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L'islam che odia l'Europa

di Massimo Introvigne (il Giornale, 19 aprile 2007)

L'eccidio di Malatya conferma che c’è una Turchia che odia l’Europa. La politica turca non è sempre facile da capire per gli europei, ma le sue linee principali sono note. Una rivoluzione laicista, guidata da Kemal Atatürk, ha non solo separato la religione dallo Stato ma ha cercato attivamente di dare alla maggioranza della popolazione un’educazione secolare e non religiosa.

Il kemalismo ha goduto per anni di un reale consenso popolare, oltre a dominare i quadri dell’Esercito. Dopo la Seconda guerra mondiale sia il suo laicismo di stampo ottocentesco sia il suo autoritarismo sono apparsi anacronistici. Ne sono nati da una parte uno spazio sempre maggiore per l’islam politico, le cui affermazioni elettorali hanno dimostrato ancora una volta come sia difficile sradicare il sentimento religioso nei Paesi musulmani, dall’altra frequenti colpi di Stato dell’Esercito, che si considera il custode dell’ortodossia kemalista. Nel 2001, tanto più dopo l’11 settembre, all’interno dell’islam politico si è verificata una «svolta di Fiuggi». La generazione più giovane del partito neo-fondamentalista, l'AKP, ha emarginato il vecchio leader Erbakan, ha dichiarato di ripudiare il fondamentalismo e di accettare un certo grado di separazione fra religione e politica, insieme ai diritti delle donne e delle minoranze religiose. Guidato dai sindaci di Istanbul, l’attuale primo ministro Erdogan, e di Ankara, il ministro degli Esteri Gul, l’AKP ha vinto le elezioni del 2002. L’Esercito, pur non entusiasta, ha lasciato fare, ascoltando i consigli americani e convinto che la democrazia fosse la carta migliore da giocare per l’ingresso in Europa. In questi giorni la tensione è tuttavia alta, da una parte per l’avversione dell’Esercito alla candidatura di Erdogan alla presidenza della Repubblica (una carica-simbolo del kemalismo), dall’altra perché il processo di adesione all’Ue avanza così lentamente da far sospettare a molti che non avanzi affatto. Il movimento dei Lupi Grigi, che sembra l’ispiratore della strage di Malatya, non ama il governo Erdogan. Il suo fondatore Alparslan Turkes creò un gruppo - di cui avrebbe fatto parte anche Mehmet Ali Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II - il cui nome fa riferimento all’animale totemico delle antiche popolazioni turche nella loro casa ancestrale in Mongolia. Il riferimento alla Mongolia nell’ideologia dei Lupi Grigi manifesta insieme un’avversione per tutto quanto è europeo e la nostalgia pagana di un remoto passato pre-islamico. Oggi i Lupi Grigi rivendicano anche l’islam come parte irrinunciabile e costitutiva dell’eredità nazionale turca. L’islam, però, è visto come macchina per produrre patriottismo e nazionalismo in un’ottica che non nasce come religiosa. I Lupi Grigi, emarginati nella dialettica fra kemalisti e seguaci di Erdogan, sono alleati preziosi per chi voglia pescare nel torbido: ieri i servizi sovietici, oggi Al Qaida. Il mondo politico turco dovrebbe mantenere la calma, perseguendo con la necessaria durezza i terroristi e gli assassini e cercando una nuova sintesi nazionale in cui sia l’Esercito sia Erdogan dovranno per forza rinunciare a qualcosa. Senza sciogliere il nodo, ancora troppo complesso, dell’adesione all’Unione Europea, l’Europa dovrebbe seguire con simpatia ogni tentativo di concordia nazionale.