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Le radici cristiane di un’Europa laica. Il viaggio di Benedetto XVI in Francia

di Massimo Introvigne

imgIl viaggio di Benedetto XVI in Francia (12-15 settembre 2008) costituisce, secondo la sua stessa espressione, un «dittico» composto da due «pannelli» (Benedetto XVI 2008r). Il primo pannello – che comprende i discorsi tenuti a Parigi, e il discorso a Lourdes ai vescovi della Conferenza Episcopale Francese (Benedetto XVI 2008o) – presenta una riflessione sulle radici cristiane dell’Europa nel contesto francese segnato sia dalla laïcité, cioè da una laicità per secoli intesa come laicismo anticristiano e anticlericale, sia dal tentativo del presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, di proporre una nuova nozione di «laicità positiva», critica – o autocritica – nei confronti dei tradizionali laicismo e anticlericalismo francesi e disposta a riconoscere un ruolo pubblico alla religione in Francia (Sarkozy 2004). Il secondo pannello precisa ulteriormente che le radici cristiane dell’Europa sono radici mariane, e propone un’esegesi puntuale delle parole e dei gesti della Vergine Maria nelle apparizioni di Lourdes (11 febbraio – 16 luglio 1858), di cui il viaggio di Benedetto XVI intende celebrare in modo solenne il 150° anniversario. Tuttavia, nei discorsi di Lourdes, il secondo pannello è sempre collegato al primo, così che – pure nella distinzione dei due momenti del viaggio – il discorso resta comunque profondamente unitario: e come tale può essere studiato.

1. Le radici dell’Europa sono religiose

Nei suoi interventi di Parigi, in relazione implicita anche al dibattito sulla Costituzione europea – dalla quale proprio la Repubblica Francese, all’epoca presieduta da Jacques Chirac, chiese ripetutamente che fosse escluso ogni riferimento alle radici ebraiche e cristiane –, Benedetto XVI afferma con forza che non è possibile parlare di Europa, e neppure di Francia, senza considerare le loro radici religiose. È sufficiente camminare per le strade, osservare l’architettura, studiare la letteratura o visitare i musei per rendersi conto che un discorso sull’Europa che prescinda dalle radici religiose, semplicemente, non ha senso. «Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura» (Benedetto XVI 2008d). Il riferimento, anzitutto, a radici religiose permette di valorizzare – come il Papa a Parigi ha fatto in termini a loro modo impegnativi – il contributo dell’ebraismo alla cultura europea, e in particolare «il ruolo eminente svolto dagli Ebrei di Francia per l’edificazione dell’intera Nazione e il loro prestigioso apporto al suo patrimonio spirituale» (Benedetto XVI 2008c). Un richiamo non scontato, ma che il Pontefice considera doveroso in un momento in cui tornano rischi di antisemitismo, di fronte ai quali la Chiesa ricorda, con le parole del cardinale Henri-Marie de Lubac, S.J. (1896-1991), citate a Parigi da Benedetto XVI, che «essere antisemiti significa[va] anche essere anticristiani» (ibidem). La Chiesa, dunque, ripete oggi le parole pronunciate da Pio XI (1857-1939) il 6 settembre 1938, nel pieno della tempesta nazista: «Spiritualmente, noi siamo semiti» (Allocuzione a dei pellegrini del Belgio, del 6-9-1938, cit. in Benedetto XVI 2008c).

Valorizzare le radici religiose dell’Europa offre anche un contesto e un quadro per il dialogo con le nuove presenze islamiche, a proposito delle quali il Papa invita anzitutto allo studio per «un reale impegno di conoscenza reciproca» (Benedetto XVI 2008o), in assenza del quale si rischia di cadere in percorsi di dialogo che «conducono a vicoli ciechi» (ibidem). Né il vivere in una «società globalizzata, pluriculturale e plurireligiosa» (ibidem) può essere pretesto per nascondere la Verità o rinunciare alla missione, anche nei confronti degli stessi musulmani. Una società dove convivono più religioni dev’essere al contrario vissuta come «un’opportunità che il Signore ci offre di proclamare la Verità» (ibidem). Se un tempo i missionari dovevano andare a cercare i seguaci di religioni non cristiane nei loro Paesi, oggi costoro vengono da noi come immigrati, e attraverso la loro presenza il Signore ci offre l’occasione di esercitare la missione, che rimane un aspetto imprescindibile della vita cristiana, senza dovere necessariamente partire verso terre lontane.

2. Le radici dell’Europa sono cristiane

Ma in ogni caso, mentre riconosce il contributo nella storia o nell’attualità di altre religioni, la Chiesa non può astenersi dal proclamare che le radici dell’Europa sono cristiane. Valutando positivamente gli elementi di novità introdotti dal presidente Sarkozy nel dibattito politico sulla religione in Francia, Benedetto XVI così gli si rivolge: «Signor Presidente, Ella ha ricordato che le radici della Francia – come quelle dell’Europa – sono cristiane. Basta la storia a dimostrarlo» (Benedetto XVI 2008b). Anzi, «il porre in evidenza le radici cristiane della Francia permetterà ad ogni abitante di questo Paese di meglio comprendere da dove egli venga e dove egli vada» (Benedetto XVI 2008o).

In Francia, il Papa ricorda in particolare la figura del Padre della Chiesa sant’Ireneo di Lione (130-202), particolarmente caro a Benedetto XVI come testimonianza vivente delle radici insieme greche e latine dell’Europa Occidentale (e si sa quanto il Pontefice tenga a ricordare sempre il contributo greco). Questo Padre della Chiesa di Francia, infatti, non era francese di nascita. «Sant’Ireneo era venuto da Sirme per predicare la fede nel Cristo risorto. Lione aveva dunque un vescovo la cui lingua materna era il greco» (Benedetto XVI 2008b).

Né si tratta solo di sant’Ireneo. «La fede del Medio Evo ha edificato le cattedrali» (Benedetto XVI 2008e), e proprio la Francia conta alcune delle più belle e famose cattedrali d’Europa, testimonianza viva delle radici cristiane che nessuno può ignorare. «Essendo un uomo del barocco» (Benedetto XVI 2008a), il Pontefice apprezza anche la letteratura cattolica francese dell’Ottocento, in cui ritrova un che di barocco. In particolare – ma cita anche i romanzi di Georges Bernanos (1888-1948; cfr. ibidem) – gli «piace molto» (ibidem) la poesia di Paul Claudel (1868-1955), la cui conversione è del resto legata al fascino delle cattedrali medievali e in particolare di quella di Parigi, Notre-Dame (Benedetto XVI 2008e), e testimonia che la vera arte cristiana – quella di ieri come quella di oggi –  è sempre un «cammino verso Dio» (ibidem).

3. Le radici dell’Europa sono monastiche 

Se il richiamo alle radici religiose e cristiane dell’Europa costituisce un tema consueto del magistero di Benedetto XVI – come già di quello di Giovanni Paolo II (1920-2005) – a Parigi il Papa c’invita a fare un passo in più, che costituisce il tema specifico del discorso al Collège des Bernardins, da molti giudicato uno dei grandi discorsi del suo pontificato insieme a quello del 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona. Al Collège des Bernardins il Papa fa notare che le radici cristiane dell’Europa sono, più precisamente, radici monastiche, e che nei monasteri medievali le radici dell’Europa si confondono con le radici della teologia della Chiesa universale.

Le «radici della cultura europea» si trovano precisamente nei monasteri, i quali «nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi» non solo conservano «i tesori della vecchia cultura» ma insieme ne formano una nuova (Benedetto XVI 2008 d). Per la verità, i monaci non avevano come scopo la cultura: «si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio» (ibidem). Non si trattava però di una ricerca senza bussole né di «una spedizione in un deserto senza strade» (ibidem). Al contrario, «Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso» e dato ai cercatori una via: «la sua Parola», consegnata agli uomini nelle Sacre Scritture (ibidem).

La cultura dei monaci era così necessariamente una «cultura della parola», e i monaci avevano bisogno di studiare le «scienze profane», a partire dalla grammatica, non perché coltivassero la scienza per la scienza ma perché per la loro ricerca di Dio avevano bisogno di comprendere la Scrittura, e questo non poteva avvenire senza le scienze. Benedetto XVI cita ripetutamente lo storico benedettino dom Jean Leclercq, O.S.B. (1911-1993), per il quale nell’esperienza dei monaci del Medioevo désir de Dieu e amour des lettres procedevano necessariamente insieme. Così, ogni monastero aveva sempre una biblioteca e una scuola, perché senza questi strumenti era impossibile prepararsi e preparare a comprendere la Parola di Dio e quindi cercare Dio. Dunque, anche se lo scopo dei monaci non era creare la cultura europea – e insieme la teologia cattolica – di fatto essi furono condotti a crearla e a trasmetterla alle generazioni successive.

Ma di quale cultura si trattava? La cultura non è semplicemente l’insieme dei libri e delle biblioteche, ma «riguarda la comunità» (ibidem) e coinvolge anche i gesti e il corpo. «Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq» (ibidem). Leggere e cantare sono attività collegate, e sono attività essenziali in un rapporto con la Parola che è propriamente culturale ma che coinvolge insieme il corpo e lo spirito. «Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica» (ibidem). Del resto, «due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’immediata vicinanza di Dio» (ibidem). «Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni”» (ibidem).

Il «criterio supremo» di questa cultura insieme della Parola e del corpo va ben al di là della bellezza di una melodia: si tratta «di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle [1090-1153], che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino [354-430] per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere» (ibidem). Di qui, secondo il Papa – di cui è noto l’interesse per la musica classica – «è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo» (ibidem). I monaci non hanno come punto di riferimento un compositore che «inventa» una melodia, ma chi è capace di riconoscere nel mondo una musica che Dio vi ha immesso e che nel cosmo già vive.

Le radici della cultura europea – cultura dello spirito e del corpo, che comprende la riflessione filosofica e teologica, la letteratura, l’arte e la musica – scaturiscono dunque dalla ricerca da parte dei monaci di un accostamento adeguato alla Parola di Dio. Per così dire, i monaci trovarono la cultura europea – che segna ancora oggi tutti noi – senza cercarla, mentre riflettevano sul modo migliore per comprendere e insegnare la Bibbia. Si trattava di un compito arduo – ma di qui vengono appunto la profondità della riflessione e la ricchezza della cultura prodotta dai monaci – in quanto la Bibbia è stata composta «lungo più di un millennio», presenta al suo interno «tensioni visibili» e il suo «aspetto divino […] non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia [O.P., ?-1282], Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica [cioè riferita allo Spirito Santo, Pneuma]. Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta» (ibidem).

Parte da qui il brano del discorso del Collège des Bernardins dove Benedetto XVI spiega come le radici della cultura europea sono al tempo stesso le radici della teologia cattolica di tutta la Chiesa. È una teologia che, proprio sulla base della consapevolezza originaria secondo cui la Parola di Dio necessita d’interpretazione, «esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione» (ibidem).

Il richiamo alle radici permette di evitare due rischi, non solo uno. Se un rischio, infatti, è costituito dal fondamentalismo – il quale pretende che la Parola di Dio non abbia bisogno d’interpretazione, perché la semplice «letteralità del testo» sarebbe più che sufficiente – un altro rischio, simmetrico, consiste nell’interpretazione arbitraria fondata semplicemente su «la propria idea, la visione personale di chi interpreta» (ibidem). Per non essere fondamentalisti, oggi si rischia spesso di cadere nell’arbitrarietà e nel soggettivismo. In realtà, proprio studiando l’esperienza dei monaci da cui sono nate insieme la cultura occidentale e la teologia, scopriamo che dagli scritti di san Paolo essi traevano la convinzione che l’interpretazione non è mai un’avventura individuale ma è sempre un incontro con il Signore Gesù che avviene nel luogo in cui Egli ha voluto farsi incontrare nella storia, cioè nella Chiesa. Si pone così «un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità» (ibidem). È una riflessione molto attuale oggi «di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione» (ibidem).

L’esame delle radici monastiche dell’Europa non sarebbe completo se non si considerasse che il motto dei monaci era ora et labora, dunque non solo «prega» ma anche «lavora». Per quanto Benedetto XVI sia attaccato al tema delle radici greche dell’Europa, qui nota che se la Grecia non avesse incontrato il cristianesimo avrebbe continuato a passare accanto, senza afferrarli, ad aspetti essenziali della cultura: il lavoro, l’economia, il rapporto con le cose. Per i greci, infatti, il lavoro non faceva parte della cultura: era una cosa da schiavi. «Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo» (ibidem).

Come spesso avviene, un diverso atteggiamento psicologico nasconde un problema dottrinale, legato addirittura a una diversa concezione di Dio. «Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata» (ibidem). Al contrario il Dio degli ebrei e dei cristiani è il creatore e «lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini» (ibidem). Se dunque «il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano» (ibidem) non ci troviamo di fronte soltanto a una buona pedagogia di formazione all’impegno della volontà, ma a una nozione di cultura più ricca di quella greca, di cui fanno parte a pieno titolo anche le attività economiche e produttive: una nozione che sta tra l’altro a fondamento del grande sviluppo economico dell’Occidente, le cui radici sono anch’esse cristiane e monastiche.

Ma Benedetto XVI, tirando le somme di questo grande affresco delle radici monastiche della cultura europea, torna a ricordare che lo scopo dei monaci non era creare cultura ma quaerere Deum, cercare Dio. Non ci si può mettere a cercare Dio, come sapeva sant’Agostino, senza averlo in un certo senso già trovato. Legati com’erano all’esperienza di san Paolo, i monaci sapevano che all’Areopago – quando di fronte all’ara del Dio Ignoto, l’apostolo esclama: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (At 17, 23) – Paolo era partito dalla nozione (che è di ragione, non di fede) secondo cui «all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità ma la Ragione creativa» (Benedetto XVI 2008d). E tuttavia san Paolo era consapevole che «malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1, 14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole» (ibidem).

«La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (ibidem). In questo senso, la riflessione sulle radici monastiche della cultura europea costituisce un nuovo richiamo a riscoprire quel segreto dell’Europa, l’armonia fra fede e ragione, che già era al cuore del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona.

4. Le radici dell’Europa sono mariane

La «ragione principale» (Benedetto XVI 2008b) del viaggio di Benedetto XVI in Francia è la celebrazione del 150° anniversario delle apparizioni della Madonna a Lourdes: «il Papa aveva il dovere di venire a Lourdes» (Benedetto XVI 2008r). Non si tratta di una mera celebrazione: anzi, nel contesto del viaggio, il Papa ricorda che le radici cristiane e monastiche dell’Europa sono anche necessariamente radici mariane. Le apparizioni della Madonna che costellano la storia d’Europa negli ultimi secoli sono un forte e provvidenziale richiamo a queste radici, nel momento in cui l’Europa comincia a negarle. Lourdes – ma questo vale per ogni apparizione - «è come una luce nell’oscurità del nostro brancolare verso Dio. Maria vi ha aperto una porta verso un al-di-là che ci interroga e ci seduce» (Benedetto XVI 2008r).

Benedetto XVI si sente in qualche modo personalmente inserito nella storia di Lourdes: «il giorno della festa di Santa Bernadette [Soubirous, 1844-1879] è anche il giorno della mia nascita» (Benedetto XVI 2008a), e una figura cui il Papa si sente molto legato, il beato Charles de Foucauld (1858-1916), evangelizzatore e martire dei Tuareg musulmani del Sud dell’Algeria dopo essere stato militare, «nacque nel 1858, lo stesso anno delle apparizioni di Lourdes» (Benedetto XVI 2008p).

In un momento in cui le apparizioni mariane sono oggetto anche in best seller destinati al grande pubblico di critiche e di rifiuti fondati su pregiudizi razionalisti e laicisti (cfr. Augias e Cacitti 2008 e, per una critica, Introvigne 2008), il magistero s’impegna anzitutto in un giudizio sul fatto che non lascia spazio a equivoci. Il condizionale, utilizzato anche in qualche testo corrente che è opera di cattolici, è costantemente sostituito dal passato o dal presente storici: Bernadette «vide», Maria «rivela» (Benedetto XVI 2008l). Il testo delle apparizioni mariane è infatti secondo il Papa una «vera catechesi» della Madonna al mondo moderno (Benedetto XVI 2008m), che – in quanto tale – merita un’esegesi puntuale e sistematica da parte dello stesso magistero della Chiesa.

Questo testo a Lourdes non si compone soltanto di parole, ma anche di silenzi, di fenomeni che circondano le apparizioni e di gesti della Madonna. Tra questi il Papa ne commenta principalmente quattro: la luce – «Bernadette vide una luce e, dentro questa luce, una giovane signora» (Benedetto XVI 2008l) –; il segno della croce – che «introduce l’incontro» già in occasione della prima apparizione (Benedetto XVI 2008m) –; la corona del Rosario, che la Vergine tiene nelle mani – «durante le apparizioni è da rilevare che Bernadette recita la corona sotto gli occhi di Maria, che si unisce a lei al momento della dossologia»(Benedetto XVI 2008l) –; e il sorriso della Madonna, che ha tanto impressionato Bernadette e che è rimasto con lei per tutta la sua vita (Benedetto XVI 2008q).

Ognuno di questi segni è proposto alla nostra riflessione sulle radici mariane dell’Europa e sulla catechesi che mediante le apparizioni la Madonna stessa ha proposto al mondo. Il segno della luce è fondamentale per tutta la vita cristiana. In Mt 5, 14 «Cristo può ormai dire: “Voi siete la luce del mondo”» (Benedetto XVI 2008l). Lo dice a noi, che evidentemente «non siamo la luce» (ibidem). La nostra è una luce riflessa: diventiamo «luce del mondo» perché riceviamo la luce del Cristo per mezzo di Maria. Nel brano del Vangelo di Matteo richiamato dal segno mariano di Lourdes merita attenzione l’espressione «del mondo». Non solo «abbiamo bisogno di luce»: «siamo chiamati a divenire luce», «proporci come guide per i nostri fratelli» (ibidem). La luce non è qualche cosa che ci è donato solo per la nostra salvezza individuale, ma perché – in un mondo che progressivamente si scristianizza – ciascuno irradi la luce cristiana e mariana nel suo ambiente e nella società.

Il segno della Croce «è in qualche modo la sintesi della nostra fede» (Benedetto XVI 2008m): anch’esso rischia nel mondo moderno di essere banalizzato, ma il suo significato è molto profondo. Ogni volta che in pubblico facciamo il segno della Croce – che, «più che un semplice segno, è un’iniziazione ai misteri della fede» (ibidem) e che la Madonna stessa mostrò a Bernadette a Lourdes – stiamo almeno dando inizio alla missione affidata alla Chiesa di «mostrare a tutti» il volto di Dio (ibidem).

Il Rosario della Madonna a Lourdes è strettamente collegato al segno della luce: e forse, rileva Benedetto XVI, non è un caso che Giovanni Paolo II, tanto devoto alla Vergine di Lourdes, sia stato un Papa del Rosario «tra l’altro, in un modo del tutto singolare, arricchendo il Rosario con la meditazione dei Misteri della Luce», dal 2007 «rappresentati sulla facciata della Basilica [di Lourdes] nei nuovi mosaici» (Benedetto XVI 2008l). Il fatto che la Madonna stessa si unisca a Bernadette nella recita del Gloria «conferma il carattere profondamente teocentrico della preghiera del Rosario» (ibidem). Nello stesso tempo, il richiamo alle radici della cultura europea si precisa come richiamo a «quella straordinaria prossimità tra il cielo e la terra che non si è mai smentita e che non cessa di consolidarsi» (ibidem), in una storia d’Europa che non si comprende se si eliminano dal suo itinerario i segni e i prodigi del cielo e la forza della preghiera.

Il sorriso della Madonna – il «sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta» (Benedetto XVI 2008q) – non c’invita affatto a un «sentimentalismo devoto o antiquato» (ibidem). Non si deve infatti dimenticare che il sorriso di Maria nasce dall’«abisso del suo dolore» durante la Passione, suggerito «dal simbolo tradizionale delle sette spade» che le hanno trapassato il cuore: solo con la gloria della Resurrezione «le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà» (ibidem). Di questo sorriso la Madonna fa beneficiare la Chiesa e in particolare l’Europa attraverso il continuo «intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia» (ibidem). A Lourdes, prima d’iniziare con Bernadette una catechesi che comprende anche parole, «Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questo la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero» (ibidem). Questo sorriso è sempre disponibile per tutti i cristiani, ma occorre mettersi nell’atteggiamento giusto, quello dei frequenti «incontri di sguardo con la Vergine Maria», secondo un’espressione che Benedetto XVI cita dal monaco dom Jean-Baptiste Chautard, O.C.S.O. (1858-1935) – tra l’altro, anch’egli nato come il beato Charles de Foucauld nello stesso anno delle apparizioni di Lourdes – il cui insegnamento di «bella figura spirituale francese» il Papa raccomanda a ogni «cristiano fervoroso» (ibidem).

Anche se a Lourdes – rispetto, per esempio, alle successive apparizioni di Fatima, del 1917 – la Madonna ha pronunciato un numero limitato di parole, anche queste fanno parte della sua catechesi o direzione spirituale rivolta a un’Europa già nel 1858 in via di secolarizzazione. Pure queste parole sono oggetto di un commento dettagliato e puntuale da parte del Papa, che si sofferma in particolare su tre indicazioni della Madonna.

Nell’ottava delle diciotto apparizioni, il 24 febbraio 1858, la Madonna dice a Bernadette: «Penitenza! Penitenza! Penitenza! Pregate Dio per i peccatori! Andate a baciare la terra in penitenza per i peccatori!»; e nella nona apparizione, il giorno dopo 25 febbraio, aggiunge: «Andate a bere alla fonte e a lavarvi. Voi mangerete di quell'erba che è là». Il segno della terra e dell’erba e quello dell’acqua – che, come è noto, sarà in effetti trovata a Lourdes e sarà all’origine di tanti pellegrinaggi e miracoli – sono intimamente collegati alle radici, e intendono mostrarci che la radice è Maria stessa che al tempo stesso «è una sorgente di acqua viva» (Benedetto XVI 2008q). La liturgia della Chiesa la invoca come Fons amoris, ma lo fa nella sequenza della festa dell’Addolorata: ancora una volta l’amore nasce dal dolore (ibidem). Questo vale anzitutto per Maria nella sua vita terrena: e in questo senso Benedetto XVI – a fronte di equivoci vecchi e nuovi, secondo cui la decisione del Concilio Vaticano II di non dedicare un documento monotematico alla Madonna ma d’inserire la mariologia nella costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium avrebbe in qualche modo sminuito la sua importanza – ribadisce che, attraverso una scelta che aveva del resto solide ragioni teologiche e patristiche, «il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa» (ibidem). Ma il rapporto profondo – e non sentimentale – fra dolore e amore vale oggi anche per i malati di Lourdes, i quali apprendono che Gesù Cristo, cui sono invitati a donarsi per mezzo di Maria, «non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta: la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattie, per sopportarla e viverla con lui» (ibidem). In un mondo che, nonostante il progresso della medicina, troppo spesso rifiuta di vedere il malato e lo isola, «la presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento» (ibidem).

Nella tredicesima apparizione, il 2 marzo 1858, la Madonna chiede a Bernadette: «Andate a dire ai sacerdoti che si venga qui in processione e che si costruisca una cappella». Non chiede solo, nota Benedetto XVI, che si venga in pellegrinaggio ma che si venga «in processione». Vi è qui un insegnamento molto profondo sulla «comunione della Chiesa» (Benedetto XVI 2008l): non riscopriremo le radici e non risolveremo i nostri problemi da soli, né attraverso interpretazioni soggettive, ma soltanto nella Chiesa e con la Chiesa, in un’ideale processione sulla «strada luminosa» che da Lourdes «si apre nella storia degli uomini» (ibidem). Insieme, la processione cui siamo invitati dalla Vergine è molto di più, perché con noi sfilano grazie al mistero della comunione dei santi anche coloro che già si trovano in Paradiso, che realmente ci accompagnano e ci sostengono, così che il passato dell’Europa e del mondo cammina nel presente: la processione, infatti, «unisce eletti del cielo e pellegrini della terra» (ibidem).

Infine, con la sedicesima apparizione del 25 marzo 1858 si giunge al cuore teologico delle apparizioni. Dopo che Bernadette le aveva chiesto più volte di dirle il suo nome, la Signora rispose nel dialetto del luogo «que soy era Immaculada Concepciou», «che era l’Immacolata Concezione». Il beato Papa Pio IX (1792-1878) aveva proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione – secondo cui la Vergine Maria è stata preservata dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento – solo quattro anni prima, con la bolla Ineffabilis Deus dell'8 dicembre 1854. Bernadette, peraltro, non ne aveva mai sentito parlare. Ci si può chiedere se l’evento straordinario della conferma di un dogma da poco proclamato da parte della Madonna rimanga una mera curiosità storica o abbia a che fare con l’esperienza quotidiana di noi che purtroppo con le conseguenze del peccato originale dobbiamo avere a che fare tutti i giorni. Benedetto XVI risponde positivamente: «Questo privilegio [della Madonna] riguarda anche noi» (Benedetto XVI 2008m). «Questo privilegio concesso a Maria, che la distingue dalla nostra comune condizione, non l’allontana ma al contrario la avvicina a noi. Mentre il peccato divide, ci allontana gli uni dagli altri, la purezza di Maria la rende infinitamente prossima ai nostri cuori» (Benedetto XVI 2008n). Di fatto, la Chiesa sa e sperimenta che «ciò che molti, per imbarazzo o per pudore, non osano a volte confidare neppure ai loro intimi, lo confidano a Colei che è la tutta pura» (ibidem). «La vita e la fede del popolo credente rivelano che il privilegio dell’Immacolata Concezione fatto a Maria non è una grazia solo personale, ma per tutti, una grazia fatta all’intero Popolo di Dio. […] In lei ogni credente può fin d’ora contemplare il compimento perfetto della sua personale vocazione» (ibidem).

5. Le radici dell’Europa si mostrano ancora

Le radici religiose, cristiane, monastiche e mariane dell’Europa sono un semplice riferimento storico o una realtà viva e presente ancora oggi? Evidentemente, se si trattasse di un puro richiamo storico il loro interesse sarebbe limitato agli specialisti. Ma, ci assicura Benedetto XVI, non è così: le radici sono ancora tra noi. Lo sono, anzitutto, di fatto. Nel Paese europeo con la più bassa percentuale di partecipanti settimanali a riti religiosi, la Francia, il Papa non ha paura di testimoniare la «convinzione che i tempi siano favorevoli a un ritorno a Dio» (Benedetto XVI 2008r). Di fronte ai dati sociologici, questa convinzione potrebbe sembrare infondata. Tuttavia, il Papa ritiene che il grande interesse per le testimonianze artistiche, musicali e letterarie del cristianesimo – che si riscontra anche in un Paese molto secolarizzato come la Francia – possa diventare per molti, opportunamente evangelizzato e indirizzato, il primo passo di un itinerario di riscoperta della fede. I giovani, se da un lato sono «la preoccupazione più grande» del Papa (Benedetto XVI 2008b), dall’altro «pur vivendo in un mondo che li corteggia e blandisce i loro bassi istinti, e portando essi pure il fardello pesante di eredità difficili da assimilare, […] conservano una freschezza d’animo che ha suscitato la mia ammirazione», in particolare in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Sydney (Benedetto XVI 2008o). La speranza, dunque, non solo – come afferma il proverbio – è l’ultima a morire, ma di fatto non è morta.

In secondo luogo, vi sono ragioni di principio per affermare che anche una società secolarizzata e che si dichiara laica come quella francese porta in sé il segno delle radici cristiane. Infatti, «la laicità di per sé non è in contraddizione con la fede. Direi anzi che è un frutto della fede, perché la fede cristiana era, fin dall'inizio, una religione universale dunque non identificabile con uno Stato, presente in tutti gli Stati e diversa in ogni Stato» (Benedetto XVI 2008a). Per comprendere come la vera laicità derivi dalla fede, e non vada confusa con un laicismo antireligioso, è necessario – soprattutto in Francia – superare antichi pregiudizi e tornare a riflettere sul significato della stessa laicità. Rivolgendosi all’Eliseo al presidente Sarkozy, Benedetto XVI afferma: «Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, la bella espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. […] Una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. È fondamentale, infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società» così come alla diffusione di quella speranza di cui «ogni umana società» – specialmente nei suoi giovani – ha bisogno per sopravvivere (Benedetto XVI 2008b). A chi guarda le vecchie ostilità fra Stato e Chiesa in Francia e il carattere profondamente antireligioso dell’antica laïcité la possibilità di condurre con serenità questa riflessione può apparire difficile. Tuttavia, Benedetto XVI vuole provare a ripartire dalle aperture del presidente Sarkozy: «nel quadro istituzionale esistente e nel massimo rispetto delle Leggi in vigore, occorrerebbe trovare una strada nuova per interpretare e vivere nel quotidiano i valori fondamentali sui quali si è costruita l’identità della Nazione.  Il vostro Presidente ne ha evocato la possibilità. I presupposti socio-politici dell’antica diffidenza o persino ostilità svaniscono poco a poco» (Benedetto XVI 2008o). È almeno, per usare una parola cara sia al presidente Sarkozy sia a Benedetto XVI, una speranza.

6. Le radici dell’Europa vanno ravvivate

Uno dei temi cari a Benedetto XVI è la contemporaneità del politeismo. Potrebbe sembrare – il Papa ne ha trattato in modo approfondito nel corso del viaggio in Australia – che gli ammonimenti del Signore al popolo ebraico nell’Antico Testamento perché rifugga dal politeismo e dall’adorazione di molti falsi dèi non abbiano nulla da dire ai giovani di oggi. È precisamente il contrario: solo che oggi il politeismo non si manifesta nelle «divinità dell’Olimpo» (Benedetto XVI 2008i) ma in idoli che si chiamano ricchezza, sesso, potere e anche relativismo e secolarismo. Il «culto degli idoli» è dunque ancora ben presente oggi, e «distoglie dalla realtà chi lo serve per confinarlo nel regno dell’apparenza» (ibidem). Le radici cristiane dell’Europa fondano una cultura del monoteismo che si oppone agl’idoli. Oggi queste radici, che come si è visto sono ancora presenti ma rischiano di essere dimenticate o negate, vanno ravvivate con un programma sistematico di evangelizzazione.

Di questo programma sistematico Benedetto XVI propone quattro tappe. La prima si ricollega direttamente all’esperienza dei monaci, e invita – nell’imminenza di un’Assemblea del Sinodo dei Vescovi dedicata alla Sacra Scrittura, e in un Paese dove le statistiche sull’ignoranza religiosa sono allarmanti – a studiare la Parola di Dio, tornando alla «celebre formula di san Girolamo» (347-420) secondo cui «ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (Benedetto XVI 2008e). Per evitare tuttavia – secondo un rischio che abbiamo visto come già presente ai monaci – che l’interpretazione diventi arbitrio soggettivo, l’incontro con le Scritture dovrà essere mediato dalla catechesi, che «non è innanzitutto una questione di metodo, ma di contenuto» (Benedetto XVI 2008o). In un contesto dove si apprezza il «grande realismo» delle previsioni del «più grande catechista di tutti i tempi», san Paolo, secondo cui «verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2 Tm 4, 3-4), il Papa invita – come fa in tutti i suoi viaggi – all’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica e del relativo Compendio come bussola sicura per rimanere fedeli alla dottrina cattolica.

La seconda tappa è la meditazione sulla Croce che, forse non a caso, Benedetto XVI propone proprio su quel sagrato della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi dove la presenza di una grande croce era stata contrastata nel novembre 2004 dal sindaco socialista (nonché militante omosessuale) della capitale francese, Bertrand Delanoë, per presunto contrasto con le leggi sulla laïcité in vigore (AFP 2004). «Molti di voi – dice il Papa ai giovani – portano al collo una catena con una croce. Anch’io ne porto una, come tutti i Vescovi del resto. Non è un ornamento, né un gioiello. È il simbolo prezioso della nostra fede, il segno visibile e materiale del legame con Cristo» (Benedetto XVI 2008f). Perché la croce non sia solo un ornamento, è obbligatorio che sia occasione di meditazione sulla passione di Cristo e sul peccato degli uomini che l’ha resa necessaria. E che dalla meditazione sul peccato fiorisca il desiderio della confessione, un altro tema che ricorre in tutti i viaggi di Benedetto XVI, a fronte di statistiche davvero desolanti – anche in Francia – sullo scarso numero di cattolici che si accostano al sacramento della penitenza. Ai vescovi il Papa chiede di esortare senza sosta i sacerdoti a rendersi disponibili con generosità per le confessioni, sull’esempio di un grande santo francese, il santo curato d’Ars Giovanni Maria Vianney (1786-1859: Benedetto XVI 2008o).

La terza tappa di un itinerario che mira a ravvivare la coscienza delle radici cristiane è la cura della liturgia. In Francia, certo, pochi vanno a Messa: senza che questa sia l’unica causa, ci si deve chiedere se la qualità della liturgia sia sempre quella che auspicavano gli antichi monaci, come si è visto assai severi nei confronti di canti o preghiere recitate male. «La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita» (Benedetto XVI 2008e). Come modello di amore per l’Eucarestia e la Messa Benedetto XVI addita un altro santo francese, l’apostolo dell’adorazione eucaristica san Pier Giuliano Eymard (1811-1868: Benedetto XVI 2008p). Si situano qui anche le riflessioni del Papa sull’accoglienza – o talora sulla non accoglienza – in Francia del suo Motu Proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, che liberalizza la celebrazione della Messa secondo la liturgia romana anteriore alla riforma del 1970. Di fronte alle controversie che derivano in Francia dalla riluttanza di alcuni vescovi ad aderire al Motu Proprio il Papa invoca «l’indispensabile pacificazione degli spiriti» (Benedetto XVI 2008o), ma nello stesso tempo è costretto a ricordare che «non c’è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia» (Benedetto XVI 2008a). Lo spirito del Motu Proprio non è quello di creare piccole enclave di sostenitori dell’antico rito, ma di favorire la qualità della liturgia in genere attraverso il «mutuo arricchimento» (ibidem) fra i due riti, che dunque dovrebbero essere entrambi conosciuti da molti fedeli, fermo restando che «la liturgia rinnovata è la liturgia ordinaria del nostro tempo» (ibidem). Purtroppo, da questa situazione si è ancora lontani, forse non solo in Francia.

La quarta tappa è la devozione mariana. «I cattolici in Francia hanno più che mai bisogno di rinnovare la loro fiducia in Maria» (Benedetto XVI 2008g), riscoprendo le loro radici che si trovano a Notre-Dame, a Lourdes, e in mille altri luoghi mariani, e superando obiezioni che vorrebbero considerare la devozione alla Madonna come obsoleta, sentimentale o magari un ostacolo al dialogo ecumenico con le comunità protestanti. In realtà, «tutto è venuto da Cristo, anche Maria; tutto è venuto mediante Maria, lo stesso Cristo» (Benedetto XVI 2008p).

Come frutto del ritorno alle radici cristiane, Benedetto XVI spera – in un Paese dove questo, da anni, lascia a desiderare – in un rinnovato impegno politico dei laici nel quadro di un’Europa cui chiede di tutelare, meglio di quanto non stia facendo, «i diritti inalienabili della persona umana, dal concepimento fino alla morte naturale, come anche quelli relativi all’educazione libera, alla vita familiare, al lavoro, senza dimenticare naturalmente i diritti religiosi» (Benedetto XVI 2008b). Leggi ostili alla vita si paludano, oggi, di richiami alla scienza. Nella sua visita all’Institut de France Benedetto XVI cita – come qualcosa che è stato affermato «molto giustamente» – un’espressione del Pantagruel (1532) di François Rabelais (1494?-1553): «Scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima» (Benedetto XVI 2008h). La famiglia – nel Paese che ha inventato nel 1999 i PACS (Patti Civili di Solidarietà), estesi anche alle coppie omosessuali, ma anche altrove in Europa –, appare dovere affrontare «oggi delle vere burrasche» (Benedetto XVI 2008o). «Da vari decenni le leggi hanno relativizzato in molti Paesi la sua natura di cellula primordiale della società. Spesso le leggi cercano più di adattarsi ai costumi e alle rivendicazioni di particolari individui o gruppi, che non di promuovere il bene comune della società. L’unione stabile di un uomo e di una donna, ordinata alla edificazione di un benessere terreno, grazie alla nascita di bambini donati da Dio, non è più, nella mente di certuni, il modello a cui l’impegno coniugale mira» (ibidem). Torna qui un ulteriore tema che Benedetto XVI tratta spesso: lo Stato ordinato al bene comune adatta le sue leggi alla legge naturale; lo Stato relativista è semplicemente il notaio che prende atto di quanto – dalle unioni omosessuali alla poligamia – nella società già si trova, e lo traduce in legge. E il clima creato dallo Stato relativista talora insidia anche la Chiesa, che pure sa di non avere il potere di cambiare norme «che le ha affidato il suo Fondatore» (ibidem). In tema di famiglia, «una questione particolarmente dolorosa, come sappiamo, è quella dei divorziati risposati. La Chiesa, che non può opporsi alla volontà di Cristo, conserva con fedeltà il principio dell’indissolubilità del matrimonio, pur circondando del più grande affetto gli uomini e le donne che, per ragioni diverse, non giungono a rispettarlo. Non si possono dunque ammettere le iniziative che mirano a benedire le unioni illegittime» (ibidem).

La testimonianza di un numero socialmente significativo di laici cattolici nel campo della politica e delle leggi – sulla base di un’integrità di dottrina che oggi è minacciata – è, come si è accennato, un frutto che non potrà che venire al termine di un itinerario di cui la catechesi, la confessione, la Messa e la devozione mariana non sono momenti esortatori e in qualche modo superflui, ma sono i passaggi indispensabili e cruciali. Per riprendere il titolo dell’opera di dom Chautard citata dal Papa a Lourdes, L’anima di ogni apostolato è la vita spirituale, senza la quale non si dà propriamente apostolato neppure in campo sociale e politico. Nella Messa solenne per il 150° anniversario delle apparizioni di Lourdes, il Papa cita la sua stessa enciclica Deus caritas est, che al n. 36 si esprime in termini molto vicini all’insegnamento di dom Chautard: «Chi prega non spreca il suo tempo, anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell’emergenza e sembra spingere unicamente all’azione» (Benedetto XVI 2008m).

 

Riferimenti

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