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E Moravia, cattivo profeta, scelse la fede comunista

di Massimo Introvigne (Avvenire, 9 ottobre 2007)

fotoSarebbe senz’altro ingeneroso prendersela con Alberto Moravia per l’inedita bozza di romanzo I due amici scritta nel 1952, dimenticata in una valigia e ora edita da Bompiani. Uno scrittore è responsabile solo di quello che decide di pubblicare in vita. E tuttavia alcune affermazioni possono essere oggetto di meditazione: non per la forma – che forse lo scrittore avrebbe rivisto se avesse deciso di pubblicare I due amici – ma per il contenuto. Non c’è dubbio che sia il Moravia che conosciamo a parlare quando prevede che il comunismo, in quanto coincidenza di verità scientifiche e religiose, sia l’unica religione destinata a sopravvivere al ventesimo secolo. Il comunismo, scriveva Moravia, è “a fondo religioso né più né meno del cristianesimo” ma ha “su quest’ultimo la superiorità di esprimersi con il linguaggio del tempo che non è appunto religioso ma scientifico”.
Pessimo profeta – le religioni sono tutt’altro che scomparse nel ventunesimo secolo e se c’è un Dio che è morto è piuttosto proprio quello comunista – Moravia coglie però in queste pagine il nucleo essenziale di diverse generazioni di gioventù contestataria: la beat generation degli anni 1950, i ragazzi del 1968, quelli del 1977 e i giovani di sinistra travolti dal crollo del comunismo nel 1989. Queste generazioni partivano da un sentimento comprensibile:  la “società dei consumi” del dopoguerra, per quanto fosse capace di soddisfare molti bisogni materiali sostanzialmente deludeva rispetto a quell’attesa di felicità che continuamente prometteva, ma che la pura moltiplicazione del consumo non può dare. Deluse però dai fondamenti filosofici proposti dalla cultura dominante, e certamente incapaci di recuperare le tradizionali verità della religione, le rivoluzioni culturali dagli anni 1950 agli anni 1980 si sfogano in due direzioni, come ha notato Enzo Peserico nei suoi bei saggi sul 1968. Prima si presentano come rivoluzioni in interiore homine (“la vita come rivoluzione”), che dissolvono l’individuo scollegandolo da ogni legame: con Dio, con gli altri e alla fine anche con se stesso, fino all’autodistruzione tramite la droga o il suicidio. Quindi diventano rivoluzioni politiche (“la vita per la rivoluzione”) e si fanno facilmente riassorbire dal marxismo. In una mirabile conversazione con il clero veneto tenuta nello scorso luglio ad Auronzo di Cadore, Benedetto XVI ricordava che le rivoluzioni culturali del 1968 e del 1989 (di cui quella degli anni 1950 è la madre) volevano “ricominciare tutto da zero in modo assolutamente nuovo”. Credettero di trovare la novità nel marxismo, di cui fecero una religione e una teologia. Ma il marxismo non poteva mantenere le sue promesse religiose, e la delusione finì per generare una rovinosa “caduta nel nichilismo”. È la storia di quattro generazioni di contestatori, di cui la carriera letteraria di Moravia resta, inediti compresi, uno specchio fedele e tragico.