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Il film dell’orrore come film religioso. Una recensione di “Sacred Terror” di Douglas Cowan

di Massimo Introvigne

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Nel 2001 in un volume pubblicato in onore di Antoine Faivre, per molti anni docente di Storia del misticismo e dell’esoterismo occidentale alla Sorbona, sottolineavo come l’illustre storico francese fosse stato il primo a dedicare corsi e studi universitari ai vampiri. Notavo pure come, in molti Paesi, a prendere sul serio temi come il mito del vampiro fossero stati per primi studiosi che venivano dagli studi sulle religioni: non solo Faivre in Francia, ma anche J. Gordon Melton negli Stati Uniti e il sottoscritto in Italia. Non mi sembrava una coincidenza: i vampiri hanno a che fare con la vita dopo la morte, l’immortalità, il simbolismo del sangue, tutti temi intrinsecamente religiosi.

Su questa problematica si diffonde ora in modo molto più completo e profondo il sociologo canadese Douglas Cowan, nel suo Sacred Terror. Religion and Horror on the Silver Screen (Baylor University Press, Waco 2008). Forte di una conoscenza enciclopedica dei film dell’orrore (si dedica un po’ meno alla televisione, ma dopo tutto il libro è sul cinema), Cowan sostiene che il successo di questo genere cinematografico è dovuto in buona parte al fascino del mysterium che, come insegnava Rudolf Otto (1869-1937). rimanda necessariamente al sacro, e a continue allusioni alla religione. In particolare, secondo Cowan, i film dell’orrore giocano su cinque categorie di paure (in gergo sociologico, “sociofobie”) collegate alla religione, ampiamente diffuse nel corpo sociale del ventesimo secolo (e del ventunesimo).

La prima è la paura di cambiamenti nell’ordine sacro, cristiano, che ci è familiare. Questi possono manifestarsi in tre modi: inversione, invasione e irrilevanza. L’inversione è la tesi secondo cui un’istituzione che consideriamo come la quintessenza del bene, la Chiesa, in realtà è malvagia. È la tesi di film anti-cattolici come Stigmata o Vampires (del regista John Carpenter) e naturalmente de Il Codice da Vinci, che però non è un film dell’orrore. L’invasione è l’irruzione nella nostra società di divinità aliene e minacciose, che si tratti degli dei egizi o di quelli immaginati da Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), che hanno ispirato decine di pellicole. L’irrilevanza è l’incapacità della religione – messa in scena per esempio nel ciclo di Hellraiser – di resistere a forme di malvagità così estreme che sembrano prevalere, nonostante l’evangelico “non praevalebunt”.

La seconda sociofobia è la paura associata ai luoghi sacri, dai templi precristiani o indù alle abbazie o ai cimiteri. Nei confronti di questi luoghi, nota Cowan, abbiamo una reazione di ambivalenza: ne subiamo il fascino, ma ne abbiamo anche paura. E fin dal romanzo gotico il pregiudizio anti-cattolico ha aumentato la paura delle abbazie e dei conventi, tanto più se medievali o legati a leggende di fantasmi. Ci sono anche dei luoghi sacri postmoderni, come è Roswell nel New Mexico per chi crede agli UFO. E alcuni sono stati inventati dal cinema come Burkittsville, nel Maryland, collegato alla stregoneria solo da un film, The Blair Witch Project, che riuscì a far credere a milioni di persone di essere basato su una storia vera (non lo era).

La terza categoria – il timore della morte e della “mala morte” – fa evidentemente da sfondo ai film sui fantasmi, gli zombi, le mummie e i vampiri. Cowan ci guida da par suo nell’autentica foresta costituita da migliaia di titoli su questi temi, notando l’importanza della paura di essere sepolti vivi e di rimanere intrappolati tra vita e morte. Quest’ultima è condivisa anche da culture non cristiane, e spiega il successo di film indiani o cinesi sugli spettri o i vampiri. Il film tradizionale di vampiri, secondo Cowan, è quasi un’allegoria cristiana: alla fine sono la croce e l’acqua santa (cattolica) a sconfiggere il Dracula di turno. Anche il ciclo Dracula 2000 – in cui scopriamo che Dracula è Giuda Iscariota – finisce per presentare visioni del peccato e della redenzione. Ma tutto cambia in film come il citato Vampires di Carpenter dove la Chiesa, o almeno una parte della Chiesa, sta con i cattivi, con i vampiri (ancora l’inversione). E se scriverà un secondo volume, tenendo conto dei prodotti più recenti e della televisione, Cowan potrà riflettere sulle serie televisive dove il vampiro lavora come investigatore privato (Angel, Moonlight e Blood Ties, quest’ultima ambientata nella stessa città, Toronto, dei primi telefilm del genere, la serie degli anni 1990 Forever Knight) – che combinano così i due generi principali del serial televisivo – e su film come Twilight. In entrambi i casi i vampiri non sono i cattivi ma i buoni (nei romanzi di Twilight l’autrice Stephenie Meyer, una devota mormone, li fa perfino predicare a favore dei valori familiari): che si tratti di un altro genere d’inversione?

La quarta categoria è il timore del male soprannaturale, principalmente del Diavolo. Ridicolizzati dai critici, film come L’esorcista e Rosemary’s Baby sono stati presi sul serio da milioni di persone e hanno indotto gli stessi teologi a dedicare numeri di riviste e libri a temi che sembravano dimenticati come l’esorcismo e il satanismo. La dialettica fra scetticismo ed esorcismo, nota Cowan, ritorna al cinema con un film di qualità del 2005, L’esorcismo di Emily Rose, basato sulla storia vera di due esorcisti cattolici condannati per omicidio colposo in Germania dopo che la loro “paziente”, Anneliese Michel (1952-1976), era morta. Molti, fra cui l’antropologa (non cattolica) Felicitas Goodman, scrissero allora che l’esorcismo non aveva fatto che del bene a una ragazza comunque incurabile dalla medicina, e che i giudici tedeschi avevano dato una brutta prova di scientismo e di anticlericalismo. Comunque sia, il successo del film dimostra che nel 2005 il pubblico era più favorevole agli esorcisti che nel 1976.

Ma questo favore non si estende alle religioni meno conosciute e minoritarie, al “fondamentalismo” e alle “sette”, oggetto della quinta sociofobia cinematografica studiata da Cowan. Naturalmente alcune “sette” e alcuni “fondamentalisti” si sono davvero resi responsabili di crimini orrendi. Ma Cowan, egli stesso uno specialista di nuovi movimenti religiosi, sa con quanta facilità i giornali – e dunque il cinema – estendano la critica di gruppi estremi alla religione in genere. Così, se ci sono film che mettono in scena le attività criminali di gruppi neopagani o dediti alla stregoneria (ma la loro reazione ha portato Hollywood a proporre anche prodotti dove questi sono presentati positivamente, come la serie televisiva Streghe), ce ne sono molti di più che se la prendono con le suore cattoliche, secondo una tradizione che in letteratura risale almeno al semi-pornografico La Religieuse dell’illuminista Denis Diderot (1713-1784). Naturalmente la suora cattiva, demoniaca ma soprattutto poco vestita serve principalmente a solleticare gli istinti meno nobili del pubblico. Ma Cowan ha ragione di ricordarci un’ampia letteratura sociologica che nota come l’anti-cattolicesimo è curiosamente l’ultimo pregiudizio che la società contemporanea sembra disposta a tollerare. Ci si può chiedere se, anziché di suore, si trattasse di monaci buddhisti – ma nel buddhismo esistono anche le monache – o di imam la tolleranza verso questi film non sarebbe assai minore.

Il caso della nunsplotation, lo sfruttamento cinematografico delle suore, pone un quesito che ha valenza generale: non si rischia di perdere tempo cercando significati ultimi, addirittura religiosi, in prodotti meramente commerciali? La domanda, risponde Cowan, è mal posta. Anche quando si tratta di pessimi film (ma non è sempre così) che sfruttano le paure del pubblico, il vero quesito è perché i produttori scelgono certe paure e non altre. Se tanto spesso si rivolgono a paure religiose, è perché la religione – compresa la credenza nel Diavolo, nell’Inferno e nell’aldilà – è molto più presente nel corpo sociale di quanto non sia nella piccola comunità dei critici cinematografici, in maggioranza non religiosi e liberal. Se è così, anche i film dell’orrore hanno di fronte un lungo futuro.