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Tibet: “In piazza non ci sono solo monaci: la resistenza la fanno gli studenti”

di Massimo Introvigne (il Giornale, 16 marzo 2008)

Il Tibet del 2008 è come la Polonia del 1980, come la Lituania del 1988, come la Birmania del 2007 e anche come l'Afghanistan del 1989, dove la maggioranza dei miliziani che combattevano contro l'Urss non stavano con Bin Laden ma chiedevano libertà religiosa e democrazia. Che cos'hanno in comune questi scenari, culturalmente diversissimi? La forza della religione che scende in piazza: una forza tale da aver fatto cambiare idea a un teorico della secolarizzazione come il sociologo Peter Berger che, dopo la Polonia e l'Afghanistan, parla di un mondo ormai «de-secolarizzato». Questo vigore della religione che rende interi popoli disposti a battersi e a morire per la libertà non è un residuo di tempi passati. In Polonia non erano vecchi che ricordavano gli anni Trenta a organizzare la resistenza al comunismo. Erano giovani, studenti e operai che non avevano conosciuto altra scuola che quella comunista, dove s'insegnavano l'ateismo scientifico e il materialismo dialettico. E anche i lituani, gli afghani, i birmani venivano da scuole che da anni martellavano contro la religione come oppio del popolo. Quando si tratta di sacerdoti come padre Jerzy Popieluszko, il martire della resistenza polacca ucciso dal regime nel 1984, o di monaci, come in Birmania o all'inizio della protesta tibetana di questo mese, si può certo immaginare che abbiano anche ricevuto una formazione alternativa.
Ma preti e monaci da soli non fanno una resistenza. In Tibet le immagini ci mostrano sempre meno monaci e sempre più giovani che non sono religiosi, ragazzi e ragazze uguali a tanti altri nell'impero cinese comunista e consumista che tuttavia sono disposti a morire per la libertà.
Nessuno di loro ha studiato nei monasteri. Hanno frequentato la temuta scuola unica cinese, dove si continua ancora oggi a venerare la sanguinaria memoria di Mao Tse-tung, se ne imparano a memoria le massime e perfino le poesie, si tace sui suoi crimini, si è esposti a una quotidiana propaganda dell'ateismo che insegna che Dio non esiste e le religioni hanno solo sfruttato i poveri e gli oppressi. Sono gli allievi di questa scuola che oggi pregano, vanno in piazza, invocano il buddhismo, gridano che l'educazione atea è una menzogna. Non bastano cinquant'anni di indottrinamento a strappare dall'anima di un popolo la sua fede millenaria.
Il buddhismo è sopravvissuto in Tibet grazie a un meccanismo sociale silenzioso ma efficace. Strettamente sorvegliata nella sfera pubblica, la religione ha fatto un passo indietro e si è rifugiata nella sfera privata, nella vita delle famiglie che il regime non può controllare e in piccoli circoli di lettura e meditazione che la polizia cinese non sempre riesce a scovare e reprimere. La distruzione di 6.500 monasteri da parte dei cinesi non è bastata. Nel cuore di ogni credente c'è un monastero interiore che nessuna polizia può devastare.
Naturalmente i ragazzi del Tibet sanno bene di non poter vincere. L'esercito cinese alla fine riuscirà a reprimere la rivolta nel sangue, come già avvenne nel 1956 e nel 1959. Ma negli anni Cinquanta non c'erano la Cnn e Internet. I giovani di Lhasa vogliono che tutto il mondo almeno si accorga del fatto che la repressione continua. Sperano che qualcuno in Occidente pensi meno al business degli affari con la Cina e delle Olimpiadi e più ai diritti umani. Anche questo dovrebbe diventare un tema di campagna elettorale, in America come in Italia.