare». Si tratta delle tesi intorno a cui Thierry Meyssan, presidente e fondatore del Réseau Voltaire, un organismo francese che si consacra alla promozione dell’anticlericalismo e del libero pensiero, ha costruito la sua fortuna. Il suo libro — uscito in italiano con il titolo L’incredibile menzogna (39) — è stato tradotto in diciotto lingue e ha trasformato il personaggio in una media azienda, con un fatturato — fra libri, conferenze, DVD e apparizioni televisive a pagamento — di tutto rispetto. Risposta: ognuno si arricchisce come può, ma gli esperti che hanno condotto l’inchiesta dell’American Society of Civil Engineers, fra cui diversi hanno anche qualifiche universitarie, hanno risposto a Meyssan che solo nei cartoni animati un corpo che si schianta a grande velocità su una parete solida lascia un’impronta che corrisponde alla sua forma. L’impronta deriva inoltre dalla sola fusoliera centrale, dal momento che le ali sono schizzate via al momento dell’impatto, tanto più che un’ala aveva già toccato o almeno sfiorato il terreno: il Pentagono, più basso, era più difficile da colpire, per un pilota dotato di licenza ma di esperienza comunque limitata, delle Torri Gemelle. Per buona fortuna — diversamente, le vittime sarebbero state più numerose — l’aereo guidato dal terrorista Hani Anjour colpì un’ala del Pentagono dove entro cinque giorni sarebbe stata completata — ma era già quasi finita — l’installazione di materiale sperimentale, finestre comprese, «a prova di bomba», che ha retto in modo eccellente all’impatto. Le telecamere di sorveglianza, invece, erano indubbiamente troppo lente per un edificio importante come il Pentagono, scattavano fotografie sequenziali piuttosto che filmati, e questo spiega perché sia difficile, esaminando quanto hanno ripreso, capire che cosa esattamente si stesse avvicinando all’edificio. Contrariamente a quanto sostiene Meyssan, l’amministratore delegato della prima azienda privata d’ingegneria strutturale chiamata a indagare sul luogo dell’impatto, la KCE Structural Engineers, ha dichiarato: «Ho tenuto in mano parti dell’aereo con il marchio della linea aerea [...]. Ho tenuto in mano parti di uniformi dell’equipaggio, cui talora erano ancora attaccati resti umani. Vi basta?» (40). Infine, una domanda per Meyssan: se il volo American Airlines 77 non si è schiantato sul Pentagono, dove sono finiti i suoi passeggeri? Naturalmente la domanda vale anche per coloro che sostengono che i voli American Airlines 11 e United Airlines 175 non sono finiti contro le Torri Gemelle. E la risposta più comune nel Truth Movement è che questi tre aerei sono stati fatti atterrare e i loro passeggeri ed equipaggi reimbarcati sul volo United Airlines 93, cinicamente abbattuto da un aereo militare o da un razzo. Il problema di questa risposta non è tanto come ammassare tanti passeggeri in un unico aereo: utilizzando anche il bagagliaio e costringendoli a condizioni disumane — irrilevanti, dal momento che dovevano morire — sarebbe stato possibile. È che le analisi del DNA hanno permesso d’identificare il 95% dei passeggeri dei quattro voli e tutti i terroristi coinvolti nell’attacco — com’è noto, per l’analisi del DNA basta un minuscolo frammento — e ogni passeggero identificato era esattamente dove doveva essere. Naturalmente, il complottista obietterà ancora che tutte le persone coinvolte nelle analisi del DNA facevano parte del Complotto con la C maiuscola. Ma questo riporta a un problema di fondo: la raccolta dei campioni e le successive analisi hanno coinvolto centinaia di persone di agenzie federali e di aziende e di laboratori privati diversi, e che un complotto cui partecipano centinaia di persone non sia presto o tardi smascherato con tutte le prove del caso è tecnicamente impossibile.

9. «Non è possibile che i passeggeri abbiano chiamato con i loro cellulari dai voli dirottati. Nel 2001 non esistevano cellulari in grado di funzionare da un aereo in volo». Risposta: noto anzitutto che l’obiezione è stata riformulata con riferimento al 2001. Oggi pacificamente la maggior parte dei cellulari è in grado di funzionare da un aereo in volo su una zona dove troverebbe normalmente campo, tanto che vi sono già voli dove, in via sperimentale, l’uso dei cellulari è autorizzato e nel giro di qualche anno questo avverrà sulla maggioranza dei voli, una volta superati i problemi di sicurezza, noti e oggi facilmente risolvibili, ma con un costo di cui non è ancora chiaro il modo di addebito ai passeggeri. Secondo i tecnici delle società di telefonia cellulare che hanno testimoniato nel corso delle diverse indagini, nel 2001 sarebbe stato impossibile telefonare — e, per la verità, è difficile anche oggi — da un aereo che voli a una altezza superiore ai cinquantamila piedi, pari a 15.240 metri, un’altezza — peraltro — che i Boeing 757 e 767 non raggiungono mai e la loro stessa quota massima di 46.000 piedi, che si riduce con l’aumento del carico, è già di per sé raggiunta di rado. Invece, nel 2001 non sarebbe stato impossibile ma soltanto problematico, nonché connesso alle caratteristiche dell’aereo e del territorio — con chiamate che s’interrompono e dove il numero va richiamato ogni due o tre minuti —, telefonare tra i trentacinquemila piedi, pari a 10.668 metri e i 41.000 piedi, pari a 12.497 metri. Il volo United 93, che si schiantò a terra in Pennsylvania, non ha mai superato l’altezza di 40.700 piedi, pari a 12.405 metri. E infatti — qualunque cosa mostri il film, peraltro artisticamente apprezzabile e sostanzialmente fedele ai fatti, United 93 del regista inglese Paul Greengrass (41) — ai passeggeri che chiamarono i loro parenti con i cellulari da quel volo, come Thomas «Tom» Burnett (1963-2001) e Andrew Garcia (1939-2001), capitò esattamente quello che, secondo i tecnici specializzati in cellulari, doveva succedere: le loro telefonate duravano meno di un minuto, dopo di che dovevano richiamare. Altri chiamavano non dai cellulari, ma dai telefoni fissi di cui molti sedili dell’aereo — come avviene normalmente negli Stati Uniti d’America sugli aerei più grandi — erano dotati e che funzionano anche sui voli transoceanici ad altezze superiori a cinquantamila piedi, senza avere i problemi dei telefoni cellulari. Quanto agli altri tre aerei coinvolti nei fatti dell’11 Settembre, le telefonate dai cellulari si riferiscono a quando erano scesi sotto ai diecimila piedi, pari a 3.048 metri, e, qualunque cosa ne dica qualche complottista, anche i «primitivi» cellulari del 2001 erano in grado di funzionare a quest’altezza, pure da un aereo in volo e purché fossero sufficientemente vicini a un ripetitore, la cui presenza negli Stati Uniti d’America — tanto più nelle, e intorno alle, aree urbane di New York e di Washington — era ed è capillare. L’obiezione secondo cui i terroristi, se davvero vi fossero stati, avrebbero impedito ai passeggeri di telefonare non è convincente: su ciascuno dei tre voli che raggiunsero i loro obiettivi l’11 settembre erano imbarcati cinque terroristi, e sul volo United 93 solo quattro. Forse la piccola differenza è stata decisiva, anche se l’elemento che ha determinato la rivolta dei passeggeri è il fatto che, grazie ai telefoni, cellulari e non, essi sapevano che cosa era successo a New York, dunque che sarebbero comunque morti. Quattro o cinque terroristi sono in ogni caso insufficienti a controllare tutti i passeggeri, né era questo l’obiettivo principale dei dirottatori.

10. «Il volo United 93 non è caduto in seguito alla rivolta dei passeggeri, ma è stato abbattuto da un misterioso aereo bianco visto da sei testimoni nelle vicinanze del luogo della caduta». Risposta: l’aereo bianco vi era certamente. Si trattava di un aereo privato Falcon 20 di proprietà della VF Corporation, che produce articoli di abbigliamento con il marchio Wrangler. Esiste ancora — dunque non si è schiantato sullo United 93 —, non è un aereo militare — dunque non avrebbe potuto abbatterlo — e i proprietari e i piloti hanno testimoniato di aver ricevuto istruzioni dall’amministrazione dell’Aviazione Civile di rimanere in zona e di descrivere quello che vedevano: al momento del loro passaggio, rovine fumanti. Presunte «testimonianze» di militari che avrebbero dichiarato a questo o quel complottista — in particolare al colonnello in pensione Donn de Grand-Pre — di aver partecipato all’abbattimento dello United 93 sono state energicamente smentite dagl’interessati. Il fatto che detriti — ma non, contrariamente a quanto talora si legge, resti umani, tutti ritrovati nelle immediate vicinanze dell’impatto — siano stati rinvenuti fino a un miglio e mezzo dal luogo d’impatto — non a sei miglia, come vorrebbero i complottisti – è coerente con la meccanica dell’impatto a terra riscontrata in innumerevoli altri incidenti aerei e alla direzione del vento del giorno 11 settembre 2001. Alcuni complottisti, dopo aver letto che pezzi dell’aereo erano stati ritrovati nel lago Indian Lake, sono corsi ai loro computer e hanno ricavato dai navigatori disponibili su Internet che l’Indian Lake è a sei miglia dal luogo dell’impatto del volo United 93. Ma i navigatori indicano la distanza in automobile, mentre i detriti dopo un impatto volano via in linea d’aria e non seguono le strade carrozzabili. L’Indian Lake dista un miglio e mezzo in linea d’aria dal luogo in cui si schiantò lo United 93.

11.    «Il servizio segreto israeliano, il Mossad [«l’Istituto», abbreviazione di Ha-Mossad le-Modi‘in ule-Tafkidim Meyuhadim, «Istituto per l’intelligence e i servizi speciali»], sapeva che le Torri Gemelle sarebbero state colpite. Infatti avvisò in anticipo i quattromila ebrei che vi lavoravano, consigliando loro di darsi malati, e nessun ebreo è morto nel disastro di New York». Risposta: questa leggenda urbana — classificata come tale dagl’istituti specializzati che le studiano — è stata diffusa per la prima volta il 15 settembre 2001 dal quotidiano al-Thawra, che appartiene al governo della Repubblica Araba di Siria, e dalla televisione libanese al-Manar, l’emittente televisiva del movimento Hezbollah. Anche qui vale l’osservazione preliminare secondo cui un segreto condiviso da quattromila persone non sarebbe stato più tale dopo dieci minuti. Davvero gli ebrei che lavoravano nelle Torri Gemelle non avrebbero avvisato gli amici e i parenti — talora figli o coniugi — non ebrei che si sarebbero trovati l’11 settembre negli stessi edifici? Comunque sia, si conoscono i nomi delle 2.749 vittime di New York dell’11 Settembre, di cui 2.071 lavoravano abitualmente nelle Torri Gemelle. I morti ebrei —intendendo questo termine nel senso culturale in cui lo usano i demografi, a prescindere dalla pratica religiosa attiva, che coinvolgeva 172 delle vittime — sono 404, poco meno del 20% dei lavoratori del World Trade Center morti l’11 settembre. La percentuale è superiore a quella degli ebrei che vivono a New York, pari al 12%, il che non è sorprendente perché la società di consulenza Cantor Fitzgerald, che ha pagato un tributo di 390 morti, aveva un alto numero di dipendenti ebrei. Alcuni dei morti erano figure molto note nella comunità ebraica per le loro attività filantropiche e culturali o religiose, come il vicepresidente anziano della stessa Cantor Fitzgerald, Jeffrey Grant Goldflam (1953-2001), o Neil David Levin (1955-2001), direttore della Port Authority, la società che gestisce i porti e gli aeroporti di New York, o ancora l’israeliano Hagay Shefi (1966-2001), un genio del software e co-fondatore della GoldTier Corporation, i cui uffici erano al World Trade Center.

12.    «Lei, dopo tutto, non è né un ingegnere civile né un ingegnere aeronautico». Risposta: è proprio così. Non lo sono neppure, come si è già accennato, gli esponenti del Truth Movement. Mentre decine di professori universitari d’Ingegneria Civile e di Ingegneria Aeronautica hanno testimoniato nell’indagine del NIST sulle Torri Gemelle, e l’indagine sul Pentagono è stata commissionata e pubblicata dall’Associazione Americana degli Ingegneri Civili, e redatta, fra gli altri, da uno dei più noti specialisti mondiali d’Ingegneria Strutturale, il professor Mete A. Sozen della Purdue University. Se si tratta di scegliere, in materia di competenza nelle branche specifiche dell’ingegneria rilevanti per il nostro tema, fra costoro — molti dei quali, mi permetto di ripeterlo, sono di idee politiche piuttosto lontane da quelle dell’attuale governo americano — e il gruppo di docenti di Storia e di Filosofia, giornalisti e attivisti politici che diffondono le tesi del Truth Movement, la scelta per qualunque persona di buon senso non mi sembra troppo difficile.

 

III. La lunga marcia dell’ultra-fondamentalismo islamico: le questioni politiche

a. «Le spiegazioni alternative»

La letteratura del Truth Movement, ricchissima di particolari su presunti problemi tecnici, è veramente scarna quando si tratta di analizzare la tesi del sapere scientifico condiviso sull’11 Settembre, secondo cui gli attentati sono stati perpetrati da ultra-fondamentalisti islamici, e di proporre spiegazioni alternative. Queste ultime possono essere divise in tre gruppi. Il primo — nel quale entrano in gioco Elvis Presley, gli UFO e il complotto internazionale dei satanisti — non raggiunge il livello minimo d’interesse per poter essere preso in considerazione da un’analisi; ancorché dica qualcosa — o molto — sulla mentalità di chi lo propone. Il secondo si limita a sostenere che l’11 Settembre doveva servire a trasformare gli Stati Uniti d’America in uno Stato di polizia e a limitare le libertà civili nel quadro di un più vasto e diabolico progetto d’instaurazione di un «nuovo ordine mondiale». Anche se chiunque abbia preso un aereo di recente negli o per gli Stati Uniti d’America sa che deve sottoporsi a tutta una serie di controlli fastidiosi — nonché spedire il dentifricio anziché portarlo nel bagaglio a mano, dal momento che alcune componenti dei dentifrici sono state usate per la fabbricazione rapida di bombe — e che alcuni controlli sulla posta elettronica e le telefonate pongono complessi problemi di privacy, che gli Stati Uniti d’America non siano uno Stato di polizia è provato dal fatto che nessuno chiude i numerosissimi siti Internet del Truth Movement, la maggioranza dei quali operano proprio dal territorio statunitense. Il terzo gruppo di spiegazioni afferma che gli attentati dell’11 Settembre sono stati orditi dall’amministrazione americana, o da quella israeliana, per uno o più dei seguenti motivi: giustificare un’invasione dell’Afghanistan, impadronirsi del petrolio iracheno, eliminare il regime di Saddam Hussein (1937-2006) che costituiva una minaccia per Israele.

Nessuna di queste tre spiegazioni regge a un’analisi politica seria. Il regime dei talebani in Afghanistan non era riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite; il fatto che fosse alla base della produzione dell’ottanta per cento dell’eroina mondiale avrebbe già di per sé giustificato un intervento militare internazionale dal momento che l’eroina, dopo tutto, fa più morti del terrorismo; e non vi era bisogno dell’11 Settembre per sapere che dava ricetto a terroristi già responsabili di altri gravissimi attentati. Quanto al petrolio iracheno — non bastassero i maggiori specialisti di cose irachene come il sociologo francese Pierre-Jean Luizard, peraltro contrario alla guerra del 2003 (42) — dall’ottobre del 2005 vi è anche il voluminoso rapporto della commissione d’indagine sullo scandalo Oil for Food — una commissione non contro, ma delle Nazioni Unite (43) — a spiegare che il petrolio iracheno, certo pagando tangenti a tutta una serie di personaggi politici — il che, peraltro, è purtroppo corrente in questo tipo d’industria —, arrivava già alle grandi multinazionali prima della guerra in Iraq del 2003 a un prezzo inferiore a quello attuale, per cui — dal punto di vista delle grandi compagnie petrolifere — vi era ogni ragione per preservare lo status quo e l’attuale situazione è meno favorevole di quella precedente al 2003 o al 2001. Sulla guerra in Iraq è sufficiente una qualche familiarità con la stampa israeliana — sia destinata al grande pubblico, sia specializzata — per sapere che in Israele vi è sempre stato dibattito e che molte voci hanno sempre pensato che un blocco sciita che andasse da Teheran a Baghdad, fra l’altro a causa delle ossessioni apocalittiche di un certo mondo sciita per una fine del mondo preceduta da una guerra santa contro gli ebrei, sarebbe stato più ostile e pericoloso per Israele del regime criminale ma laicista — e dove la minoranza sunnita dominava la maggioranza sciita — guidato in Iraq da Saddam Hussein.

Non è questa la sede per riaprire un dibattito sulla guerra in Iraq: chi scrive resta convinto che sia stata scatenata perché Saddam Hussein sosteneva il terrorismo di Al-Qa‘ida — di cui ora sappiamo, in base non a pettegolezzi, ma a sentenze di tribunali giordani e tedeschi che si sono occupati della sua rete internazionale di reclutamento (44) che il terrorista giordano Abu Musab al-Zarqawi (1966-2006), il quale in Iraq godeva di cordiale ospitalità, faceva parte già dal 1999, prima di dichiararlo pubblicamente nel 2004 — e perché in parte disponeva, in parte era in procinto di dotarsi di armi di distruzione di massa che avrebbe probabilmente messo a disposizione dei suoi amici terroristi. Almeno dei gas nervini come il sarin — che sono armi di distruzione di massa secondo le convenzioni internazionali — nessuno dovrebbe dubitare, giacché si è trovato in Iraq qualcosa che era più difficile far sparire del gas, facilmente trasportabile: i corpi di migliaia di vittime, in gran parte curde.

b. «La torre che incombe»: un libro rivelatore

Quello che colpisce di più nel Truth Movement è l’assenza di qualunque analisi seria sulle evoluzioni del fondamentalismo islamico e sulla strada che lo ha portato fino all’11 Settembre. Al massimo, si ripetono stancamente tesi simili a quelle del cineasta americano Michael Moore secondo cui la famiglia Bin Laden faceva affari con la famiglia Bush tramite il Fondo Carlyle, e Al-Qa‘ida è stata «creata dalla CIA, la Central Intelligence Agency, "Agenzia Centrale d’intelligence", il servizio segreto degli Stati Uniti» per sconfiggere l’Unione Sovietica in Afghanistan. Giacché mi sono già occupato di questi problemi altrove (45), sarà sufficiente ricordare in questa sede che il padre di Osama bin Laden, il miliardario saudita Mohammed Awad bin Laden (1908-1967), ha avuto cinquantaquattro figli legittimi, la maggioranza dei quali — ma non, evidentemente, Osama — lavora nella multinazionale da lui fondata, la Binladen Brothers for Contracting and Industry — rinominata dopo l’11 Settembre Saudi Binladin Group, nel tentativo di sfuggire alla pessima pubblicità generata al cognome dal terrorista —, che ha quarantamila dipendenti ed è stata per diversi anni la prima società di costruzioni mondiale per fatturato, lavorando per diversi governi anche europei.

L’unico rapporto noto dei fratelli di Osama bin Laden con il terrorista è quello di detestarlo cordialmente, per i rischi che il suo nome ha fatto e fa correre al loro impero industriale e finanziario; è perfino possibile che uno o più dei suoi fratelli siano stati coinvolti nei vari tentativi di assassinarlo messi in opera già prima del 2001 dall’intelligence saudita (46). Considerate le dimensioni del gruppo Binladen Brothers — poi Saudi Binladin Group —, è normale che gl’investitori istituzionali vi abbiano avuto a che fare: questo vale per il Fondo Carlyle, il maggior investitore privato del mondo, di cui sono certo azionisti i Bush, ma anche il finanziere George Soros — ironicamente, uno dei finanziatori della distribuzione dei documentari di Michael Moore —, nonché la Bundesbank, la Banca Federale tedesca, e numerose multinazionali europee (47). Dovrebbe essere comunque evidente a chiunque che investire nella multinazionale degli eredi di Mohammed Awad bin Laden, una società che nessuno ha mai pensato di associare al terrorismo, non significa essere complici di Al-Qa‘ida.

Quanto alla guerra contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, gli Stati Uniti d’America hanno finanziato l’afflusso di volontari musulmani stranieri in quel paese — fra i quali sono poi stati reclutati molti dei primi membri dell’organizzazione di Osama bin Laden — ma non hanno «creato Al-Qa‘ida», dal momento che l’azione della CIA si limitava a trasferire denaro sui conti dell’ISI, il Directorate for Inter-Services Intelligence, la «Direzione per il coordinamento fra i servizi d’intelligence», il servizio segreto pakistano, ed era l’ISI che decideva quali fra i numerosi gruppi di volontari musulmani inviati in Afghanistan da una pletora di diverse organizzazioni islamiche meritassero di essere finanziati.

Il problema principale, però, è un altro. La grande cortina di fumo creata dal Truth Movement nasconde un fatto che è davvero molto difficile negare: un centinaio d’interviste, di filmati e di documenti che emanano o direttamente da Al-Qa‘ida o da organizzazioni ultra-fondamentaliste che fiancheggiano Al-Qa‘ida documentano o confermano che è stato il gruppo terroristico diretto da Osama bin Laden a organizzare l’attentato dell’11 Settembre. Si trova talora in testi del Truth Movement l’affermazione generica secondo cui sarebbero tutti documenti falsi: ma nessuno di essi è analizzato seriamente né per dimostrare che si tratti di un falso materiale — il che sembra veramente difficile, in particolare, per gli ormai numerosi videomessaggi del numero due di Al-Qa‘ida, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, che fra l’altro continuano a essere diffusi da siti Internet musulmani di orientamento fondamentalista del mondo intero: saranno anche loro tutti complici della CIA e del Mossad? —, né che il loro contenuto non sia coerente con tutto quanto si conosce della storia e degli obiettivi dell’ultra-fondamentalismo islamico.

A fare ulteriore chiarezza sul punto interviene un libro recente, best seller negli Stati Uniti d’America, in cima alla classifica dei libri più venduti del quotidiano The New York Times per settimane, opera di un giornalista del settimanale The New Yorker, già docente all’American University del Cairo, in Egitto, Lawrence Wright (48), dal titolo The Looming Tower. Al-Qaeda and the Road to 9/11, «La torre che incombe. Al-Qa‘ida e la strada verso l’11 Settembre» (49). Mi è capitato di conoscere personalmente Lawrence Wright quando conduceva un’esemplare inchiesta su presunti casi di satanismo (50), e di apprezzarne l’integrità professionale e la passione per la documentazione minuziosa. Non posso che condividere quindi quanto scrive, in una recensione ampia e favorevole del suo libro, l’autorevole The New York Review of Books, dove — dopo aver ricordato alcune critiche alla ricostruzione della figura di Osama bin Laden nel rapporto della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’11 Settembre — afferma che «nessuna accusa di questo genere può essere mossa a Wright, il cui resoconto si basa in gran parte su interviste con persone che hanno partecipato al jihad. Il suo libro comprende una postfazione dove elenca le sue fonti, con una lista delle persone che ha intervistato, un tipo d’informazione che è il benvenuto in un campo dove le informazioni sono spesso inattendibili e perfino opere accademiche sono state spesso poco accurate» (51).

Naturalmente, The New York Review of Books è una rivista molto letta, ma di orientamento apertamente liberal, cioè «progressista» e ostile all’attuale governo americano. Del resto, queste sono le idee politiche di Lawrence Wright e il suo «[...] è stato uno dei testi più citati — per lo più dai democratici — durante la campagna elettorale americana di mid-term» (52) del 2006. Wright era infatti contrario alla guerra in Iraq, e a proposito dell’11 Settembre non ignora le responsabilità dell’intelligence americana. Non nel senso che la CIA abbia organizzato gli attentati, come vorrebbe il Truth Movement, e neppure perché non li avesse previsti, come pretendono molti critici dei servizi segreti americani. Al contrario, dall’impressionante documentazione messa insieme da Wright risulta che i servizi di sicurezza americani sapevano che Al-Qa‘ida intendeva colpire all’interno degli Stati Uniti d’America, e perfino che una delle possibilità era quella di dirottare aerei di linea e di farli esplodere contro edifici pubblici al punto che, a metà del mese di agosto del 2001, il responsabile dell’ufficio dell’FBI — il Federal Bureau of Investigation, l’«Ufficio Federale d’Investigazione», la polizia federale americana — di Minneapolis parlava apertamente della necessità di «[...] impedire a qualcuno di prendere un aeroplano e farlo esplodere contro il World Trade Center» (53); conoscevano i nomi dei terroristi coinvolti; sapevano che erano negli Stati Uniti d’America. Il Truth Movement concluderebbe che vi è qui la prova del fatto che l’intelligence statunitense quanto meno sapeva dell’attentato e che ha scientemente evitato d’impedirlo.

Non è affatto così, spiega Wright, perché tutte queste informazioni erano come pezzi di un puzzle sparsi fra agenzie rivali: la CIA, l’FBI, i servizi di sicurezza dell’Esercito e della Marina, e il NSC, il National Security Council, il «Consiglio per la sicurezza nazionale», che risponde direttamente al presidente degli Stati Uniti d’America. Chi sapeva chi erano i terroristi che avrebbero colpito non sapeva che erano già negli Stati Uniti d’America, e viceversa. Solo chi avesse avuto tutti i pezzi del puzzle avrebbe potuto comporre un quadro completo e, forse, prevenire l’attentato. Ma questo non avvenne se non dopo l’11 settembre 2001. Wright va oltre la nota rivalità fra diverse agenzie di sicurezza e di polizia, che le portò a non scambiarsi interamente le informazioni che avevano — si tratta di un problema solo americano, al quale si è cercato di porre riparo dopo l’11 Settembre — per scendere nel dettaglio di rivalità personali.

Il motivo del successo di pubblico del libro di Wright è che il giornalista di New York ritiene che la storia sia anzitutto storia di persone, ciascuna delle quali è evocata con grande ricchezza di particolari. Delle quattro biografie che fanno da filo conduttore al volume, quella che ha colpito di più molti lettori — anche perché è la meno nota — riguarda John Patrick O’Neill (1952-2001), soprannominato dai suoi colleghi dell’FBI «il Principe delle Tenebre» (54). O’Neill è una figura straordinaria, insieme eroe e «cattivo» del libro di Wright, non solo «personaggio d’altri tempi», ma personaggio che ricorda certe figure del Medioevo, «dilaniato tra una spinta verso il peccato e un’altra verso la devozione più fervente» (55). Dal cattolicesimo, in cui era stato educato, era passato al protestantesimo fondamentalista sia sotto l’influenza di un’amante, figlia di un predicatore, Valerie James, sia perché trovava il cattolicesimo troppo «pacato» (56). Ma nell’ultimo anno di vita si andava riorientando verso il cattolicesimo e recitava quotidianamente l’intera Liturgia delle Ore (57). Nello stesso tempo quest’uomo, che tiene la Bibbia sempre sul comodino, mantiene oltre a quella con la moglie — all’oscuro di tutto fino agli ultimi anni della sua vita —, relazioni regolari con tre diverse amanti — due delle quali a loro volta molto religiose —, ciascuna delle quali ignora l’esistenza delle altre e di cui una sola scopre che O’Neill è sposato. Il fatto di essere un agente segreto — dell’Ufficio anti-terrorismo dell’FBI — gli permette evidentemente di raccontare a ciascuna delle sue compagne di essere «in missione» mentre si trova con le altre.

Ma — senza che O’Neill lo sappia — egli è a sua volta spiato da colleghi dell’FBI, dalla CIA e dal NSC, che alla fine approfittano della sua vita matrimoniale clamorosamente irregolare — ben al di là di una semplice scappatella o anche dell’avere una singola amante — per costringere alle dimissioni un personaggio che al genio investigativo unisce l’arroganza e l’insofferenza per le regole. Così, il 22 agosto 2001 O’Neill lascia l’FBI: una catastrofe, secondo Wright, perché per anni l’agente si era dedicato pressoché esclusivamente a Osama bin Laden e sarebbe stata l’unica persona in grado di prevenire l’11 Settembre, ancorché già da anni le altre agenzie d’investigazione e d’intelligence — e anche branche rivali della sua — celassero informazioni alla cellula speciale che aveva creato per combattere Al-Qa‘ida. La fine di O’Neill è conforme al carattere del personaggio. Dopo aver abbandonato l’FBI, diventa direttore della sicurezza al World Trade Center. L’11 settembre, mentre uomini d’intelligence del mondo intero gli telefonano per avere una sua analisi dei fatti, O’Neill — che è sopravvissuto al primo urto ed è sceso dal suo ufficio nella Torre Nord e uscito all’aperto —, decide di rientrare nelle Torri per partecipare ai soccorsi. Il 21 settembre il suo corpo sarà trovato, miracolosamente quasi intatto, fra i detriti di Ground Zero.

Se dunque vi sono state responsabilità per omissione da parte dell’intelligence americana — ma gli esponenti del Partito Democratico che sventolano il libro di Wright dimenticano che i problemi di coordinamento fra le varie agenzie di sicurezza non sono stati certo creati dal presidente repubblicano Bush, e che un tentativo di riforma del suo predecessore democratico Bill Clinton non era andato a buon fine — The Looming Tower documenta, come già era stato fatto da altri, ma con qualche riferimento inedito, la lunga preparazione e l’organizzazione dell’attentato da parte di Al-Qa‘ida come esito coerente della storia del moderno fondamentalismo islamico.

Questo nasce nel 1928 con la fondazione dell’associazione dei Fratelli Musulmani in Egitto da parte di Hasan al-Banna (1906-1949), ma Wright ne traccia la strada verso l’11 Settembre attraverso tre biografie. La prima riguarda Sayyid Qutb (1906-1966), il dirigente dei Fratelli Musulmani responsabile della spaccatura all’interno dell’organizzazione fondamentalista — per usare la terminologia, non adottata da Wright, proposta dal sociologo italiano Renzo Guolo (58) — fra un’ala «neo-tradizionalista» e una «radicale», che io preferisco chiamare «ultra-fondamentalista». Mentre la maggioranza dei Fratelli Musulmani finirà per scegliere una strada «neo-tradizionalista», che decide di perseguire i fini del fondamentalismo attraverso un lavoro nella società civile e il ricorso, ove possibile, ai mezzi della politica tradizionale, senza condannare moralmente il terrorismo ma considerandolo tatticamente controproducente, con la rilevante eccezione della Palestina, dove la locale branca dei Fratelli Musulmani, Hamas, «Fervore» — ma la parola è anche acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, «Movimento di resistenza islamico» —, utilizza il terrorismo contro Israele, Qutb ritiene inevitabile il ricorso alla lotta armata. Wright si sofferma sul soggiorno di studio di Qutb negli Stati Uniti d’America dal 1948 al 1950 e sullo choc culturale provocato in un pio musulmano egiziano dai costumi da bagno e dalla libertà sessuale delle studentesse in un ambiente accademico statunitense che pure non era quello del dopo-1968. Già allora Qutb comincia a pensare che l’Occidente abbia raggiunto un tale grado di degenerazione da dover e da poter essere distrutto. Qutb viene impiccato nel 1966 — nel quadro della repressione contro i Fratelli Musulmani del regime laicista e nazionalista di Gamal Abdel Nasser (1918-1970) — e non partecipa dunque alla scissione dei Fratelli Musulmani di cui è protagonista un suo discepolo diretto, il già citato Ayman al-Zawahiri — cui Wright dedica un’altra delle sue biografie — dopo l’assassinio nel 1981 da parte di ultra-fondamentalisti islamici del successore di Nasser, il presidente egiziano Anwar as-Sadat (1918-1981).

L’assassinio di Sadat è un successo militare — nonostante il massiccio apparato di protezione, il sospettoso presidente cade comunque vittima dell’attentato —, ma un fallimento politico: all’attentato non segue, come pensavano molti Fratelli Musulmani, una rivoluzione islamica ma una successione a Sadat del vicepresidente Hosni Mubarak, e un’ulteriore repressione contro i fondamentalisti. La maggioranza dei Fratelli Musulmani sceglie allora la strada «neo-tradizionalista» — che le ha dato grandi soddisfazioni e si risolve oggi in una sostanziale egemonia culturale del movimento fondamentalista in un Egitto pure tuttora governato da Mubarak —, determinando la scissione ultra-fondamentalista dell’ala «qutbista» di al-Zawahiri. Quest’ultimo, medico affermato e discendente da una delle famiglie più illustri nella vita culturale del Cairo, entra in clandestinità e s’impegna sia nell’organizzazione di numerosi attentati, sia in una guerra di pamphlet e di libri contro la dirigenza dei Fratelli Musulmani. Quest’ultima gli rimprovera che i suoi attentati non fanno né faranno cadere il regime di Mubarak: ancora una volta la questione non è morale ma tattica. Al-Zawahiri risponde che il regime sta in piedi non grazie a Mubarak, che è solo il burattino, ma grazie ai burattinai — gli Stati Uniti d’America e l’Occidente — che, presto o tardi, si tratterà dunque di colpire direttamente. Correttamente, come tutti i migliori specialisti accademici prima di lui (59), Wright identifica nella polemica fra al-Zawahiri e i Fratelli Musulmani — a sua volta difficile da capire senza partire dalle tesi di Qutb — la radice dell’11 Settembre.

È infatti al-Zawahiri l’ideologo che convince Osama bin Laden a utilizzare le forze finanziate e organizzate dal figlio del magnate saudita per combattere i sovietici in Afghanistan — e che Bin Laden pensava inizialmente di concentrare nella lotta per rovesciare la monarchia saudita, che giudicava ormai irrimediabilmente corrotta, con un odio ampiamente ricambiato, così che non si deve scambiare il finanziamento di singoli ricchi sauditi a Osama bin Laden per una simpatia del governo saudita, che ha anzi cercato più volte di assassinare il terrorista — per colpire direttamente l’Occidente, prima attraverso le ambasciate e le navi in Asia e in Africa, quindi direttamente negli Stati Uniti d’America e in Europa. Di Osama bin Laden Wright traccia un ritratto quasi speculare a quello di O’Neill. Anch’egli — ovviamente in un contesto del tutto diverso da quello dell’agente segreto dell’FBI — unisce una grande devozione religiosa ad atteggiamenti che derivano dalla sua jeunesse dorée come figlio di un miliardario. Non solo ha quattro mogli, cosa del tutto lecita per un musulmano — la prima delle quali, la siriana Najwa Ghanem, l’ha abbandonato nel 2001 affermandosi trascurata a favore delle altre più giovani (60), e diciassette figli —, ma ha più volte sollevato malumori fra i suoi uomini per aver destinato notevoli somme di danaro, anche in tempi difficili, prima ai capricci di tre mogli — la stessa Najwa Ghanem si faceva portare in Afghanistan biancheria intima e cosmetici americani del tipo di quelli che scandalizzavano Qutb, e faceva jogging per mantenere la sua linea in una tuta occidentale certamente sconsigliata alle buone musulmane (61) — e poi all’acquisto, secondo la tradizione dello Yemen, da cui veniva la ragazza, della bellissima quarta moglie quindicenne Amal al-Sada, più giovane delle sue figlie, nello stesso anno fatale 2001 (62).

Ma, nonostante queste debolezze personali, Osama bin Laden — secondo Wright — non ha portato al jihad soltanto il suo denaro. Al-Zawahiri, con tutta la sua esperienza di militante che ha attraversato le diverse stagioni del fondamentalismo, non è né un capo carismatico né un brillante oratore, come si può constatare vedendo e ascoltando i suoi videomessaggi, che compaiono abbastanza frequentemente su Internet. Bin Laden incarna invece la figura stessa del capo carismatico (63), che i suoi hanno seguito fino all’attentato dell’11 Settembre. Ultimamente — o almeno questa è la prospettiva di Wright, che forse qualche storico delle ultime generazioni considererebbe fuori moda — la storia è fatta dalle figure carismatiche più che dai movimenti di massa, e senza Osama bin Laden non vi sarebbe stato nessun 11 Settembre.

In una conversazione videoregistrata poco dopo l’11 Settembre nella casa di Kandahar, in Afghanistan, dello sceicco saudita paralizzato Khaled bin Ouda bin Moahammed al-Harby, Bin Laden racconta come l’attentato sia riuscito al di là delle sue più ottimistiche previsioni: «Avevamo cercato di prevedere le perdite del nemico. Avevamo calcolato il numero di passeggeri negli aeroplani — questi sarebbero morti di certo. Quanto alle Torri, pensavamo che sarebbero morte le persone dei tre o quattro piani che gli aerei avrebbero colpito. Questo era tutto quello che ci aspettavamo. A causa della mia professione [Osama bin Laden ha studiato ingegneria in Arabia Saudita], immaginavo che il carburante degli aeroplani avrebbe fatto salire la temperatura dell’acciaio fino al punto in cui diventa rosso, quasi perde le sue proprietà. Così, immaginando che l’aeroplano colpisca l’edificio qui [fa un gesto con le mani] anche la parte dell’edificio superiore a questo piano cadrà. Questo è il massimo che potevamo sperare» (64). Non solo nessuno ha seriamente messo in dubbio l’autenticità di questa registrazione — le abituali litanie secondo cui comunque sempre e tutto è falso non sono certo argomenti — ma Bin Laden si dimostra più competente in ingegneria del Truth Movement: per esempio, non parla di «fusione» dell’acciaio.

Vi è qualche cosa, tuttavia, che neppure Bin Laden, nelle sue speranze più ardite, poteva immaginare. Si tratta precisamente del Truth Movement, e del fatto che migliaia di persone, nonostante tutti i documenti che portano dall’attentato ad Al-Qa‘ida — di più, nonostante la testimonianza dello stesso Bin Laden —, non credano che l’attentato sia opera di ultra-fondamentalisti islamici e lo attribuiscano alla CIA o al Mossad. Qutb avrebbe certo visto nel Truth Movement la conferma della sua diagnosi sull’Occidente come affetto da una mortale malattia morale che ne avrebbe alla fine determinato, nonostante ogni supremazia tecnologica, la disfatta.

Al-Qa‘ida ha realizzato il sogno di Qutb — colpire gli Stati Uniti d’America — nella versione politica e pragmatica del discepolo di Qutb, al-Zawahiri: colpire l’Occidente per avviare un processo che lo porti a disinteressarsi del Medio Oriente, lasciando gli ultra-fondamentalisti liberi di prendere il potere, consolidarlo e ripartire verso quella conquista del mondo interrotta dalle sconfitte militari dell’islam a partire dal secondo assedio di Vienna, del 1683, ma che rimane un dovere per ogni buon musulmano. L’esistenza stessa del Truth Movement — e la propaganda che alle sue tesi è fatta da giornali e da televisioni disposti a vendere l’anima per qualche lettore o per qualche punto di share in più — rischiano di confermare la profezia di Qutb, secondo cui, a un certo punto, un Occidente snervato dai suoi vizi non avrebbe più avuto la forza di resistere. E non è un caso se le assurde teorie del Truth Movement penetrano anche sui «grandi» media più facilmente in Europa che negli Stati Uniti d’America. Infatti viviamo in un’epoca in cui «per l’estraneo, quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia» (65). «Congedarsi dalla storia» significa finire, calare il sipario su tutta una civiltà. Non sono parole di Sayyid Qutb, ma di Papa Benedetto XVI, nei suoi auguri natalizi del 2006 alla Curia Romana.

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Vedi anche il sito 11 settembre

(1) Cfr. un primo accostamento, nella mia voce Le teorie del complotto, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni, con Presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 107-112.

(2) Cfr., da ultimo, Michael Barkun, A Culture of Conspiracy. Apocalyptic Visions in Contemporary America, University of California Press, Berkeley-Los Angeles -Londra 2003.

(3) Cfr. Georg Simmel, Il segreto e la società segreta, Capitolo V di Idem, Sociologia, trad. it., con Introduzione di Alessandro Cavalli, Edizioni di Comunità, Milano 1989, pp. 291-345.

(4) Cfr. Dan Brown, Il Codice da Vinci, trad. it., Mondadori, Milano 2003.

(5) Cfr. Gérard de Sède, L’or de Rennes ou la vie insolite de Bérenger Saunière, Curé de Rennes-le-Château, Julliard, Parigi 1967.

(6) Cfr. Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, Il Santo Graal, trad. it., Mondadori, Milano 1982.

(7) Cfr. il mio Gli Illuminati e il Priorato di Sion. La verità sulle due società segrete del «Codice da Vinci» e di «Angeli e demoni», Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2005.

(8) Cfr. ibidem.

(9) In realtà una ricerca sul motore Google condotta il 14 dicembre 2006 rivela oltre 1.150.000 riferimenti ai complotti sull’11 Settembre nella sola lingua inglese; tuttavia, una minoranza dei siti con tali riferimenti riassume le teorie complottiste per criticarle.

(10) Tracy Belvins, che fa parte dell’associazione Scholars for 9/11 Truth, «Ricercatori per la verità sull’11 Settembre», parte integrante del Truth Movement, è ricercatrice in Ingegneria Biologica alla Rice University di Houston, nel Texas, il che ne fa un’esperta di biotecnologie, non del crollo di edifici o di aeronautica; Kevin Barrett, un altro membro dell’associazione, è stato adjunt lecturer a titolo temporaneo, il gradino più basso della carriera accademica americana, all’Università del Wisconsin a Madison, dove ha tenuto — dal momento che per l’anno accademico 2006-2007 ha ritenuto più prudente mettersi in aspettativa e rinunciare a insegnare, pur manifestando l’intenzione di riprendere la carriera universitaria in futuro — un corso di «Introduzione all’islam» che si occupa del Corano, non del fondamentalismo islamico, argomento sul quale non vanta alcuna pubblicazione scientifica.

(11) Il 5 dicembre 2006 Jones si è peraltro dimesso sia da vicepresidente, sia da membro dell’associazione Scholars for 9/11 Truth, giustificando tale decisione con il suo dissenso sull’orientamento del gruppo «in merito alla scienza e alla politica» come riferisce lo stesso sito Web dell’associazione, <http://st911.org/> , visitato il 14-12-2006.

(12) Cfr. il mio Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2004.

(13) Cfr. Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni. Discorso durante l’incontro con i rappresentanti del mondo scientifico nell’Università di Regensburg, del 12-9-2006, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 14-9-2006.

(14) Cfr. il mio La nuova guerra mondiale. Scontro di civiltà o guerra civile islamica?, Sugarco, Milano 2005.

(15) Per meritarsi questa accusa basta avere un cognome «sospetto» o antenati ebrei. Così nella letteratura del Truth Movement si definisce spesso «ebreo» il ministro dell’Interno francese Nicolas Sarkozy, che irride di frequente le tesi della versione francese del movimento, ignorando sia che l’uomo politico — il cui nome completo è Nicolas Paul Stéphane Sarkozy de Nagy-Bócsa — discende per parte di padre da una famiglia di antica aristocrazia ungherese, esule in Francia dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1944, sia che egli si dichiara pubblicamente cattolico e anche praticante, seppure non regolare (cfr. Nicolas Sarkozy, La Repubblica, le Religioni, la Speranza: conversazioni con Thibaud Collin e Philippe Verdin, trad. it., con Introduzione di Gianfranco Fini, Nuove Idee, Roma 2005). Il nonno materno di Nicolas Sarkozy era un ebreo di Salonicco, che però si convertì al cattolicesimo ed ebbe una moglie cattolica.

(16) David Icke, Alice nel paese delle meraviglie e il disastro delle Torri Gemelle. Ecco perché la versione ufficiale dei fatti dell’11 settembre è una menzogna colossale, trad. it., Macro Edizioni, Diegara di Cesena (Forlì) 2003.

(17) Cfr. il personaggio Icke e le ragioni del suo successo, in M. Barkun, op. cit., pp. 103-109.

(18) Sull’Ordine degli Illuminati, che è spesso chiamato in causa — del tutto a torto, dal momento che è ridotto a un pugno di adepti, anziani e senza alcuna influenza sulle vicende politiche contemporanee, in Svizzera — nelle teorie complottiste sull’11 Settembre, cfr. il mio Gli Illuminati e il Priorato di Sion. La verità sulle due società segrete del «Codice da Vinci» e di «Angeli e demoni», cit.

(19) Conspiracy Planet, Illuminati Insider: «Black» Pope Controls «Gay» Pope, <http://conspiracyplanet.com/channel.cfm?channelid =98& contentid=4032> , visitato il 1°-2-2007; l’articolo è stato ripreso da un buon numero di siti, di newsgroup e di trasmissioni radiofoniche del Truth Movement, come mostra una semplice ricerca tramite il motore Google.

(20) Ibidem.

(21) Ibidem.

(22) Ibidem.

(23) Ibidem.

(24) Cfr. Art Spiegelman, L’Ombra delle Torri, trad. it., Einaudi, Torino 2004.

(25) Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana (1919-2000), 4 voll., Einaudi, Torino 1977, vol. III, p. 1744.

(26) Cfr. David Dunbar e Brad Regan (a cura di), Debunking 9/11 Myths. Why Conspiracy Theories Can’t Stand Up to the Facts, Hearst Books, New York 2006.

(27) Franco Cardini e Giulietto Chiesa: Noi complottisti, del 9-10-2006, <www.identitaeuropea.org/archivio/articoli/cardini_complottisti.html> .

(28) Ibidem.

(29) Ibidem.

(30) James B. Meigs, The Conspiracy Industry, pubblicato in appendice a D. Dunbar e B. Regan (a cura di), op. cit., pp. 91-107 (p. 102).

(31) Ibid., p. 103.

(32) Cfr. Phil Molé, 9/11 Conspiracy Theories. The 9/11 Truth Movement in Perspective, in Skeptic, vol. 12, n. 4, quarto trimestre 2006, pp. 30-43.

(33) National Institute of Standards and Technology, Final Report of the National Construction Safety Team on the Collapses of the World Trade Center, National Institute of Standards and Technology, Gaithersburg (Maryland) 2005.

(34) Paul F. Mlakar, Donald O. Dusenberry, James R. Harris, Gerald Haynes, Long T. Phan e Mete A. Sozen, The Pentagon Building Performance Report, Baltimora (Maryland) 2003.

(35) Franco Cardini e Giulietto Chiesa: Noi complottisti, cit.

(36) D. Dunbar e B. Regan (a cura di), op. cit., p. 35.

(37) Ibid., p. 36.

(38) Cfr. Lamont-Doherty Observatory. Columbia University, Seismic Waves Generated by Aircraft Impoacts and Building Collapses at World Trade Center, New York City, Columbia University, New York 2005.

(39) Thierry Meyssan, L’incredibile menzogna. Nessun aereo è caduto sul Pentagono, trad. it., con Prefazione di Sandro Veronesi, Fandango, Roma 2002.

(40) D. Dunbar e B. Regan (a cura di), op. cit., p. 65.

(41) Cfr. United 93 (Gran Bretagna, U.S.A. 2006). Regista: Paul Greengrass. Interpreti principali: Lewis Alsamari, Cheyenne Jackson, Trish Gates, Khalid Abdalla, Opal Alladin, David Alan Basche, Richard Bekins, Starla Benford.

(42) Cfr. Pierre-Jean Luizard, La questione irachena, trad. it., Feltrinelli, Milano 2003.

(43) Cfr. Independent Inquiry Committee (IIC), Report on the Manipulation of the Oil-for-Food Programme, United Nations Publications, New York 2005.

(44) Cfr. Craig Whitlock, Zarqawi Building His Own Terror Network, in TheWashington Post, Washington D. C. 3-10-2004.

(45) Cfr. il mio Osama bin Laden. Apocalisse sull’Occidente, Elledici, Leumann (Torino) 2001.

(46) Cfr. Lawrence Wright, The Looming Tower. Al-Qaeda and the Road to 9/11, Alfred A. Knopf, New York 2006.

(47) Cfr. Eric Leser, L’Empire Carlyle, in Le Monde, Parigi 29-4-2004.

(48) Da non confondersi con l’omonimo storico inglese autore — fra l’altro — di Civiltà in bagno. Storia del bagno e di numerosi accessori, abitudini e mode riguardanti l’igiene personale, trad. it., Antonio Vallardi, Milano 1987.

(49) L. Wright, The Looming Tower. Al-Qaeda and the Road to 9/11, cit.

(50) Cfr. L. Wright, Remembering Satan, Alfred A. Knopf, New York 1994.

(51) Robert F. Worth, Al Qaeda’s Inner Circle, in The New York Review of Books, vol. LIII, numero 16, New York 19-10-2006, pp. 12-16 (p. 12).

(52) Amy Rosenthal, Rispunta Zawahiri. Uno scrittore che conosce al Qaida ci spiega perché, in Il Foglio quotidiano, Roma 21-12-2006.

(53) L. Wright, The Looming Tower. Al-Qaeda and the Road to 9/11, cit., p. 351.

(54) Ibid., p. 202.

(55) Ibid., p. 346.

(56) Ibid., p. 347.

(57) Cfr. ibid., p. 348.

(58) Cfr. Renzo Guolo, Il partito di Dio. L’islam radicale contro l’Occidente, Guerini e Associati, Milano 1994.

(59) Cfr. un ulteriore approfondimento della tematica e relativa bibliografia, nel mio Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa, cit.

(60) Cfr. L. Wright, The Looming Tower. Al-Qaeda and the Road to 9/11, cit., p. 338.

(61) Cfr. ibid., p. 253.

(62) Cfr. ibid., p. 338.

(63) Cfr. una prospettiva simile sul carisma di Osama bin Laden, nel mio Osama, l’imprenditore del terrore, in Ideazione. Rivista di cultura politica, anno XI, n. 4, Roma luglio-agosto 2004, pp. 80-86.

(64) L. Wright, The Looming Tower. Al-Qaeda and the Road to 9/11, cit., p. 370.

(65) Benedetto XVI, Discorso durante l’udienza ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2006, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-12-2006.