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La Chiesa e la crisi della filosofia
Un’intervista con Ralph McInerny

di Massimo Introvigne

imgRalph McInerny è nato nel Minnesota il 24 febbraio 1929. Dopo un periodo di servizio militare come marine, ha studiato all’Università del Minnesota e all’Université Laval di Québec City, in Canadà, dove ha conseguito nel 1954 il dottorato in filosofia summa cum laude. Ha insegnato filosofia in numerose università – non solo negli Stati Uniti ma in Argentina, in Belgio, a Taiwan – e tuttavia la sua carriera accademica ha sempre avuto come centro l’Università di Notre Dame, presso South Bend (Indiana), la più grande università cattolica degli Stati Uniti e una delle maggiori del mondo, dove è stato per cinquant’anni professore di filosofia medievale e dove tuttora dirige il Centro Jacques Maritain. È membro dell’Accademia Cattolica delle Scienze, della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino e della Commissione del Presidente degli Stati Uniti per le Arti e le Lettere.

Considerato uno dei maggiori filosofi cattolici viventi, è noto al grande pubblico, non solo negli Stati Uniti, oltre che per una serie di opere divulgative su San Tommaso d’Aquino (1225-1274), per la sua intensa attività di romanziere, nell’ambito della quale spiccano i ventisette romanzi (il ventottesimo è già stato consegnato all’editore, ed è in uscita un primo volume di raccolta dei racconti brevi pubblicati su diverse riviste) che hanno come protagonista Padre Dowling, un parroco dell’Arcidiocesi di Chicago regolarmente coinvolto in vicende criminali che risolve con capacità deduttive degne dei migliori detective privati. Dalle storie di Padre Dowling è stata tratta anche una fortunata serie televisiva, ripetutamente trasmessa anche in Italia. In lingua italiana, tra le sue opere filosofiche, sono state tradotte – grazie agli intelligenti e meritori sforzi del professor Fulvio Di Blasi, da anni amico e collaboratore di McInerny – L’analogia in Tommaso d’Aquino (Armando, Roma 1999) e Conoscenza morale implicita (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2006).

Universita' di Notre DameIncontro Ralph McInerny presso il Centro Jacques Maritain dell’Università di Notre Dame. Non posso fare a meno di notare la differenza fra questa gloria del sistema cattolico di educazione negli Stati Uniti – con i suoi giardini perfettamente curati, la pulizia immacolata delle aule e dei corridoi, l’assenza di graffiti o scritte sui muri, gli studenti discreti e silenziosi – e le università italiane, per dire il meno molto diverse. Eppure proprio leggendo McInerny si scopre che non è tutto oro quel che luccica e che la stessa Università di Notre Dame ha avuto tra i suoi professori teologi e filosofi «progressisti» che hanno contribuito alla grave crisi della Chiesa Cattolica americana, un argomento che ritorna nei saggi e anche nei romanzi del filosofo statunitense. Come sta Notre Dame, allora? «Certamente – spiega McInerny – Notre Dame riflette sia la crisi della Chiesa americana, che non è finita, sia i segni di nuovi attegiamenti e di un ritorno alla tradizione, che si manifestano in tutti gli ambienti cattolici degli Stati Uniti negli ultimi anni, e che coesistono con i residui di un dissenso che si è manifestato pubblicamente nel 1968 con la contestazione clamorosa contro l’enciclica Humanae vitae. Tuttavia gli edifici continuamente restaurati perché conservino l’apparenza originaria – anche se forse oggi se ne costruiscono troppi di nuovi –, i giardini ben curati, la pulizia e l’ordine costituiscono di per sé dei valori la cui importanza non va sottovalutata. Benché ci siano delle università urbane, in mezzo alle città, ugualmente bene ordinate – Oxford, Cambridge, Harvard – certamente ci aiuta il fatto di avere un campus lontano dalle grandi metropoli e in un luogo idilliaco. Amo molto l’Italia ma le università italiane che ho visitato mi sembrano un luogo francamente disastroso per insegnare e studiare».

Leggendo l’autobiografia che McInerny ha pubblicato nel 2006 I Alone Have Escaped to Tell You. My Life and Pastimes (University of Notre Dame Press, Notre Dame 2006), si ha l’impressione – osservo – che al filosofo un po’ dispiaccia essere conosciuto da migliaia di persone soprattutto, e qualche volta soltanto, come giallista e romanziere. È così? «Certamente io mi considero – risponde – soprattutto un filosofo, e ho dedicato tutta la mia vita alla filosofia. Ho guardato alla letteratura come a un’attività secondaria, ma constato che ancora oggi i miei romanzi hanno moltissimi lettori, i quali scrivono a me e ai miei editori per chiederne di nuovi – e io rispondo, con almeno un nuovo romanzo all’anno. Negli ultimi tempi abbiamo anche visto con Il Codice da Vinci che la letteratura può fare dei grossi danni. È una delle ragioni che mi hanno spinto – alla soglia degli ottant’anni – a intraprendere per così dire una nuova carriera, passando dal romanzo che in Italia chiamate giallo al thriller a sfondo religioso. Ho consegnato all’editore un romanzo, La terza rivelazione, che ha al centro la terza parte del segreto di Fatima svelata dalla Santa Sede nel 2000, cui ne farà seguito un altro in cui lo stesso ruolo è giocato dall’immagine della Madonna di Guadalupe. Se la letteratura può fare del male, può anche fare del bene. Del resto anche le storie di Padre Dowling possono sì essere lette soltanto come gialli, ma in realtà ogni romanzo affronta un aspetto della situazione della Chiesa dopo il Concilio, particolarmente della Chiesa americana». Sbaglio o questo aspetto è andato perso nella serie televisiva? «Non sbaglia. La serie televisiva è un prodotto per famiglie, e io sono contento quando mi riferiscono che è qualcosa che anche i bambini possono vedere senza problemi, il che è più di quanto si possa dire di molta televisione contemporanea. Ma in realtà la sua relazione con i miei libri è piuttosto remota e indiretta».

A proposito del Concilio Ecumenico Vaticano II, confesso di essere particolarmente affezionato a un suo piccolo libro, What Went Wrong With Vatican II. The Catholic Crisis Explained (Che cosa è andato storto con il Vaticano II. Una spiegazione della crisi cattolica: Sophia Institute Press, Manchester [New Hampshire] 1998), che anticipava la tesi delle due esegesi del Concilio – una di rottura e una di continuità, nella riforma, con la tradizione precedente – che oggi è diventata magistero pontificio con Benedetto XVI. Il libro è ancora attuale? «Penso di sì. Per me l’essenziale era distinguere fra i documenti del Concilio Vaticano II e la loro interpretazione, che sono due cose diverse. Io leggo l’italiano e avevo letto con molto interesse Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo [Ricciardi, Napoli 1985] di Romano Amerio [1905-1997], un libro di cui certamente non condivido molte cose ma che mi ha fatto molto riflettere. Tuttavia penso che distinguendo appunto fra il Concilio e la sua esegesi “progressista” si possano accogliere i documenti conciliari in un modo più positivo rispetto a quanto fa Amerio. Un certo numero di cattolici che condividono le mie preoccupazioni mi hanno detto che il mio piccolo libro si concentra troppo sulla teologia, mentre il problema è la liturgia. Si tratta di una posizione che rispetto, ma io penso che la crisi sia nata dalla teologia. E prima ancora dalla filosofia».

Nelle sue lezioni e nei suoi libri – insisto –  lei ha tracciato un bilancio della filosofia moderna da Cartesio (René Descartes, 1596-1650) in poi piuttosto pessimistico… «Il problema sta nello stesso punto di partenza della filosofia. Da Cartesio in poi ogni filosofo pensa di dovere ripartire da capo facendo tabula rasa di tutta la tradizione filosofica precedente, e di dovere dire a tutti i costi qualche cosa di originale. C’è ormai una tradizione che consiste nell’ignorare la tradizione. In realtà la vera filosofia deve partire non solo dai classici ma dall’esperienza comune delle persone e dalle domande che si fanno sul senso di questa esperienza. Come il borghese di Molière [Jean-Baptiste Poquelin, 1622-1673] che faceva della prosa senza saperlo, tutti facciamo della filosofia senza saperlo. È una grande lezione di Giovanni Paolo II [1920-2005]: come la cultura non è l’insieme delle biblioteche così la filosofia riguarda tutti e non è la collezione dei filosofi di professione. E spesso questa filosofia comune del buon senso parte meglio rispetto alla filosofia dei filosofi universitari. Tuttavia si deve reagire alla tentazione di buttare via il bambino con l’acqua sporca, cioè a causa della crisi in cui si è impantanata la filosofia moderna – da cui non la salvano né la fenomenologia di Edmund Husserl [1859-1938] né la cosiddetta metafisica di Martin Heidegger [1889-1976], che sono piuttosto delle false piste – concludere che la filosofia non serve. Al contrario, la filosofia è indispensabile per fare della buona teologia e la crisi della filosofia è alle origini del fatto che è nata una cattiva teologia, che per me è alle origini della crisi nella Chiesa. Questa dunque nasce ben prima del Vaticano II, dato che la crisi della filosofia nasce almeno con gli attacchi alla ragione di Martin Lutero [1483-1546] e con Cartesio, se non già prima con l’autunno del Medioevo. Pertanto dalla crisi nella Chiesa – e nella società – non si uscirà senza un ritorno alla buona filosofia, il che equivale a dire come non si stanca di ripetere Benedetto XVI che la crisi della fede non si risolve senza affrontare la crisi della ragione». Come fare? «Certamente bisogna sottoporre a una severa critica le forme della filosofia moderna che continuano ad affascinare molti cattolici. Per esempio, si dovrebbe mostrare il fondo gnostico di Heidegger, il fallimento del programma di Husserl – qualche cosa, sia detto per inciso, che la sua allieva canonizzata santa Edith Stein [1891-1942] aveva capito molto più a fondo di quanto talora ci si voglia far credere – e la bancarotta della filosofia morale che nega la possibilità di trovare un vero fondamento dei principi etici, qualche cosa che nei Paesi dove si parla inglese deriva in gran parte da George Edward Moore [1873-1958], un personaggio che in Italia forse non ha avuto una grande influenza ma che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è stato decisivo. E tuttavia non basta la critica, e si deve sempre fare attenzione a non ridurre la filosofia alla storia della filosofia, un rischio che i nostri sistemi scolastici ripropongono continuamente. Combattere per la filosofia significa insegnare a ripartire dal senso comune, dal buon senso, e dal fatto che le grandi domande filosofiche – da dove vengo, dove vado, c’è o no un Dio, c’è una vita dopo la morte – sono nel cuore di tutti, precisamente come insegnava Giovanni Paolo II. E nello stesso tempo ammettere che alcuni filosofi hanno tratto dal buon senso le sue logiche conseguenze in modo più brillante di altri, ritornando a leggere e studiare i classici, soprattutto Aristotele e san Tommaso. Personalmente, se dovessi definirmi un una parola direi che sono sempre stato e rimango un tomista. Dobbiamo rileggere l’enciclica Aeterni Patris del 1879 di Papa Leone XIII [1810-1903] e capire che è un testo che non ci raccomanda semplicemente tra tante possibili filosofie quella di san Tommaso. Se fosse così la scelta di Papa Leone XII sarebbe in una certa misura arbitraria. Invece le differenze fra le filosofie sono radicali, e meritano che se ne occupi il magistero, solo quando sono differenze fra la verità e l’errore. Nella verità c’è compatibilità. Quella di san Tommaso e di Aristotele non è “un tipo” di filosofia. È “la” filosofia, quella che parte dai principi che guidano ogni forma di pensiero umano. Il resto è chiacchiera, sofisma o errore».